L’agguato della signora silenziosa a pochi passi dall’apogeo

 

 

Fonda Enrico  (Fiume  1892  – Parigi 1929)

 

 

Walter Abrami

 

 

 

 

 

La prematura e fulminea scomparsa d’Enrico Fonda avvenuta nel 1929 a soli trentasette anni in uno storico sobborgo di Parigi, suscitò un’impressione profonda negli ambienti artistici dell'Italia del nord; Fiume, Trieste, Padova, Asolo, Firenze, Milano, Genova, Portofino, Nervi e Roma, infatti, lo videro vagabondo pittore da cavalletto in un’epoca che la storia delle arti figurative del nostro secolo, per tanti motivi diversi, ma ugualmente forti, ha consacrato memorabile e unica.

Fonda visse in prima persona quei magici momenti, conobbe uomini di primissimo piano nel mondo della cultura e dell’arte che furono decisivi per la sua formazione, rifiutò facili lusinghe e seppe scegliere una propria via espressiva. Se non invidiato Maestro al pari di altri più anziani e affermati pittori, fu pur egli nobile interprete, protagonista della sua breve, sfortunata stagione.

Ebbe idee chiare, ferme convinzioni e indiscutibile talento: fu sempre sorretto da una salda, meditata composizione, da un altissimo senso del colore.

La sua personale interpretazione dei soggetti lo portò di solito ad intuire ciò che di “lirico” viveva in loro: la sua è una pittura fresca e autentica, persuasiva e priva di titubanze.

Furono in molti alla fine del mitico Decennio, a parlare di lui con stima e nostalgica malinconia; colleghi in parte illustri come Carlo Carrà e Gino Rossi, uomini di lettere dello spessore d’Ettore Schmitz - Svevo, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Comisso, critici onesti, validi e preparati: Dario De Tuoni, Nino Barbantini e Silvio Benco tra gli altri, ma anche semplici amici.

Lo descrivono come un uomo un po’ schivo, permaloso, intransigente, ma gentile, dall’indole dolce; un pittore di vivo intelletto, raffinato nelle scelte e assai determinato.

Qualcuno ricorda la sua coscienza poetica e morale, la sua intensa passione per la pittura e il suo zingaresco, mirato e consapevole girovagare: un pittore sempre fedele al suo credo artistico!

Tra i molti Lionello Fiumi, che gli fu vicino a Parigi nei giorni che precedettero la morte, così scrisse nel “Giornale di Genova”: “…Una mattina di questo febbraio inclemente, che il gelo tagliuzzava la faccia e la tristezza appesantiva il cuore, abbiamo accompagnato al cimitero Pére_Lachaise la salma di uno dei nostri, di un caduto di questo manipolo che lotta nella capitale babelica, per affermare l’eterna nobiltà dell’arte italiana…”

Ma al dramma di Fonda se n’aggiunse un altro: la moglie Alfa Husak che lo aveva amato (e lo amava!) e aveva assecondato l’avventura francese, la sua modella in dipinti pervasi spesso da atmosfere bonnardiane, si suicidò avvelenandosi sulla sua tomba.

Fu sopraffatta dal dolore e dalla solitudine improvvisa che aveva occupato il posto dei sogni e delle speranze?

Nel cimitero monumentale della città indifferente dove tra le tante anime riposano i pittori De Nittis, Corot, Pissarro, Seraut, Delacroix e Modigliani, i corpi d’Enrico e Alfa non rimasero a lungo…Le ceneri furono portate in Italia e inumate a Pirano.

Prima di Fonda altri pittori delle nostre terre avevano studiato e lavorato a Parigi: Umberto Veruda (Trieste 1868 – Trieste 1904) vi si recò due volte nel 1887 e nel 1897 e dopo di lui intrapresero la stessa via Piero Marussig (Trieste 1879 – Pavia 1937) che si fermò nella metropoli un anno e Vittorio Bolaffio (Gorizia 1883 – Trieste 1931).

Certo è che Fonda conosceva assai bene la produzione del Veruda, ma non ci è dato sapere con certezza se a Trieste avesse frequentato Bolaffio. In città l’ambiente artistico cittadino fu assai fervido: sotto il Municipio, il Caffè Garibaldi era il luogo delle “riunioni” ufficiali dei pittori triestini…

Alcuni bellissimi disegni ed acquerelli del Fonda, uno dei quali è proprietà dei Civici Musei di Storia ed Arte, con mirabili scorci di Cavana o di Piazza della Borsa furono eseguiti a pochi passi dal Caffè. Presumibilmente Fonda conobbe Piero Marussig che, come lui, aveva frequenti contatti in Lombardia e con lui fu presente alla “Prima Mostra del Novecento Italiano”.

Alla fine degli Anni Venti, dunque, come De Pisis e Boldini, anche Fonda elesse Parigi ambiente ideale per dipingere: nella capitale tentacolare si poteva respirare dovunque aria di pittura, si poteva vivere quotidianamente lo spazio emozionale da circoscrivere in una tela: c’erano inoltre musei ricchissimi di capolavori, gallerie d’arte assai famose, astuti mercanti, artisti impegnati, bohémien.

Per un pittore esserci significava avere la possibilità continua di stringere nuovi contatti, poter seguire da vicino tutti i movimenti innovativi, capirne immediatamente l’essenza, confrontarsi con gli altri e vivere senza tregua affinando passo dopo passo, il proprio stile.

L’artista vi era giunto con una borsa di studio ricevuta dal Comune di Fiume per l’interessamento del senatore Grossich.

Negli anni seguenti il gelido 1929, sull’opera intera di Fonda sopraggiunse lento e inesorabile il silenzio; molti aneddoti raccontati da coloro che conobbero il pittore furono offuscati da altri avvenimenti incalzanti, da nuove motivate ansie e da tragici timori.

A ciò si aggiunga che parecchi suoi quadri rimasti in Italia non erano stati completati; in qualche caso dovevano essere solamente rivisti prima di essere fermati.

Gli eventi della Seconda Guerra Mondiale contribuirono inevitabilmente per lui, come per tanti altri artisti, a far perdere le tracce di chissà quali importanti quadri e a distruggerne altri. Ciò forse accadde anche il 20 febbraio del 1945 quando un bombardamento distrusse Villa Veneziani, la villa d’Italo Svevo nella quale c’erano molte opere sue.

Fortunatamente tuttavia, un certo numero di quadri fu portato da Letizia Fonda Savio, cugina acquisita d’Italo Svevo, in una casa di campagna a Giavera del Montello e là è rimasto fino alla sua scomparsa.

Nel 1935 la signora Bianca Fonda de Wanniek regalò al Civico Museo Revoltella quattro quadri di Fonda (tre di essi hanno stupendi soggetti parigini) e Il ritratto con la moglie un olio su tela di cm 105x98 del quale esistono altre versioni, fu donato nel 1972 da Antonio Fonda Savio. Ma anche altri quadri del Fonda furono gelosamente conservati da collezionisti, non solo a Trieste; è indicativo il fatto che venti anni dopo la morte, nel 1949, l’Opera Bevilacqua La Masa lo ricordò con una retrospettiva comprendente 57 lavori riconoscendone la grandezza. L’anno seguente il Comune di Trieste celebrando i pittori istriani più rappresentativi, espose sedici quadri tra i quali un Autoritratto, alcune nature morte con funghi e fiori e magnifiche vedute parigine: La chiesa di Notre Dame, La Senna a Meudon e Au Belvedere.

Nel 1979 l’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo organizzò una mostra antologica del pittore nel Castello di San Giusto: essa fu realizzata dal critico Carlo Milic e dall’amico, sensibilissimo artista Marino Cassetti.

Molti aspetti della vita di Fonda, tuttavia, sono stati indagati poco ed è giunto il tempo di farlo in maniera definitiva.

Negli anni Ottanta e Novanta dipinti di Fonda sono stati esposti nella mostra Arte nel Friuli Venezia Giulia 1900-1950, in quella intitolata Il 900 in Alpe Adria entrambe nelle sale della Stazione Marittima e nell’importante rassegna Il Mito Sottile al Museo Revoltella.

 

 

L’equilibrio del segno e del colore

 

Fonda incominciò a disegnare fin dalla giovane età; i suoi tratti di matite morbide su fogli di carta comunemente di modeste dimensioni, restano inconfondibili a coloro che sanno leggerne il segno caratterizzante e le ombreggiature decise. Egli non rinunciò mai a queste notazioni essenziali, studi e appunti grafici: essi costituiscono un itinerario preciso dei suoi interessi quotidiani! Attraverso un’osservazione costante seppe cogliere ora un pescatore solitario seduto in contemplazione del mare, ora le barche, ora la massa ferrea di un piroscafo attraccato alle bitte. Elementi desunti nella città della sua adolescenza (Fiume), ma anche a Pirano e a Trieste dove soggiornò più volte.

Nella nostra città disegnò e acquerellò sfidando difficili prospettive, colse gli avventori dei caffè seduti ai tavolini, giocatori di scacchi, gli spettatori di gare e concorsi ippici, i fantini ma anche le carrozze ferme lungo la via in attesa dei passeggeri, i tram e le automobili.

Fu attratto da figure femminili e dal movimento disordinato di passanti.

Contemporaneamente dipingeva e i suoi primi soggetti furono paesaggi e nature morte con vasi, bambole, borsette, ecc.

Eseguì pure ritratti ed alcuni Autoritratti con la moglie sono molto attraenti per l’ambientazione, oltre che per la pittura (alle spalle dei coniugi c’è Pirano in uno di loro e il Carso in un altro).

Se in una prima fase di ricerca Fonda usò stendere i colori senza parsimonia di materia, in seguito scarnificò la loro corposità e fu attentissimo a sfruttare (è una sua caratteristica!) il fondo dei cartoni che prediligeva: la sintesi di dosaggi cromatici e le modulazioni tonali rese con colori diafani gli consentì di ottenere, soprattutto nell’ultimo periodo, quello francese, un felicissimo legame tra i paesaggi dipinti e la naturalezza della luce.

Lasciato il Carso, la sua palestra d’assiduo lavoro mentale e pratico divenne Venezia, Padova, ma principalmente Asolo e il Montello.

Nel Veneto ebbe contatti con artisti d’intelligenti aperture e d’interessi quali A. Martini, P. Semeghini, M. Cavaglieri, T. Garbari, G. Rossi, W. Ferrari, G. Cadorin e diversi altri.

 Questi uomini che ruotavano attorno a Ca’ Pesaro e a Nino Barbantini e che si proposero spesso come ‘alternativi’ rispetto all’accademia e alla pittura retorica, rappresentavano il meglio della nuova cultura artistica italiana. Ma in quella roccaforte di protesta ad un certo momento Fonda dovette sentirsi a disagio…

Aveva già conosciuto l’ambiente toscano e a Firenze aveva fatto tesoro della lezione di Fattori, seria, severa, di forza semplice, malinconica e poeticamente rara, non premeditata né distillata in teorie. Il vigore del segno del livornese lo entusiasmò!

Scelse dunque Milano e con decisione, in spazi interamente vissuti, raffinò l’impostazione, perfezionò la scelta dei colori, ma soprattutto si preparò psicologicamente a lasciare l’Italia: in Lombardia comprese anche che la sua espressività non trovava ancora la dimensione voluta. Di fermi propositi, non certamente mondano, Fonda si tuffò anima, cuore e pennelli nell’esperienza d’Oltralpe; a Parigi avrebbe potuto lavorare con nuova energia, ammirare gli Impressionisti, Matisse, Vuillard, Bonnard, Utrillo e Cézanne il pittore che più di tutti stimava. Fonda incontrò serie difficoltà con le procedure dei passaporti suo e di Alfa, ma finalmente arrivò nella Ville lumiére. Si stabilì a Meudon nell’immediata periferia sud ovest della città, sulla riva sinistra della Senna, poco distante dall’Hotel Biron dove Auguste Rodin aveva lavorato fino all’ultimo avvenuta nel 1917. Fu il momento artistico più alto per il fiumano! Durante la permanenza a Parigi egli produsse alcune opere d’altissima levatura sulla collina di Montmartre e ai giardini di Lussenburgo; dipinse la gente seduta sulle panchine lungo i viali alberati e quelle lungo la via ai tavolini dei caffè; osservò alcuni angoli della Senna, i ponti e le chiatte per il trasporto delle merci.

Soprattutto approfondì la conoscenza di Cezanne e mirò ad un’essenzializzazione della pennellata. Ridusse ulteriormente la tavolozza e l’orchestrò sulle terre verdi, sul cinabro, sugli azzurrini delicati, sul bruno van Dick, sulle ocre, le terre rosse e le lacche carminate.

Nei quadri realizzati ad Argenteuil (luogo amato da Monet), Passy, nei pressi del Bois de Boulogne, al Pont de Sévres, a Meudon a Bellevue, ma anche nel centro città nei pressi dell’Hotel des Invalides e della Medeleine esprime il valore, quasi epidermico di semplificazione plastica. Spoglia i suoi soggetti di ogni particolare accessorio ed è attratto emotivamente, spiritualmente dall’atmosfera che le svolte dei lungo-Senna, i vecchi caffè con le insegne e le pareti esterne colorate, la ferrovia sotto la neve di Meudon gli offrono: dipinge in casa ponendo attenzione ai pochi oggetti dell’arredo: il divano, una lampada, la semplice libreria e sopra ad essa il modello di un vascello che gli ricorda il mare e qualche suppellettile. Dipinge anche dalla finestra e dal modesto balcone dello studiolo e osserva i tetti delle case, i loro camini, la gente che passa indifferente.

Esegue dipinti malinconici e colloca la moglie in un’intimità davvero straordinaria poiché anche gli elementi semplici della sua pittura sono pervasi da poesia.

A Parigi Fonda dipinge bene perché è felice.

Purtroppo fu un attimo!

 

 

 

Walter Abrami