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Giuliano Confalonieri

 

GLI ARTEFICI DELLA PITTURA IMPRESSIONISTA

stile, colore e vite vissute

 

 

         Nel 1960 fu edito “Il taccuino di un vecchio”, conclusione della trilogia del poeta Giuseppe Ungaretti (1888/1970), versi che sottolineano l’ansia dell’esistenza quotidiana, sempre in bilico tra la positività e la negatività dell’esperienza. Nel lavoro di Giacomo Leopardi (1798/1837) affiorano i dualismi natura e morte, piacere e dolore, temi universali che angosciano da sempre l’essere umano; anche il ‘poeta del limbo’ Francesco Petrarca (1304/1374) parla del regno dove il dolore è eterno. Marco Tullio Cicerone ha scritto “La vecchiezza-De senectute” nel quale dialoga sull’argomento lodando “quella vecchiezza che sta salda sui fondamenti posti nella giovinezza; la vecchiezza ha un’autorità così grande che vale più di tutti i piaceri della giovinezza”. Ippolito Nievo scrisse “Confessioni di un italiano ottuagenario”, Italo Svevo (1861/1928) si sofferma sull’arida inerzia della “Senilità”, Giuseppe Berto (1914/1978) subisce il “Male oscuro”, ovvero un’inquieta autoanalisi psicologica. Albert Caraco, nato a Costantinopoli nel 1919 e morto suicida nel 1971 il giorno dopo la morte del padre, ha pubblicato due libretti nei quali nichilismo e anarchia soverchiano ogni altra interpretazione della realtà: “Post mortem” e “Breviario del caos”. L’inglese Oscar Wilde (1854/1900) in “De profundis”opera scritta in carcere e pubblicata postuma —  esprime una torbida amarezza cancellando la sua propensione all’autocompiacimento estetico. Fèdor Dostoevskij (1821/1881) in “Umiliati e offesi” e “Memorie del sottosuolo” esprime la sofferenza della solitudine e della malinconia: “Se ciascuno di noi fosse obbligato a rivelare i lati più nascosti di se stesso, nel mondo si spargerebbe una tale puzza da soffocare tutti quanti”. Il suo contemporaneo Ivan S. Turgenev (1818/1883) in “Padri e figli” appoggia l’analisi dei comportamenti sul nichilismo che nega la realtà. William Shakespeare (1564/1616) propende in molte sue tragedie al pessimismo con il quale conferma l’irrazionale tramite personaggi sanguigni. Sono tutte motivazioni valide per ogni artista con le motivazioni psicologiche che gli permettono di uscire dalla normalità per entrare nel mondo dell’immaginazione.

 Autori con un patrimonio d’ingegno da sommare a quello dei grandi nomi del passato. Abbiamo le loro sensazioni ed angosce trasmesse nelle opere: vite che si sono fissate nella memoria di ognuno come i quadri appesi nei musei. Hanno lasciato la testimonianza degli ambienti e delle persone con le quali hanno convissuto. Forse è stata la loro diversità a farli diventare protagonisti: la sofferenza che hanno vissuto quotidianamente ci è stata trasmessa in modo diretto e generoso, così come — in campo letterario — gli irrequieti Arthur Rimbaud e Charles Baudeleire. L’astrofisica Margherita Hack commenta “L’idea che esista Dio mi sembra talmente assurda! Non c‘é né Dio, né l’aldilà, né l’anima. Quello che noi chiamiamo anima è il nostro cervello”.

 L’anticonformismo sulla mostruosa quotidianità dell’americano Charles Bukowski (1920/1994) è un altro modo di negare l’esistenza così come — con un azzardato confronto letterario — in “Viaggio al termine della notte” lo scrittore francese Louis Céline (1894/1961) riflette la sua concezione della vita, disperata e sarcastica. Cesare Pavese (1908/1950) è perentorio quando afferma che “la guerra rialza il tono della vita perché organizza la vita interiore di tutti intorno a uno schema d’azione semplicissimo — i due campi — e sottintendendo l’idea della morte sempre pronta fornisce alle azioni più banali un suggello di gravità più che umana”. Blaise Pascal (1623/1662) completa il sintetico “So solo che non so nulla” di Socrate (Atene 469/399 a.C.) con la riflessione: “Io non so chi mi abbia messo al mondo né che cosa siano il mondo o me stesso. Sono in una terribile ignoranza di tutte le cose. Non so cosa siano il mio corpo e i miei sensi, la mia anima e quella parte stessa di me che pensa ciò che io dico, che mette su tutto e su se stessa e non si conosce più che le altre cose. Non vedo intorno a me che infiniti, che mi imprigionano come un atomo e come un’ombra destinata a durare un attimo senza ritorno. Ciò solo io conosco: che presto dovrò morire; ma quel che più mi è ignoto è questa morte appunto cui non posso sfuggire”.

 

L’Impressionismo è la corrente pittorica nata in Francia tra il 1867 e il 1880. Il gruppo cominciò a crearsi prima quando a Parigi si incontrarono Monet e Cézanne. Nel 1863 Manet espose Le dejeuner sur l’erbe iniziando un dibattito fra il gruppo dei giovani pittori e della critica  (sono gli anni degli scritti di Emile Zola in difesa dell’arte di Manet). La ricerca del nuovo stile diede i primi maturi risultati quando Monet dipinse dal vero le spiagge della Normandia e tentò di riprodurre gli effetti della luce sull’acqua della Senna.  Al Salon del 1868 parteciparono quasi tutti i giovani pittori ma la critica ed il pubblico non ne furono entusiasti, probabilmente perché ancora influenzati dal romanticismo. La guerra del 1870 disperse il gruppo fino a quando si cominciarono ad apprezzare e raccogliere le loro opere fino alla ricchezza dell’attuale Musée d’Orsay parigino. Nel 1874 Degas organizzò la prima esposizione del nuovo movimento nello studio del fotografo Nadar; in quella occasione si iniziò ad usare il termine Impressionisti derivato dal quadro di Monet Impression soleil levant. Seguirono altre mostre ed il pubblico cominciò a gradire questo genere di quadri pungolato dalle evoluzioni stilistiche dei singoli artisti. La pittura dal vero, basata sul sentimento individuale di fronte al soggetto, qualunque esso sia, è la sensazione visiva di un insieme di colori che variano col mutare delle condizioni di luce. Dipingendo paesaggi “en plein air dove la luce non è più unica, e si verificano effetti multipli” (E. Zola) ottiene nuovi risultati con le infinite possibilità del colore, sempre più luminoso. La rivoluzione degli impressionisti fu una rivoluzione dello stile. Gli ambienti, i paesaggi, i delicati ritratti e le scene di vita quotidiana riflettevano una società senza problemi, incline a godere della bellezza delle piccole cose. Era ancora la vita descritta nell’opera Boheme quando molti giovani artisti si sentivano coinvolti in un caloroso abbraccio sentimentale. La loro caratteristica sono i contrasti di luci ed ombre, colori vividi fissati sulla tela, gli alberi assumono forme e tinte insolite come l’azzurro, il nero viene quasi escluso preferendo le sfumature del blu e del marrone. Gli artisti dipingevano con il cavalletto portatile, con una tecnica rapida per completare l’opera in poche ore, avvinti dal vero del cielo, dell’atmosfera, dell’acqua: oggetti e persone hanno la medesima pennellata ampia e decisa La nuova concezione pittorica fu alla base di tutte le avanguardie artistiche che seguirono, non escluse le correnti astratte.

 

 

Vincent Van Gogh (Olanda 1853/1890)

Nel biennio 1886/1888 Van Gogh ha rapporti con il movimento degli Impressionisti che annovera Paul Gauguin e Toulouse-Lautrec, conoscenze fondamentali per il lavoro più proficuo eseguito durante il soggiorno ad Arles (l’etichetta di questo stile deriva dal titolo di un quadro di Claude Monet). Di carattere ansioso, passò da un lavoro all’altro iniziando il percorso che lo avrebbe allontanato dal tessuto sociale, incrementando le psicosi probabilmente di natura ereditaria (“tristezza che non avrà mai fine”). Figlio primogenito di un pastore protestante, terminati gli studi fu assunto da una ditta di mercanti d’arte all’Aia, nella sede londinese e infine nella filiale di Parigi. Ritornò in Olanda nel 1876 dopo il licenziamento tentando allora la strada di insegnante di lingue. Andò poi ad Amsterdam per diventare teologo ma la prova fallì. Decise comunque di andare alle miniere dimostrando fervore nel difendere la causa dei lavoratori anche negli scioperi più duri. Nell’autunno 1880, dopo mesi di solitudine, decise di dedicarsi alla pittura. Il ritorno alla casa paterna non placò i conflitti interiori, acuiti dal suo amore per una prostituta con la quale convisse orgoglioso della sua indipendenza di pittore nella povertà. Dopo la morte del padre si trasferì ad Anversa e raggiunse il fratello Theo a Parigi (nei due anni di permanenza scoprì la pittura impressionista, l’arte giapponese e conobbe Toulouse-Lautrec). Si trasferì nel Mezzogiorno della Francia stabilendosi ad Arles, entusiasta della luce del sud, pieno di ricordi e di cose viste e vissute che gli crescevano dentro. Nell’ambiente che gli era congeniale dipinse molti capolavori, tra i quali alcune delle sue immagini più serene. L’attività di Théo commerciante di opere d’arte – lo aveva introdotto nel mondo nuovo per lui del colore e della comunicazione. Uno dei lavori del primo periodo fu il quadro “mangiatori di patate” dove mostrava simpatia verso le classi più umili rappresentando “coloro che esprimono la dignità della propria umanità, vivendo pur miseramente ma del prodotto del loro lavoro”. Anni dopo a Parigi era ancora convinto che “le scene dei contadini che mangiano patate” fosse uno dei suoi dipinti più significativi per il contenuto etico. Van Gogh iniziò a dipingere a 28 anni senza una precisa predisposizione, forse richiamato a questo lavoro dalla conoscenza dei braccianti e dei minatori perché figlio di un pastore protestante; qui volle unire la solidarietà sociale al messaggio evangelico ma gli organi ufficiali della Chiesa – ancora eccessivamente chiusa alle istanze sociali – gli negò il consenso alle novità ‘missionarie’. A Parigi comprese l’esigenza di concentrarsi sulla tecnica pittorica avvicinandosi al mondo impressionista senza tuttavia accettarlo perché voleva congiungersi con le cose senza falsi effetti. In Provenza trovò l’ambiente ideale per questa teoria: infatti nell’opera Pianura della Crau, dipinta ad Arles nel 1888, i colori risultano più intensi. Si sforzò di rendere la realtà alterando il colore per esprimere l’interiorità attraverso l’esagerazione: “dipingere l’infinito con il turchino più intenso e più violento, dipingere uomini e donne con qualcosa di eterno mediante la vibrazione dei nostri colori, il ritratto con dentro il pensiero, l’anima del modello, esprimere l’amore di due innamorati con il matrimonio di due colori complementari”.

Assorbì il concetto che l’arte non deve essere un semplice strumento ma un mezzo di trasformazione della società e dell’esperienza umana contro la crescente tendenza all’alienazione ed alla mistificazione. Anche la tecnica della pittura deve mutare, opponendosi al razionalismo della macchina con le forze profonde dell’essere umano. Ogni segno è un gesto con il quale affronta la realtà per cogliere il contenuto essenziale della vita. Miseria, tormento e solitudine lo avrebbero accompagnato sempre malgrado parentesi serene e commenti favorevoli per i suoi quadri da parte di personalità di spicco come Victor Hugo ed Emile Zola. La soggettività introversa lo avvicinò all’autodistruzione. A cavallo dell’Ottocento e del Novecento furono allestite le grandi mostre a Berlino, accompagnate dalla stampa del volume critico di Felix Fénéon “Gli impressionisti nel 1886”. Dopo un periodo di vicinanza  ricca di reciproci stimoli con Paul Gauguin,  il rapporto si deteriorò e quindi Vincent, disperato, si tagliò il lobo dell’orecchio (alcuni terribili autoritratti testimoniano l’episodio) con ricovero ospedaliero. Qui dipinse molto, è il periodo di nature morte, ritratti, alberi tormentati come esseri umani.

La tragedia esistenziale dei fratelli si concluse nel 1890: sempre sofferente ma anche ossessionato dalla pittura, dopo essere uscito per riprendere il proprio lavoro, rientrò nella locanda che lo ospitava confessando all’oste di essersi sparato al petto. Al medico accorso per medicarlo ribadì che avrebbe riprovato. Morì la notte seguente con accanto il fratello che trovò in una tasca una lettera a lui indirizzata e mai spedita “Vorrei scriverti molte cose ma ne sento l’inutilità, per il mio lavoro io rischio la vita e ho compromesso a metà la mia ragione”, parole che riassumono lo strazio di una vita contrassegnata da alternanze di passione e scoramento. Anche Théo venne ricoverato per segni di squilibrio mentale: alla fine delle loro vite i due fratelli si ritrovarono tumulati accanto. Vincent produsse circa 800 quadri e quasi altrettanti disegni, gran parte dei quali conservati nel Museo Van Gogh di Amsterdam. Aveva venduto molto poco della mole creativa ma dopo la morte il valore della sua opera crebbe rapidamente fino ad esercitare una profonda influenza sulle nuove tendenze artistiche per l’importanza delle innovazioni formali ed espressive. Solamente lui era capace di riprodurre in modo perfetto i volti dei capitalisti ottusi che si siedono ai tavoli in compagnia di prostitute ma il ricordo di molti personaggi sarebbe svanito senza la sua simbiosi con gli ambienti riproposti nell’opera lirica ‘Boheme’. L’artista raffigurò le maison non utilizzando l’allegoria e neppure la caricatura ma raffigurando le prostitute “a tutto tondo” sia nelle ore del lavoro che nel loro ambiente domestico. Trascurò il lato erotico della rappresentazione, infatti le scene raffigurano donne che aspettano con rassegnata docilità. Probabilmente senza l’amicizia del compagno di liceo Joyant che subentrò nel 1890 a Theo nella direzione della galleria sul boulevard di Montmartre.

 

 

 

Henri de Toulouse-Lautrec (Albi 1864/1901)

L’attività di Lautrec fu diffusa da due retrospettive, a Parigi e Londra. Mostre a Nantes (1889), a Nancy e Bordeaux (1890), a Parigi (1891), a Reims (1896) e durante L’Esposizione Universale del 1900. La madre di Henri fu convinta a donare alla città di Albi (città natale dell’artista) il patrimonio di opere del figlio. Nel 1922 nell’antico palazzo dei vescovi di Albi il museo Toulouse-Lautrec venne inaugurato ed il pubblico si avvicinò maggiormente alla sua opera. La mostra del 1931 a Parigi segnò la consacrazione di Lautrec anche da parte delle istituzioni. L’opera di catalogazione elenca 737 dipinti, 4748 disegni e 275 acquerelli. La produzione grafica: 334 stampe, 4 monotipi e 30 manifesti. Essendo la litografia eseguita su blocchi diversi di pietra calcarea inchiostrata e impressa con un torchio manovrato a mano, si utilizzavano solitamente pochi colori, una tecnica che si adattava al suo stile che con pochi segni essenziali riusciva a cogliere l’essenza del soggetto. I quadri di Henri sono la raffigurazione del proletariato e dei suoi divertimenti. Lautrec rifiuta ogni genere di abbellimento sia nel disegno che nei colori: bianco, nero, rosso a grandi macchie e forme semplici. Furono due rovinose cadute ad impedirgli lo sviluppo normale delle gambe e quindi a precludergli una vita normale. Studiando Degas e le stampe giapponesi scoprì lo stile che avrebbe caratterizzato il suo lavoro, specialmente nella produzione dei manifesti. Partecipò al vivace clima artistico del tempo che già tentava di superare l’impressionismo in voga ampliandosi in un ventaglio creativo più ampio. Assiduo frequentatore dei postriboli, dei caffè-concerto e delle sale da ballo, assorbì i tratti somatici dei personaggi con tutte le loro realtà nascoste dietro l’apparenza. Soprattutto gli interessava l’attimo fuggente pregno di sensazioni immediate che trasferì sui vivaci manifesti. 

 

 

Manet Edouard (Parigi 1832/1883)

Malgrado gli studi classici, optò per la carriera di ufficiale di marina. Respinto agli esami d’ammissione, convinse il padre a dedicarsi all’arte. Frequentò lo studio di un accademi­co dal 1850 al 1856 nonostante i violenti scontri teorici con il maestro. Studiò le opere dei grandi mae­stri al Louvre, andò in Italia, Olanda, Germania, Austria e Spagna. Gli inte­ressavano coloro che prediligevano il colore intenso: Giorgione e Tiziano, Goya e Velàzquez. Le prime opere (Bevitore dassenzio, Musica alle Tuile­ries) furono ispirate in parte dall’amico Baudelaire. Dopo il successo al Salòn del 1861 con Chi­tarrista spagnolo,  la sua pittura suscitò critiche che lo amareggiarono. Evitò quindi di partecipare alle esposizioni per non alimentare la polemica, preferendo allestire mostre nel suo studio Dopo i quadri del 1862 di ballerini spagnoli (Lola di Valenza), realizzò nel 1863 le due grandi opere che, per tradizione, rappresentano l’inizio della pittura moderna: Le déjeuner sur l’ herbe e Olympia). Fu accusato di avere abolito i volumi, la prospettiva, le mezze tinte ed il chiaroscuro usando solamente co­lori piatti staccati dai contorni, che si con­trappongono in contrasti che brillano perché accostati a neri vivaci. Negli anni seguenti iniziò a comporre nature morte con grandi chiazze di colore pastoso, in Spagna fissò la ferocia delle corride con l’impiego massiccio di contrasti tonali. Dopo la metà del secolo frequentò un gruppo di artisti (inizio dell’Impressionismo) e letterati (Budelaire, Zolà, Mallarmé) sostenitori di una pittura capace di rappresentare la vita contemporanea), anche se il suo interesse primario rimase sempre la figura. Infatti eseguì molti ritratti a olio di amici e conoscenti (Nanà, Cameriera di birreria, Il bar delle Folies Bergèr). Negli ultimi anni di attività si dedicò ai ritratti femminili realizzati a pastello.

 

 

Monet Claude (Parigi 1840/1926)

Trascorse l’adolescenza a Le Havre dove comin­ciò a disegnare caricature, indirizzandosi poi verso il paesaggio en plein air secondo la tradizione olandese. Si recò a Pa­rigi nel 1859, dove frequentò l’Accademia. Dopo il servizio militare in Alge­ria tornò a Le Havre, quindi ancora a Parigi dove intrecciò amicizie nell’ambiente degli artisti che gli permise di conoscere il gruppo formatosi intorno al maestro J. Renoir. Affascinato dal problema delle figure en plein air proposte da Manet, dipinse a Parigi i riflessi della luce sull’acqua sulle rive della Senna,, prime realizza­zioni impressioniste, frutto del nuovo rapporto fra natura e pittura. Le leggi dei colori complementari e della luce-colore furono approfondite dall’artista con innumerevoli variazioni sullo stesso soggetto. La sua formazione culturale non era  raffinata come quella di Manet o di Degas, più profondo fu il suo interesse per la fotografa, ovvero l’analisi di ciò che impressiona. la reti­na dellocchio, perchè era convinto che l’artista  di fronte alla realtà delle cose non deve  fare distinzione fra senso e intelletto ma piuttosto  identificarsi  col soggetto (Vedute del Tamigi, Le donne in giardino, Il ponte della ferrovia, Vedute di Venezia, Cattedrali di Rouen, Ninfee): le stazioni, le nevicate, spiagge e scogliere con gli effetti di luce. La serie più importante è l’ininterrotta fascia  che si snoda  nelle due stanze parigine dell’Orangerie.

 

 

Amedeo Modigliani  (Livorno 1884/1920)

 Di origine ebraica, residente a Livorno, da adolescente si ammalò di pleurite, poi di tifo e quindi di tubercolosi, ciò renderà la sua salute cagionevole, una debilitazione che lo condizionerà per l’intera sua breve vita. Crebbe nella povertà dopo che il padre subì la bancarotta e oltretutto ereditò la tara di famiglia, una forma di depressione condivisa con alcuni fratelli. Mostrò precocemente la passione per il disegno riempiendo pagine di schizzi e ritratti. Chiese perciò alla madre di mandarlo a lavorare nello studio del pittore più noto di Livorno dove conoscerà, nel 1898, Giovanni Fattori. Modigliani sarà così influenzato dal movimento dei Macchiaioli approfondendo nel contempo la conoscenza della pittura impressionista italiana. Nel 1902, si iscrisse alla Scuola libera di Nudo di Firenze e un anno dopo si spostò a Venezia, dove frequentò l'Istituto per le Belle Arti (bazzicando i quartieri più disagiati della città provò per la prima volta l'hashish). Nel 1906 andò a Parigi nel periodo della nascita della pittura cubista, esperienze d'avanguardia da lui utilizzate per lo sviluppo di uno stile personale. Conobbe Toulouse-Lautrec, Gauguin, Van Gogh e soprattutto Cézanne dal quale riprese le figure con grandi masse cromatiche già evidenti in opere del 1909 come Il mendicante di Livorno e Il suonatore di violoncello. Dopo un breve ritorno in Italia, si stabilì definitivamente a Montparnasse dove scolpisce teste in pietra sull’esempio Grecia arcaica e disegna una serie di cariatidi che ricordano le maschere africane, con occhi a mandorla, bocche increspate, nasi storti e colli allungati. Tra il 1915 e il 1920 l'artista eseguì la parte più nota della sua opera tra cui i ritratti di Max Jacob, Paul Guillaum, Jacques Lipchitz e la moglie, Contadinello, La servetta, poi Nudo sdraiato, Nudo sdraiato a braccia aperte, Il grande nudo (“era un aristocratico, la sua opera intera ne è la testimonianza più possente, la grossolanità, la banalità e la volgarità ne sono escluse”). Un giovane mercante d'arte si interessò al suo lavoro riuscendo ad introdurre una serie di sculture al Salone del 1912. A causa delle polveri generate dalla manipolazione della materia, la tubercolosi peggiorava tanto da fargli abbandonare la pietra e il legno per concentrarsi sulla pittura. Tra le personalità ritratte: una scrittrice inglese alla quale rimase legato sentimentalmente per due anni, Pablo Picasso, Diego Rivera, Max Jacob, Jean Cocteau e Maurice Utrillo che visse i medesimi problemi di alcolismo.

Dicembre 1917: prima mostra personale. I nudi esposti nella vetrina scandalizzarono il capo della polizia parigina che lo costrinse a chiudere la mostra poche ore dopo l'apertura. Trovò il grande amore in Jeanne con la quale si trasferì in Provenza dopo che lei rimase incinta: il 29 novembre 1918 nacque una bambina. Mentre era a Nizza, un gallerista tentò di vendere lavori di giovani artisti ai ricchi turisti ma ricuperò per Modi (pseudonimo come Dedo) solamente pochi franchi. Nonostante ciò, fu il periodo in cui egli produsse molti dei dipinti che sarebbero diventati popolari e di valore. I finanziamenti che Modigliani riceveva svanivano rapidamente in droghe e alcol. Nel maggio del 1919 fece ritorno a Parigi dove, assieme a Jeanne ed alla figlia, affittò un appartamento e lì dipinsero ritratti l'uno dell'altro e di tutti e due insieme ma la salute si stava deteriorando rapidamente. Dopo che il suo gruppo non ebbe notizie per vari giorni, un vicino di casa trovò Dedo delirante nel letto, scatolette di sardine aperte, bottiglie vuote e Jeanne al nono mese di gravidanza. Il medico constatò che l’artista soffriva di meningite tubercolotica. Ricoverato all’Hospital de la Charitè in preda al delirio, circondato da pochi amici, morì all’alba del 24 gennaio 1920: al funerale parteciparono tutti i membri della comunità artistica di Montmartre e Montparnasse. La tragedia non era finita: Jeanne si gettò da una finestra al quinto piano della casa dei genitori il giorno dopo la morte di lui uccidendo anche la nuova creatura che portava in grembo. Modigliani venne sepolto furtivamente per eludere altri scandali e fu soltanto nel 1930 che la famiglia concesse che le spoglie dei due venissero tumulate insieme. La loro figlia di soli 20 mesi, Jeanne, venne adottata dalla sorella di Modi a Firenze e fu lei a scrivere la biografia del padre Modigliani senza leggenda. Jeanne morì nel 1984 a Parigi (proprio nei giorni in cui si discuteva sull'autenticità di tre teste scolpite che l'artista avrebbe gettato nel Fosso Reale) cadendo dalle scale in modo misterioso. Oggi le sue opere sono ritenute espressione di uno stile unico ma quando dovette lottare contro povertà e malattie croniche, eccesso di alcol e droghe, a parte i colleghi consapevoli delle qualità intrinseche, Modi fu snobbato dalla critica e dal mercato. Nonostante l’estrema economia di composizione e sfondi neutri, i ritratti trasmettono un senso acuto della personalità del modello, come nel Nudo disteso, una elegante composizione di linee curve e piani. Diventato celebre per i ritratti femminili caratterizzati da volti stilizzati e colli affusolati, la sua fortuna critica  crebbe rapidamente dopo la morte e fu definitivamente consacrata con la mostra alla Biennale di Venezia del 1930.

 

 

Antonio Ligabue (Zurigo 1899/1965)

Il più longevo del gruppo è stato Ligabue, gli altri colleghi citati sono usciti di scena prima dei 40 anni in maniera drammatica anche se forse erano convinti, come affermava Gabriele D’Annunzio, “la vita è un dono dei pochi ai molti, di coloro che sanno e che hanno a coloro che non sanno e non hanno”. L'introduzione del catalogo di una mostra dedicata à "ul matt" afferma: “L’eccezionalità di Ligabue nel panorama figurativo italiano, la capacità visionaria e la sapienza cromatica sono la prova di un enorme talento da non ricercare nella sua eccentricità ma piuttosto — malgrado le difficoltà psicologiche emarginanti — nel riuscire ad esprimersi con la sua caratteristica intensità; un individuo che è riuscito a liberarsi delle sue angosce proprio grazie a scultura e pittura”. Nato a Zurigo e registrato come Laccabue all’anagrafe per problemi di un affido non legittimato, il ragazzo di lingua tedesca e già con problemi psicologici, verrà internato in un istituto per handicappati. Riuscirà a superare solamente la terza elementare e pur risaltando per l'irrequietezza e la cattiva condotta esprime abilità nel disegno che lo porterà da adulto — quando assumerà il cognome di Ligabue — a diventare l’artista conosciuto in tutto il mondo. Espulso dalla Svizzera per colpa della madre adottiva, viene condotto dai carabinieri prima a Como e successivamente in un comune della Bassa reggiana, originario del presunto padre. Sempre inquieto, fugge per ritornare nel nebuloso ricordo che ha della vita elvetica ma viene riportato sotto la tutela del Comune natale che, però, non riesce a dargli la necessaria assistenza. Sopravvive come Robinson Crosuè nei boschi e lungo le rive del Po. Lo sorreggeva l'ansia di esprimersi e quindi inizia a disegnare, scolpire e pitturare con più frequenza malgrado le pressanti difficoltà della vita randagia. Dal primitivismo incerto all'esplosione espressionistica dal colore violento e dalla pennellata convulsa: "Quando dipingeva animali feroci, ne assumeva gli atteggiamenti si identificava in loro, ruggiva come il leone, la tigre e il leopardo quando azzannano la preda imitandoli con una stupefacente conoscenza della loro anatomia, della forza, degli istinti”. È la sintesi di una tragedia individuale, da una parte il limite della pazzia dall'altra lo stimolo di una mente geniale: la simbiosi ha creato quadri di un autodidatta che identifica se stesso e le proprie manie in quadri raffiguranti animali esotici (“Io so come sono fatti anche dentro”) ambientati in paesaggi familiari con una violenza cromatica vicina a quella di Van Gogh; è la spinta interiore di esprimere la sofferenza durata l'intera esistenza di un uomo incapace di inserirsi nella società e quindi costretto dalla patologia mentale a rinchiudersi in se stesso. Sporco, selvatico, brutto, il corpo consunto e deforme per l’infanzia stentata, il gozzo ed il naso camuso che tentava di raddrizzare colpendosi con poderosi colpi di pietra, metodo che preludeva alla moderna chirurgia estetica. L'arte di Antonio nasce sulle sponde sabbiose del Po perché qualcosa dentro di lui lo pressava a modellare animali con l'argilla che barattava con il cibo dei contadini. Il grande fiume lo avvolge con atmosfere primordiali in sintonia con le passionalità del subconscio. La genialità della sua pittura è l'altra faccia di un Giano bifronte che lo salva dalla disperazione totale (Toulouse-Lautrec crea i manifesti del Cancan, Ligabue produce cartelloni per circhi e fiere, un altro modo per distrarsi dagli incubi che lo attanagliavano). La violenza simbolica e la profonda passionalità che identifica il suo lavoro è l'estrinsecazione delle violenze interiori. Amava la solitudine del bosco alle baldorie d'osteria, scorrazzava con la Moto Guzzi Rossa sui viottoli di campagna, ulteriori conferme di un uomo diverso che resterà uno dei grandi enigmi del nostro tempo. Dai cavalli e buoi al lavoro del primo periodo alle tigri dalle fauci spalancate, i leoni mostruosi, i serpenti e le aquile che ghermiscono la preda o lottano per la sopravvivenza, una giungla che l'artista immagina con allucinata fantasia fra i boschi del Po. Il buon selvaggio, malgrado tutto, riuscì a traslare le proprie inquietudini nell’innato dono di una originalità artistica che lo poneva al riparo di ulteriori eccessi che avrebbero totalmente distrutto la precarietà di una psicologia tarata. La critica comincia ad interessarsi del poeta-contadino come incarnazione dell'artista popolare, autodidatta e istintivo. La fama di pittore naif gli procura i primi guadagni e qualche mostra con gli oli, disegni, incisioni ed i bronzi delle sculture: una personale nel 1961 a Roma e Reggio Emilia pochi giorni prima della morte. Ligabue è un fenomeno unico nella storia dell'arte italiana, un malato, un infelice che si identifica nel mestiere: "Quando dipingeva animali feroci, ne assumeva gli atteggiamenti si identificava in loro, ruggiva come il leone, la tigre e il leopardo quando azzannano la preda imitandoli con una stupefacente conoscenza della loro anatomia, della forza, degli istinti ". Nel 1937 incomincia la Via Crucis nei manicomi per psicosi maniaco-depressiva; durante uno di questi ricoveri, pur facendo da interprete alle truppe tedesche, rischiò severe punizioni per avere colpito un militare con una bottiglia. Dopo la guerra, si diffonde la fama di questo strano personaggio mendico e su di lui e per lui vengono organizzate mostre e realizzati film; il guadagno conseguente e l'autostima non diminuiscono la psicosi naturale tanto da pretendere l’autista che si tolga il cappello quando sale nell'autovettura privata. Nel 1962 sarà colpito dalla paresi ed in questa occasione chiese di essere battezzato e cresimato.

 

 

Giuliano Confalonieri

giuliano.confalonieri@alice.it