Dall' Impero all'Art
Decò
Alessandra Doratti
Da un certo punto di vista si può dire che il revival egizio sia uno
stile che dura da due millenni. Forse sarebbe più corretto dichiarare
che l'Egitto non è mai morto nella consapevolezza critica
dell'Occidente. I Romani consideravano l'Egitto la più grande delle loro
conquiste e, nella scia della vittoria, Roma stessa si trasformò in un
museo di antichità egizie, piccole e grandi.
Queste sopravvissero nel corso dei secoli, ispirando artisti quali
Giovan Battista Piranesi. La moda di inserire nelle composizioni temi
egizi, iniziata sul finire del Settecento, continuò per tutto il secolo
successivo, il periodo appunto che molti storici identificano con il
revival di questo stile. Usando le parole di James Stevens Curl, esperto
d'arte, "l'Egitto ha continuato a esercitare sul gusto occidentale,
un'influenza stranamente tenace e sorprendentemente duratura".
L'Egitto è un motivo ricorrente nella nostra cultura: lo ritroviamo
negli obelischi del Mall a Washinghton e di Central Park a New York,
sulle banconote del dollaro, nei versi della Terra desolata e nelle
pagine di Antiche sere di Norman Mailer, sul palcoscenico e sullo
schermo in tutte le versioni possibili, da Shakesperare e Shaw, da Steve
Martin a Mel Brooks. Il miracolo e la maestà delle piramidi affascinano
il poeta e incantano l'ingegnere. È una cultura antica, misteriosa,
esotica e, nello stesso tempo, accessibile e affascinante, vicina alla
nostra sensibilità. A differenza di molte tradizioni non occidentali,
l'Egitto appartiene al nostro patrimonio spirituale.
Dall'antica Grecia all'antica Roma, all'era cristiana: è questo
l'itinerario della nostra storia; eppure l'Egitto in un modo che è
difficile da definire, sembra precederla in forme che, pur profondamente
diverse, sembrano affini. Atene, i Cesari, il Rinascimento sono momenti
definiti nel tempo, mentre l'Egitto si sottrae alla cronologia, è questo
preistorico, o per lo meno si attesta sul confine fra la "civiltà" e
quanto veniva prima.
I semi di quella cultura, presenti nelle forme Art Déco e nel Flauto
magico (decorato da Schinkel nel 1815 e da Hockney nel 1978), si
riallacciano a un mondo che esisteva prima del tempo. I suoi obelischi e
i monumenti che sorgono nel deserto discendono direttamente dalla
misteriosa stele adorata dagli antropoidi nel film 2001 Odissea nello
spazio di Stanley Kubrick. Fino alla campagna di Napoleone nel
1798-99, l'Egitto esisteva nell'immaginario collettivo europeo
soprattutto come una fantasia che affondava le radici nella cabala
rinascimentale e nelle pratiche massoniche. Se ne conosceva l'arte
attraverso i monumenti di Roma e delle province che Piranesi incorporò,
dopo averli rielaborati, nel suo Diverse maniere del 1769, il più
autorevole testo dedicato al mondo egizio. Piranesi amava di quell'arte
l'austera semplicità in un'epoca che cominciava a volgersi al grandioso,
al passionale, all'eterno: al sublime, in una parola. Nell'aria
vibravano i primi segni anticipatori del Romanticismo, sebbene non
esistesse ancora tale definizione.
Nella sua opera, dedicata alla storia degli stili, Philippe Jullian ha
definito l'Egitto "la Cina del Neoclassicismo", intendendo che l'Egitto
fu per gli artisti neoclassici importante come fonte di idee e di temi
quanto lo era stata l'arte cinese per i predecessori del periodo Rococò.
Ma possiamo ampliare l'antologia di Jullian: le caratteristiche
dell'arte egizia ne fecero il tramite perfetto per conciliare gli
aneliti romantici e l'importante gusto neoclassico. Era un'arte solenne,
recondita, con una certa vena luttuosa - o per lo meno sobria - in
sintonia con la sensibilità vittoriana. Dietro quelle forme si
percepivano il peso dei millenni e la forza dell'ignoto. Nello stesso
tempo erano rigorose, dirette, dotate di grande impatto visivo. Forse il
grande revival egizio non ebbe inizio con la campagna di Napoleone, ma
furono le sue conquiste, le scoperte che riuscirono a dare quello
slancio che trasforma tendenze ed entusiasmi in autentici movimenti
artistici.
Lo stesso Napoleone si fece promotore di una grande ricerca archeologica
intitolata Descrizione, che sarebbe apparsa in venti volumi tra
il 1809 e il 1828. Ma ancora prima era apparso il Voyage dans...
Egypte del barone Dominique Vivant Denon, pubblicato a Parigi nel
1802 e stampato in inglese a Londra e a New York entro l'anno
successivo.
Per la prima volta l'occidente contemplava l'arte egizia, le conseguenze
furono elettrizzanti. I voli della fantasia si confrontarono con le
scoperte archeologiche sulle quali insisteva lo spirito scientifico dei
tempi: il sublime si misurava con il compasso. Ebbe così inizio un
revival che, a due secoli di distanza, è ancora molto vitale, come hanno
dimostrato le folle di tutto il mondo accorse alla mostra dedicata a
Tutankamon.
In Inghilterra il grande paladino del movimento fu Thomas Hope, capace
di coniugare la ricchezza inventiva con la precisione archeologica, in
una sintesi che sarebbe stata imitata per tutto il secolo, soprattutto
sessant'anni più tardi, da Christopher Dresser.
I suoi mobili incorporavano molti principi strutturali degli originali
egizi. La Francia e l'America cedettero alla moda l'una dopo l'altra.
Venne a formarsi un vocabolario, adottato nel vecchio e nel nuovo mondo,
in grado di descrivere le esigenze decorative e tutta una gamma di
proporzioni. A Boston, come a Manchester, a Lione come a Mannheim
proliferarono i temi ornamentali ispirati a quella antica cultura:
mummie, sfingi e tripodi; l'intero pantheon delle divinità zoomorfe e
antropomorfe, geroglifici e altri motivi scolpiti, dipinti, dorati,
scanalati, da usare come supporti, rifiniture, decorazioni, a tutti i
livelli di raffinatezza e sofisticazione, in tutte le gradazioni di
utilità e sposa. Sofà, armadietti, librerie, sgabelli poggiapiedi,
l'arredamento di un'intera casa.
Non mancarono alcuni eccessi dai tratti parodistici - non dimentichiamo
che il revival egizio è alla radice delle infondate credenze sulla
maledizione del faraone e la vendetta della mummia - ma nella
maggioranza dei casi si trattava di oggetti dotati di grande fascinosa
bellezza.
Oggi, a distanza di tempo dagli slanci filosofici e dagli entusiasmi
archeologici, l'Egitto continua a incantarci, sono incomparabili la
varietà e ricchezza dei motivi che l'artista può attingere da quelle
forme, il carattere eterno di quel linguaggio che si sottrae alle leggi
del tempo, eternamente "moderno" e utilizzabile oggi dal "gruppo di Neuf"
come lo fu ieri da Frank Lloyd Wright o, ai suoi tempi, da Thomas Hope e
dai suoi contemporanei o, ancora, dagli ebanisti americani della metà
del secolo scorso.
Non è possibile attribuire limiti cronologici allo stile egizio: un
gusto autenticamente cosmopolita, adatto a tutti i luoghi, in grado di
assimilare i principi formali e le tendenze di ogni tempo, remote che
non possiamo ignorare. E quello che non possiamo ignorare, siamo
destinati a riproporlo nell'arte e nell'artigianato.
Alessandra Doratti
ne del genio architettonico di Mario Botta, deve aver vissuto lo
sgombero della mostra come una vera, propria e liberatoria evacuazione.