Giacomo Favretto (Venezia 1849 - 1887)
Alle popolane di Giacomo Favretto basta un tocco di rosso minio
Walter Abrami
I recenti clamori suscitati dall’Incredulità di San Tommaso, copia di un olio su tela di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, sequestrata dai carabinieri in un signorile appartamento di Trieste e attualmente depositata a Venezia per accertamenti, hanno sorpreso l’opinione pubblica, sensibile all’eco di cifre esagerate che i media scaraventano inopinatamente in prima pagina, trattasi di persone morte, di ultras o di danaro, ma non gli addetti ai lavori. La città giuliana, infatti, nasconde in collezioni private non solo copie dei vari Carriera, Piazzetta, Fattori, Mancini, Morelli, Pratella, Balestrieri ecc. ma anche dipinti autentici d’autori più famosi: certo più di quanto si possa sospettare! Purtroppo, a tali opere va aggiunto anche un numero di quelle false, soprattutto di pittori veneti (non solo dell’Ottocento!) e di qualche noto pittore locale del secolo scorso; artista capace di dipingere soggetti marinari, efficaci, gradevolissimi, ma facili da copiare per un esperto, magari un valente restauratore, e da piazzare, possibilmente da altre mani meno sospette, al papero di turno principalmente sul mercato locale. Oggi, il collezionista che desidera acquistare una tela ritenuta importante o rara e qualitativamente indiscussa (vedi sugli altri l’interesse non solo locale suscitato dai quadri di Arturo Nathan o di Gino Parin, di Piero Marussig o di Vittorio Bolaffio), è costretto a spendere cifre ragguardevoli e oltre la soglia del piacere vero e proprio, l’affare più redditizio, l’investimento più azzeccato, si misura sempre più spesso, con le conoscenze personali e con la propria cultura. Nelle attuali vendite d’oggetti artistici e in special modo di dipinti d’autore, il “Calandrino” si defila e si è abbassato pure il numero di “farlocchi” che per lunghi decenni hanno popolato l’ambiente…, ma anche il vero antiquario è in via di estinzione, il gallerista di professione vende spesso solo a parole ciò che fa tendenza in maniera illusoria, e il critico senza schermo televisivo a disposizione, conta meno di una Marchi qualsiasi! Anche il Favretto, con indubbia efficacia narrativa e con acutezza, osservò il comportamento e gli atteggiamenti tipici dei venditori e degli acquirenti nelle botteghe della sua Venezia; il Venditore di stampe, l’Antiquario, Due quadri da vendere sono soggetti azzeccati e consoni al nostro argomentare, ma il veneziano osservò e dipinse con ironia, pure alcuni intenditori e intenditrici ne Le nostre esposizioni e mestieranti più umili nella Bottega della fioraia e nell’originale soggetto El difeto xe nel manego che resta uno dei suoi capolavori e fu esposto per la prima volta a Milano nel 1881. A Trieste ci è capitato di vedere alcune opere perlomeno dubbie di Guglielmo Ciardi, Pietro Fragiacomo, Ugo Flumiani, Giannino Marchig o del russo, figlio adottivo giuliano, Alessio Issupoff (dei due dipinti recentemente esposti in una villa quello di dimensioni ridotte era firmato con un pennarello!); ma abbiamo ricevuto in modesta eredità e gelosamente custodite, le perplessità palesate innanzi talune opere dal professor Gioseffi e umilmente qualcosa siamo in grado di osservare… Mai, tuttavia, abbiamo visto in città un falso di Giacomo Favretto, geniale artista veneto vissuto solo trentasette anni (Venezia 1849 – ivi 1887) che ebbe sì tanti imitatori, ma presumibilmente meno falsari in grado di ripetere le sue affollate composizioni, le sue cromie, i suoi colpi di pennello ragionati. Di lui il Civico Museo Revoltella conserva uno dei più interessanti dipinti del genere definito “amore rustico”. E’ un olio su tavola di modeste dimensioni, che attira da sempre la nostra attenzione e davanti al quale ci siamo soffermati assai spesso: oltre ad essere un buon esempio di come l’artista veneto sapesse dipingere sulle superfici lignee sfruttando abilmente il colore del fondo, quello della base, è pure opera deliziosa, seppur di maniera, per l’apparente, ingenuo, contenuto. Il primo bacio, questo il titolo del quadro, vale da solo una visita al palazzo baronale: realizzato da Favretto nel 1880, fu donato al Museo dall’architetto Ruggero Berlam nel 1916. Rappresenta nel formato verticale un uomo dipinto di trequarti che indossa il suo vestito di festa: forse è domenica ed egli è colto lungo un sentiero, mentre si accinge a baciare una fanciulla. Il luogo, conveniente a tale approccio non solo nel secolo in cui visse Favretto, è solitario. Il declivio erboso che corre lungo il viottolo, ripara le figure dagli sguardi pettegoli d’eventuali paesani curiosi e indiscreti, ma la ragazza, cinta amorevolmente in vita dal braccio destro dell’uomo, inclina leggermente il capo rifiutando le sue labbra: gesto femminile, civettuolo, di momentaneo rifiuto e presumibile, apparente, ritrosia. Atteggiamento che il pittore coglie mirabilmente per esaltare l’orgoglio (o l’astuzia? o la religiosità?) della contadina: né gli abiti della ragazza, né tantomeno le sue calzature maliziosamente osservate dal Favretto (come i piedi scalzi dell’uomo del resto), avrebbero potuto destare maggior curiosità nell’osservatore! Elementi dialettali che le mode successive di fine Ottocento incominciarono a deprezzare e i pittori del primo Novecento dimenticarono frettolosamente senza rimpianti, perché la squallida ‘veristica’ povertà doveva lasciare il posto in pittura, all’impressione più che alla macchia e all’immaginazione; ad essa Favretto voleva dedicarsi quando si rese conto che i gusti incominciavano a mutare. Disse ad un amico: “Il quadretto di genere non va più, bisogna cambiare; ci vuole il quadro di pensiero (…) sto già schizzando”. Eppure dalla semplicità popolare, per fare qualche esempio, Guglielmo Ciardi, Giacomo Favretto e Luigi Nono trassero, rispettivamente, gustose scene quali il Mercato a Badoere (1870), L’estrazione del lotto (1880), e Lettera al moroso (1886). I tre pittori, amici tra loro, furono coinvolti inevitabilmente dai cambiamenti e solo Favretto, che morì presto, può essere facilmente inquadrato nella sua epoca. Egli è divenuto suo malgrado, “fenomeno intermedio”, com’è stato osservato, tra due termini disparatissimi di altri rappresentanti dell’arte veneta: uno celebre, Antonio Canova e uno più sfortunato, Gino Rossi. Ma più d’altri contemporanei, Favretto lega il suo nome all’intimità della città lagunare, alla vita dei suoi campielli, alle sue strette calli dipinte nei giorni di sole o sotto la pioggia, ai canali, ai ponti, alle fermate dei traghetti, agli altarini, ai mercati, alle botteghe, ai balconi, ai giardini, alle feste e soprattutto alla sua gente. Fu anche ritrattista di equilibrato realismo descrittivo di cui tutti riconobbero e riconoscono il valore, ma non è questo il punto sul quale desideriamo soffermarci sebbene debbano essere ricordati almeno Il ritratto di Lorenzo Ciardi, Il ritratto d’uomo, Il ritratto di una parente e Il ritratto dell’avvocato Giuseppe Adorno.
La bibliografia di Favretto è ancora modesta, piuttosto limitata e per quanto riguarda le vicende della sua vita, imprecisa forse. Figlio di Domenico, falegname e di Angela Brunello, Giacomo Favretto nacque nel 1849 nel segno zodiacale del leone. Nel 1941 Lina Obici Talamini affermò che Favretto nacque nella parrocchia di San Pantaleone e che la sua famiglia, trasferitasi dopo la nascita del figlio nella vicina Crosera, tornò a stabilirsi in Corte dei Preti, dove rimase fino al 1862. In tale anno, numerosa per il numero di figli e piena di miseria, visse a Santa Maria Mater Domini nella parrocchia di San Cassiano. La casa che ospitò i Favretto fu quella di proprietà dei conti de Zanetti; la famiglia aveva già vissuto in questo edificio prima della nascita di Giacomo ed ebbe la buona sorte di superare indenne il bombardamento austriaco sulla città. E’ certo che durante il periodo giovanile Giacomo ebbe familiarità con i Zanetti e in modo particolare con il conte Antonio; è intuibile pertanto che egli ebbe occasione di vedere la loro famosa collezione d’opere pittoriche e che di conseguenza sviluppasse l’attenzione in tal direzione soprattutto per il suo istinto. Furono proprio il conte Antonio e il pittore Gerolamo Astolfoni, zio di questi, ad impartirgli i primi insegnamenti. Un aneddoto, non molto diverso da quello che si tramanda sul triestino Umberto Veruda che talora affrontò i medesimi soggetti del collega (è un caso?) narra che un giorno Favretto tracciò alcune figure con il carbone sulle pareti di un’abitazione appena restaurata da un imprenditore presso il quale lavorava suo padre: quando il Pallanda, questo il nome dell’uomo, vide i personaggi, anziché arrabbiarsi si compiacque con lui. Ma la famiglia Favretto aveva bisogno d’introiti ed i figli non potevano giocare nei campielli e ancor meno rimanere in ozio nelle chiese; si suppone che qualche volta Favretto lo fece in quella di San Rocco per ammirare la volta dipinta da Gian Antonio Fumiani e in quella di San Cassiano davanti ai tre dipinti di Tintoretto posti nell’abside. Giacomo, dunque, fu fatto entrare come garzone in una bottega di cartolaio ed ebbe modo anche qui, forse nei ritagli di tempo poiché la carta non doveva mancargli, di tenere un pennino in mano per eseguire schizzi. Numerosi di questi furono notati da un antiquario che fece pressioni sul padre affinché mandasse il giovane a studiare pittura. Forse fu proprio questo contatto che suggerì più avanti a Giacomo di dipingere alcuni soggetti presso le botteghe antiquarie che da sempre lo incuriosivano. Per un breve periodo si recò dal pittore Antonio Vascon e presumibilmente fu consigliato anche da lui di iscriversi all’Accademia di Belle Arti. Nel 1864, a quindici anni d’età, vi entrò e concluse brillantemente gli studi già nel 1870. Continuò però a prestare servizio a frequentarla fino al 1877/1878 facendo poi l’assistente “aggiunto” di Jacopo d’Andrea (al quale fu affidata la cattedra dopo la morte di Grigoletti), pur avendo. Dapprima frequentò i corsi elementari per gli “elementi di pittura” con Michelangelo Grigoletti (di cui ci lasciò un disegno con dedica datato 1869) e con Nani, poi apprese la prospettiva da Moja, ed infine seguì il corso di pittura di Pompeo Molmenti che lo stimò e ne apprezzò le emergenti qualità. Dal Nani in particolare, Favretto predilesse le scenette di genere. All’Accademia egli si distinse al punto da ottenere numerosi premi e fu considerato il migliore tra gli allievi: il Molmenti creò apposta per lui, che aveva raggiunto il livello più alto, una “Menzione onorevole” per sottolineare la bravura degli “alunni provetti”. Già nel 1868 Favretto riuscì ad incassare mille lire vendendo un suo quadro e la ragguardevole somma non solo gli diede coraggio ed entusiasmo, ma contribuì pure a risollevare la sua famiglia dai numerosi problemi economici. E’ del 1871 il dipinto La scuola di pittura nel quale egli interpreta con coraggio innovativo la vita accademica; cinque pittori tra i quali un frate, colti di schiena, copiano una modella in posa. Cavalletti, tele e modesti sgabelli caratterizzano la stanza che è dipinta in maniera realistica. La fotografia incominciava a suggerire qualcosa… Due anni dopo Favretto dipinse La scuola di disegno nel quale gli allievi, posti davanti ai cavalletti seduti o in piedi eseguono un lavoro, La modella dove la donna, che indossa un lungo abito elegante è posta sopra un palco illuminato da una lampada: la sua ombra si staglia sulla parete retrostante e gli accademici seduti in basso la disegnano osservandola da una gradinata di legno. Anche La Scuola di nudo nel quale un anziano professore (Pompeo Molmenti?) in piedi tra due studenti indaffarati ritrae il modello in gesso di nudo e La lezione di anatomia, uno dei quadri più celebri del Favretto, sono di questo periodo. In quest’opera che suscitò clamore quando fu esposta alla Regia Accademia di Belle Arti di Milano e poco dopo nel Palazzo di Brera, Favretto, dipinge un calco d’uomo in grandezza naturale esaltandone i tratti anatomici e ponendolo in contrasto con un’imponente colonna scanalata solo in parte illuminata da un punto di vista insolito. Ciò che entusiasma è il fatto che in uno spazio centrale molto ridotto, l’artista eseguì il proprio autoritratto accanto al ritratto di Pompeo Molmenti che con una bacchetta fa notare ai presenti un dettaglio muscolare, quello del conte Antonio Zanetti, che come abbiamo ricordato fu suo amico e protettore, e infine il ritratto del pittore Sommavilla di Padova. A destra e a sinistra l’opera è “chiusa” da altre due figure d’uomini presumibilmente un allievo attento alle spiegazioni e il baffuto custode della sala. Dopo il successo ottenuto, il “novellino eccellente” dipinse I miei cari che rappresenta il padre e la sorella del pittore seduti uno accanto all’altra nell’intimità di un ambiente scarno, nel quale l’attenzione del pittore ricade sugli oggetti più banali d’uso quotidiano: un ombrello, la paletta di suo padre, alcuni fogli posti sul tavolo, il calamaio, la penna, le tazze e un bicchiere d’acqua. Da soli, questi particolari, costituiscono due distinte nature morte d’altissima qualità! Anche in altre opere seguenti come Tentazione, Ingresso di una casa patrizia veneziana, Il bagno, Favretto evidenzia progressi e amplia i suoi tentativi pittorici affrontando nuove tematiche. L’autoritratto del 1874 è un’importante testimonianza della sua fisionomia prima che un’infezione generale del sangue, tre anni dopo, gli causasse un serio problema alla vista. Perse la funzionalità dell’occhio destro, ebbe una visione monoculare e la “sua debole persona che il cereo pallore del volto mostrava sacrata alla morte precoce”, anziché risentire psicologicamente, spinta da un’indole e da un carattere indomiti, lo motivò ancor più all’attività. Si spostò da Venezia, dipinse a Isola Rizza e nel 1878 compì un viaggio a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale; per questa mostra furono scelti, da una competente commissione dell’Accademia di Venezia, quindici pittori e due scultori. Figurarono tra gli altri Noè Bordignon, Egisto Lancerotto, Luigi Nono, Antonio Paletti e Pietro Roi. Favretto inviò Laboratorio conosciuto anche con il titolo In Sartoria che fu elogiato per il suo ‘giapponesismo’ e La Ricetta che rappresenta l’interno affascinante di una farmacia nella quale il dottore in camice bianco è chino sul banco, mentre due giovani parlano tra loro. Il collega Guglielmo Ciardi, che conosceva la lingua francese, e che spedì nella capitale un Paesaggio di Torcello e una Laguna. fu compagno di viaggio del pittore. Sono purtroppo scarse le informazioni che del viaggio di cui siamo in possesso e non sappiamo se qualche dipinto del Favretto realizzato in Francia, o successivamente ‘a memoria’, sia ancora conservato da qualcuno; a tal proposito si sa che la sua memoria visiva fu straordinaria e che spesso, dopo aver attentamente osservato una situazione in strada, era capace di dipingerla verosimilmente senza aver bisogno di disegni preparatori. Favretto fu comunque un buon disegnatore versatile, soprattutto di figure trattate in modo caricaturale o colte rapidamente, con istinto, quasi istantanee fotografiche. Tra i suoi disegni più conosciuti c’è il ritratto della Regina Margherita eseguito a china e La Zanze un inchiostro su carta che raffigura sua sorella Angelina, la figura che più spesso appare nei suoi dipinti. Alcuni disegni del soggiorno parigino del quale non si conosce nemmeno la durata, ci sono rimasti: sono noti, infatti, Il giardino a Parigi e pochi altri che rappresentano eleganti avventori di caffè accompagnati da belle signore. E’ auspicabile che altri suoi lavori compaiano e come spesso accade, anche un articolo letto da qualcuno rispolvera incredibili memorie; capita spesso agli storici dell’arte, dopo aver scritto monografia o un saggio su un artista ancora poco noto al pubblico, di compiere un “ritrovamento” sensazionale. Io stesso, dopo aver scritto in collaborazione con Lorenza Resciniti la monografia sul pittore triestino Carlo Wostry e aver portato a conclusione le ricerche, ho potuto ammirare una sua opera non soltanto di dimensioni notevoli, ma pure una bellezza clamorosa, eseguita proprio a Parigi: per mesi entrambi, quasi con “feticistico” desiderio, avevamo sperato di trovare un dipinto con quelle caratteristiche. Tornando a Favretto ciò forse è ancora possibile: io stesso, quest’estate durante una prolungata permanenza a Buenos Aires, ho ammirato il suo meraviglioso dipinto dal titolo I suonatori ambulanti nel Museo delle Belle Arti di cui attendo impaziente la riproduzione fotografica e in abitazioni private, numerose altre opere di validi pittori piemontesi e lombardi. Diverse opere di Favretto sono finite all’estero ed alcune hanno fatto ritorno nel nostro Paese solo in questi ultimi anni come La moglie gelosa che finì a Londra, I giocatori di scacchi che ritornò in Italia da Leningrado e Ingresso di una casa patrizia di Venezia che oltrepassò l’oceano per approdare a New York. Nel 1980 egli ottenne a Brera l’ambito premio “Principe Umberto” con il quadro Vandalismo; nel suo sfondo introduce un’opera del Tiepolo quasi a rendergli i dovuti meriti e la personale ammirazione. Dopo questa clamorosa affermazione la sua fama aumentò prodigiosamente oltrepassando i confini italiani. In poco tempo l’artista vendette numerose opere anche a d importanti e ricchi collezionisti stranieri e guadagnò tanto, da poter disporre del danaro per acquistare nientemeno che il palazzo sul Canal Grande dov’era andato ad abitare! Ma rimase modesto e proprio quando il trionfo gli arrise durante l’Esposizione di Venezia del 1887, morì a causa della febbre tifoidea. Era il docici giugno e gli ultimi quadri esposti in quell’occasione furono Traghetto della Maddalena, El Liston e La fiera di Pasqua al Ponte di Rialto. Fra i suoi capolavori vanno segnalati, per concludere, In attesa degli sposi del 1879 che rappresenta il sottoportico Suriana ai Tolentini con varie figure di curiose popolane sulle fondamenta e la gondola accostata dal rematore ai gradini sull’acqua immota del canale, pronta ad accompagnare gli sposi alla chiesa e Passeggiata in Piazzetta del 1884 nel quale Favretto sviluppa un tema a carattere settecentesco (gusto allora diffuso) e forse dipinge tra i vari personaggi, l’illustre Carlo Goldoni intento ad osservare due bisbetiche signore. Ciò che si desidera principalmente ricordare è l’immediatezza dei suoi racconti, l’inenarrabile bellezza del suo colore rosso, usato sempre con sapiente equilibrio e dosato con astuzia: qualche tocco, un geranio, un ventaglio, un fazzoletto posto sul capo di una fanciulla, una sciarpa o un fiore nel bel mezzo di un seno prosperoso come quello della sua Dama veneziana del Settecento. Il primo soggetto è da considerare un vero e proprio ripensamento dell’artista sul modo di affrontare con una pittura certamente più coinvolgente, i suoi temi preferiti. Entrambi i dipinti valorizzano il paesaggio veneziano e soprattutto il primo prelude al Traghetto della Maddalena, che sublima la dimensione ottica favrettiana, in un taglio originale e scenografico. E se pur i soggetti della pittura di Favretto sembrano tanto lontani da noi, resta folgorante la sua bravura con i pennelli che è un esempio per chiunque desideri approfondire le conoscenze del colore e le infinite possibilità degli accostamenti cromatici.
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