La gioia di vivere dipingendo

 

Giovanni Zangrando (Trieste 1867-1941)

 

 

Walter Abrami

 

 

 

Nello studio dell’anziano Gianni Brumatti, ammiravo   paesaggi carsici costruiti attorno ad una vigna o ad muretto, essenziali anche nei  colori che infondevano sempre serenità; certo molto diversi tecnicamente da quelli compiuti negli anni Trenta, più materici, più meditati e dagli esiti davvero sorprendenti, ma con la stessa caratteristica emotiva culminante.

Allora, giovane, era suggestionato ancora dai  paesaggisti francesi di fine secolo,  dalla pittura en plein air del Novecento italiano ammirata alle Biennali ed era soprattutto teso a mettere in pratica i rudimenti impartitigli dal pittore triestino Giovanni Zangrando: un esempio da  seguire per le nuove leve locali in cerca di fortuna!

E’ trascorso quasi un ventennio dal momento in cui il pittore, seduto accanto l’alta stufa in maiolica della sua stanza disadorna,  mi parlò di Zangrando.

Ricordo che lo fece al cospetto di un’opera dipinta dal suo Maestro nella quale si notavano i rami di alcuni arbusti mossi dal vento e imbiancati dalla  neve. 

Le sue parole furono così incisive, pacate, benevole e affettuose che le  impressi nella mente.

Raccontò Brumatti: “Mia madre, consapevole del fatto che amavo disegnare, mi fece seguire delle lezioni private da Zangrando: egli era considerato uno degli artisti giuliani più autorevoli, aveva talento e tecnica da…elargire!

Raggiungevo a piedi  la  villa del pittore a Scorcola ed egli, nel  giardino antistante dal quale si spaziava con la vista sul golfo, mi costringeva alle esercitazioni del vero.

 Nella luce mutevole del mattino mi faceva osservare gli alberi o la linea del declivio carsico o i riflessi delle nubi sul mare.  

Era gentile nei modi, paziente, prodigo di consigli, spiritoso, raramente si alterava, ma pretendeva molto. Anche se osservato da molti, dipingeva con scioltezza e grande rapidità, non si scomponeva minimamente  e non si entusiasmava facilmente dei risultati.

Talvolta, mentre ci esercitavamo sotto la sua vigilanza, soleva dire: “Non mostratemi niente che mi possa offendere la  vista! Presentatemi il lavoro solo quando siete convinti d’aver messo tutto il vostro impegno”.

Un giorno, osservando una mia tavoletta, toltosi l’immancabile sigaro dalle labbra, mi apostrofò rudemente con la vena sarcastica che spesso lo contraddistingueva: “Fai gli alberi come manici di scopa! Ricorda che gli alberi, ancor più d’ altri elementi del paesaggio, hanno un’anima: quando la coglierai e riuscirai a trasferirla con i colori sulle tele, sarai finalmente sulla buona strada! E se non riesci a capire questo cambia mestiere!”

Zangrando era schietto e leale e non illudeva nessun allievo. Sapeva infatti che vivere di sola pittura non era affatto facile!

Agli esordi non lo era stato nemmeno per lui…      

Con Guido Grimani  nel 1905 aperse  a Trieste nella Corsia Stadion, di fronte al teatro Fenice, una vera e propria scuola privata di pittura. Fu la prima in città e in momenti diversi  la frequentarono Arturo Nathan, Adolfo Levier, Giannino Marchig, Arturo Finazzer Flori,  Edgardo Sambo.

Tra cavalletti e tavolozze, proprio in quelle sale, conobbe l’affascinante Miete Schmidt che rimasta precocemente vedova, divenne poi  sua moglie.

Di lei, pure pittrice, ha lasciato alcuni ritratti davvero felici come un delizioso pastello nel quale la donna elegante, ripresa in controluce sembra una modella parigina di Monet!

La  pittura di Zangrando, di solido e nitido realismo prima,  impressionista poi, è spesso sobria di toni, sempre attenta alla luce e perfino aristocratica nei momenti più eccelsi.

L’aneddoto raccontato da Brumatti, mi obbligò   a riosservare molti paesaggi con  maggior riflessione sul perché di certe pennellate e mi soffermai tante volte a guardare gli alberi tinteggiati da Zangrando con tocchi decisi.

Quanto diversi sono l’uno dall’altro! Egli predilesse dipingerli in primavera e d’estate e il bordo della loro chioma  è spesso caratterizzato dai blu  che si contrappongono ai colori più caldi del fogliame. La sua tavolozza  ha una gamma di colori assai vasta e pure i temi da lui affrontati sono svariatissimi. Tra le sue pitture più riuscite di paesaggio ci sono le vedute cittadine dal  colle prediletto di Chiadino, gli aspetti di Piazza Grande, dei moli e delle Rive affollate nei giorni di festa, le passeggiate delle nobildonne con governanti e prole ai Campi Elisi, il Carso, gli scorci della Val Rosandra, di Monrupino, delle saline di Zaule, di Duino e della baia di Sistiana dove assai spesso si recò con un treppiede leggero, pennelli e colori…e, preferibilmente una modella  con ombrellino da sole orientaleggiante e costume da bagno!

Eseguì pure molti quadri nel paesaggio collinare della Toscana e soprattutto a Siena dove fu attratto dalla scenografica Piazza del Campo a valva di conchiglia, dal suo Palazzo Pubblico, dal giro di palazzi antichi in parte merlati e turriti.

Doveva qui scontrarsi con la difficoltà di tagliare o meno l’agilissima torre del Mangia e alcune sue soluzioni fotografiche sono davvero pregevoli.

Dipinse spesso vicoli e scorci di paesi poco frequentati, notturni, chiese e sposi sul sagrato al termine della cerimonia. Un servizio che concorreva con quello del fotografo ufficiale, ma anche una valida occasione per vendere il dipinto sorprendendo i presenti.

Zangrando fu veramente bravo nel piazzare i suoi quadri e sapeva concludere una vendita o con fare da gentiluomo, o con nonchalance o con una battuta spiritosa secondo i soggetti, le occasioni ma sempre  cogliendo  i desideri dei compratori! Aveva l’acume psicologico del buon commerciante! Egli stesso tuttavia, ormai anziano,  fu consapevole di aver firmato troppi quadri. Era insoddisfatto di molti lavori eseguiti di getto realizzati solo con lo scopo di guadagnare. Del resto, come Flumiani andò a soddisfare il più possibile la committenza e trasse buoni profitti con la compiacenza dei galleristi che gli indicavano i soggetti da affrontare in fretta per questo o quel cliente. Si recò spesso in Cadore dove era solito trascorrere le vacanze estive ed invernali.

Nel 2003 il comune di Vodo, a venti anni di distanza dall’ultima mostra antologica di Trieste, ha dedicato a Zangrando una rassegna con molte opere tra le quali appunto, una serie di paesaggi alpini. I lettori si chiederanno, credo, perché proprio a Vodo. In questo paese nacquero i genitori di Giovanni che verso la metà dell’Ottocento, come molta altra gente, raggiunsero le sponde estreme dell’Adriatico. Trieste era allora fiorente luogo di commerci.

Giovanni nacque in città nel 1867 e nonostante le difficoltà economiche della famiglia (suo padre era falegname e la mamma levatrice), completò il ciclo scolastico sostenendo l’esame di maturità.

L’anno successivo, con un piccolo stipendio dell’Associazione Italiana di Beneficenza, andò a Venezia dove frequentò l’Accademia per cinque anni sotto la guida di  Franco, Cadorin e Molmenti.  Si ricorda che partiva  con qualche fiorino, dormiva in una stanza umida e fredda e …sognava piatti di spaghetti fumanti! Tra i primissimi lavori conservati un acquerello intitolato I fratini  richiama alla mente le gustose scenette di Rosè.

Molti lavori scolastici risalenti a questo periodo, disegni di nudi maschili e femminili, disegni anatomici e nature morte eseguiti perlopiù nel formato 30x40 sono comparsi in tempi piuttosto recenti in un negozio antiquario di Trieste e hanno destato viva impressione per le capacità esecutive dello studente,  un’innata scioltezza  e tanta determinazione nei chiaroscuri.

Zangrando si guadagnò da vivere eseguendo disegni di architettura e prospettiva al servizio di ingegneri ed architetti. Nel 1889 terminò l’Accademia e fu vincitore del primo premio.

A Trieste fu nel gruppo di artisti che si mossero intorno al Veruda, pittore di temperamento, innovatore, amico di Italo Svevo.

Proprio Veruda (cui dobbiamo un bel ritratto a matita del Nostro) che introdusse echi d’impressionismo francese nel capoluogo, con Grünhut e Rietti  incoraggiarono Zangrando.

Grazie al contributo del Premio Cavos, egli frequentò per due anni l’Accademia di Monaco di Baviera con Wagner, Raab e Gysis.

Il soggiorno a Venezia e la successiva esperienza monacense gli diedero l’indiscusso dominio sul disegno di cui si è detto, ma a Monaco, fuori dall’Accademia nell’ambito della cosiddetta Scuola del Lenbach, imparò ad usare, in vista di un esito pittorico meno impacciato da studi preparatori troppo laboriosi, la scorciatoia della fotografia.

E’ del 1990 l’Arrotino, opera di grandi dimensioni tipicamente  ottocentesca che dimostra già l’acquisita abilità tonale. Sono di questi anni alcuni profili di donna, Il cameriere, Il ritratto del Capitano Massopoust e Consigli un pastello che raffigura due donne, poste una di fronte l’altra in una modesta stanza illuminata da una lampada da tavolo.

In questa tecnica, con  leggerezza di impasti simile a Rietti,  Zangrando fu capace di richiamare velette conturbanti, cappelli piumati, preziose sete, vesti e…sottovesti ed ebbe davvero pochi rivali. Dopo Monaco vinse la borsa di studio Rittmeyer con il quadro intitolato Triste Maternità.

E’ del 1894 circa un bellissimo ritratto moderno a matita e biacca    dedicatogli  da Antonio Mancini il famoso pittore di Fremiti di desideri e di Dopo il duello per intenderci, l’amico di Vincenzo Gemito.  Poi Zangrando andò a Roma dove fu in gran solidarietà con il poeta dialettale Cesare Pascarella. Nello studio di via Margutta nacquero infatti tante pagine della sua Scoperta d’America. Nella capitale il triestino colse vibrazioni di luce assai diverse da quelle nordiche,   partecipò ad un premio nazionale con il dipinto I naufraghi tema in voga e per niente originale.

Continuò ad eseguire quadri di genere di dimensioni ragguardevoli ma affrontò con maggior convinzione  motivi aneddotici più brillanti e scanzonati. Trascorse un anno in giro per l’Europa e fu anche a Parigi. Tornò a Trieste nel 1895 e visse sempre divertendosi…da pittore vero!

Tra l’altro s’inserì bene nella vita mondana cittadina ed ebbe uno studio assai ben frequentato in Viale XX Settembre. Nella Storia del Circolo Artistico Triestino l’autore Carlo Wostry parlò spesso di lui. Lo ricorda compagno dello stravagante Veruda  in Barriera Vecchia e protagonista dell’Otello nel ruolo di Jago nelle amene manifestazioni del Circolo.

Soprattutto pessimo interprete musicale accanto ad altri artisti quali  Enea Ballerini, Giuseppe Marass, Giuseppe Pogna per citare solo alcuni.

Così scrive Wostry: “ Anche per quest’opera chi costò maggiormente far istruire fu Zangrando. Il maestro, quello stesso del Trovatore, un tedesco, che avevo ancora assunto, si sgolava: “ ma lei me cale, lei me cale…”.  Difatti Zangrando calava, cresceva, come gli garbava. E anche delle crome e semicrome se ne infischiava un po’. Il maestro trascinava all’infinito le lezioni anche per buscarsi più quattrini. Un giorno mi accorsi che voleva far apparire Zangrando più cane di quello che era in realtà.  Io avevo per giunta il timore che dopo tanta istruzione mi cantasse alla maniera tedesca. Il nostro pubblico (irredentista!) non l’ avrebbe tollerato. Li mandai all’inferno tutti e due: “Tu andrai in scena come vorrai, e lei la smetta di sfruttare l’impresa…” Il maestro mi guardò! Io ero serio serio, egli non sapeva spiegarsi la ragione della mia ingiusta accusa e rimase tramortito. Io lo confortai assicurandolo che al Circolo non avrebbero tante esigenze come all’Opera di Dresda. Finì col capirmi benissimo e lo dimostrò la sera della rappresentazione, nella quale tempestò sul pianoforte che servì egregiamente come riempitivo. Per quest’ultima prestazione si pigliò cinque fiorini, una cena e una sbornia.”

E ancora così scrive il Wostry: “Il secondo atto si iniziò col Credo. Jago (Zangrando) dovette lottare con gli applausi del pubblico prima di poter emettere una nota. Poi lo si lasciò sfogare. La sua interpretazione fu nuova  personale. Ebbe momenti felicissimi di passionalità ironica. La sua voce teneva duro. Quella beccatina di vino dalmato presasi prima della rappresentazione gli aveva fatto bene. Ebbe un subisso di approvazioni e getto di corpi solidi”.

Nelle pagine della Storia quattro disegni di Wostry immortalano Zangrando: un ritratto di semiprofilo in cui evidenzia i sott’occhi, il naso pronunciato e i baffi alla francese, mentre   canta a squarciagola accanto ad un  pianista,  mentre suona la chitarra e nel suo studio nel mezzo di un …terremoto!

Da tutto ciò emerge l’immagine di un uomo pronto  alla battuta, beffeggiatore, sicuro di sé e persino esibizionista. Un buontempone dallo spirito goliardico, ideatore di  burle a compagni d’arte e a modelle che presso il suo studio…avevano una sorta di ufficio di collocamento!

Zangrando considerò sempre la pittura un mestiere nobile e talvolta questa professione lo impegnò fin 12 ore al giorno!

Nel suo ricco curriculum c’è un appunto memorabile: ricevette l’incarico di ritrarre la Principessa Sophie Hohenber, moglie di Franz Ferdinand, arciduca erede al trono dell’Impero d’Austria e Ungheria.  Zangrando si recò più volte da lei  in Boemia nel Castello di Konopiste e portò a termine la fatica delle pose: per tale lavoro fu pure compensato con un anello!

Espose a Venezia, Firenze, Arezzo, Vicenza, Torino, alla Galleria Bauer di Monaco in una mostra organizzata da Gino Parin e in diverse città europee.

Durante la Guerra fu profugo a Firenze poiché suddito italiano e rientrò a Trieste con un “Foglio di via semplice” nel 1919. Con lui c’erano la moglie Miete e il figlio Tullio.

Dal 1922 fu nuovamente presente alle mostre collettive del Circolo Artistico, poi a quasi tutte le Sindacali e tenne anche una lunga serie di personali. Fu più volte presente alle Biennali dalle quali, come ricordò lui stesso poco prima della scomparsa in un articolo apparso su Gazzettino di Venezia, fu buttato fuori in buona compagnia considerato volgare passatista.

Allora scrisse pure: “Riguardo alle mie tendenze artistiche, cercai di attenermi onestamente al vero, ricordandomi che l’Arte è frutto di una continua appassionata osservazione e che quando gli artisti hanno seguito delle tendenze, l’Arte ha avuto un regresso e quando si sono ricreduti ed hanno intinto in quel calamaio che si chiama il vero, l’Arte da sempre ha progredito. (…)

Questo è certo: che  se Tiziano fosse stato novecentista nessun museo ospiterebbe un suo quadro. Questa è la mia modesta opinione. In Arte non esiste Modernità: o è Arte, o non lo è. Forse queste  idee sono bestemmie e se così è domando perdono d’essermi sbagliato”.

Trieste gli dedicò una mostra postuma presso la Galleria Michelazzi nel  1942. Nel catalogo si  legge: Zangrando fu pittore dalla vivace piacevolezza cromatica, dovuta ad una tavolozza piena d’armonia, fu disegnatore fermo e preciso, osservatore efficace, compositore pieno d’accortezza e di grazia. Si fa ammirare soprattutto nei quadri di figura. Con briosa semplicità e morbidezza di modellazione, con accordo ora delicato ora vivo di tinte rende la giovanile vaghezza della donna su sfondi di civettuole eleganze.

A questo proposito mi si consenta di aggiungere un episodio. Non è passato molto tempo dal momento in cui, invitato da una famiglia a periziare una collezione, m’imbattei in due pregevolissimi dipinti ovali, stupendamente incorniciati e destinati a formare un pendant. Si trattava di due nudi di modeste dimensioni firmati Giovanni Zangrando: rappresentavano una giovane modella seminuda colta frontalmente, accovacciata, sensuale e dall’atteggiamento malizioso. La bellezza della donna era accentuata dallo specchio sistemato dal pittore alle sue spalle nel quale si potevano ammirare i capelli raccolti sulla nuca, il collo, la linea delle spalle e quella dei fianchi fino al…deretano!

I motivi per guardare i due dipinti erano dunque molteplici. Fui colpito da un solo particolare negativo. Nell’insieme, allettante, si notava un’opacità sul vetro di uno dei due ovali all’altezza del ventre della donna.

Apersi il retro della cornice e mi accorsi che il cartone leggero sul quale Zangrando aveva dipinto con tale maestria, si era attaccato internamente al vetro che proteggeva il quadro!

Desunsi che Zangrando scelse il formato dei due dipinti per inserirli in quelle belle cornici dorate recuperate chissà dove;  dopo averli realizzati con frenetico entusiasmo, li inserì ancor freschi di colore per vedere immediatamente il risultato finale che prevedeva eccitante.

Lì i due nudi rimasero per decenni.  Indubbiamente il pittore li dipinse con profondo godimento estetico. Alcune opere simili,  si poterono ammirare nella mostra del 1984 a Trieste dove furono pure esposti alcuni dei suoi numerosi autoritratti.

Egli si dichiarò artista “di retroguardia” ma abbracciò pure il cartellonismo.

Se oggi la critica lo ha quasi dimenticato è segno dei tempi che passano e dei gusti che inevitabilmente cambiano, ma riteniamo che una mostra antologica dei suoi nudi femminili in una galleria con ampie vetrine del centro di Parigi, o di Casablanca   o della capitale del  Dubai…..obbligherebbe alla sosta tanti passanti!

Presumibilmente, vedendo quei corpi, molti di essi   riterrebbero perlomeno Zangrando… un bravo artista  fortunato!

 

 

 

Walter Abrami