Cornelius, Overbeck e
la controrivoluzione dei "nazareni"
Alessandra Doratti
Nel 1809 a Vienna sotto il nome di Lukasbund si riunì un gruppo di
giovani artisti il cui intento era di rinnovare l'arte, che, a stare ai
loro convincimenti, era del tutto decaduta in Germania e si era
estraniata dalla nazione. Premessa necessaria era una riflessione
sull'essenza dell'arte che essi credettero di poter affermare ponendosi
il problema di quale fosse la sua originaria destinazione. In maniera
quanto mai tipica nel pensiero romantico, l'esame della storia prese
così il posto della speculazione filosofica o estetica. Come per
Frederich Schlegel, fu ferma convinzione dei Lukasbrüder che religione e
nazione fossero gli originari pilastri di sostegno dell'arte e che
questa non poteva essere separata da essi senza venir perduta. Per i
Lukasbrüder la destinazione originaria e perciò connaturata dell'essenza
stessa dell'arte venne ravvisata nel compito di servire alla vita
religiosa e alla vita civile. Una delle aspirazioni centrali dei
nazareni (tale fu il nome che prese a Roma il movimento artistico
viennese) fu quella di adoperarsi per ricondurre l'arte al suo antico
condizionamento.
In sostanza queste iniziative erano soltanto scappatoie per poter
evadere dalla stridente situazione di fatto, giacché non c'era neppure
da pensare a committenze pubbliche da parte della Chiesa o dello Stato
all'epoca, politicamente così instabile, dalle guerre napoleoniche. Già
a Vienna i Lukasbrüder avevano accarezzato l'idea di decorare le chiese
con nuove pale d'altare dipinte da loro stessi. Sotto l'impressione
degli affreschi di Signorelli, di Michelangelo, di Raffaello, il pittore
Cornelius, che si era unito alla confraternita dei nazareni nell'autunno
del 1811, si convinse che non esisteva mezzo più adatto della pittura ad
affresco perché l'arte assolvesse il suo precipuo compito di servire
Chiesa e Stato. Così la rinascita della pittura ad affresco divenne uno
degli scopi più importanti dei Lukasbrüder e dell'intero movimento
nazareno e Peter Cornelius si presentò a buon diritto come un innovatore
quando si fece banditore della reintroduzione della pittura ad affresco
in Germania.
Il suo appello va inquadrato nell'atmosfera successiva al felice esito
della guerra della liberazione condotta dalla Germania (1814). Fiducioso
che l'arte, qualora le si offra la possibilità di entrare nella vita
pubblica, sia in grado di dissolvere al pesante compito di educare la
nazione, di consolidare la coscienza nazionale, Cornelius riecheggia il
possente slancio nazionalistico del pensiero tedesco della sua epoca.
Scopi del tutto corrispondenti vengono perseguiti con i numerosi
progetti per l'erezione di monumenti nazionali che dovevano eternare il
ricordo della vittoria su Napoleone. Ma i monumenti nazionali furono
innalzati e gli appelli di Cornelius restarono lettera morta; l'epoca
era ricca di idee, ma non era matura per la loro realizzazione. Ben
presto la concezione di un'arte nazionale non ebbe più ragion d'essere,
perché il Congresso di Vienna del 1815 indirizzò il corso della politica
nell'Europa centrale in una direzione certo diversa dalla costituzione
di quella nazione tedesca sognata da Cornelius e da quanti sentivano
come lui.
Non c'è dunque da meravigliarsi che non fosse un incarico ufficiale
bensì la committenza di un privato a fornire a Cornelius e ai suoi amici
la prima occasione. Nell'autunno del 1815 giunse a Roma il console
prussiano Bartholdy e prese alloggio ai piani superiori di palazzo
Zuccari presso Trinità dei Monti. Malgrado vi stesse in affitto, alla
fine del febbraio 1816 decise di far decorare con affreschi il salone
principale del terzo piano dell'edificio. In un primo momento aveva
pensato soltanto a una decorazione ornamentale con grottesche, ma
Cornelius perorò la causa per un ciclo di rappresentazioni storiche di
grandi dimensioni. Bartholdy acconsentì giacché non gli interessava
tanto la decorazione della sua casa quanto offrire un conveniente campo
di lavoro ai giovani artisti. Al tempo stesso l'iniziativa era un mezzo
per far propaganda al Paese che come console rappresentava. Perciò in un
primo momento l'incarico fu affidato solo ad artisti prussiani, cioè lo
stesso Cornelius, Franz Catel, Wilhelm Schadow e Philipp Veit: più
tardi, quando Catel rinunziò a collaborare a causa del compenso troppo
esiguo, fu cooptato Overbeck, originario di Lubecca, libera città della
Lega Anseatica.
Gli artisti scelsero per il tema degli affreschi le storie egiziane di
Giuseppe, che sia Schadow sia Overbeck avevano già prima raffigurato in
singole scene. L'opera alla quale i quattro pittori si accinsero con
entusiasmo, si dimostrò subito di inattesa difficoltà. La scarsa
dimestichezza con la tecnica dell'affresco impedì al lavoro di procedere
con la rapidità sperata: nell'ottobre del 1816, quando secondo il
contratto l'intera opera avrebbe dovuto essere terminata, era in realtà
pronta solo metà degli affreschi. Il più veloce a dipingere era stato
Veit, che già a settembre aveva ultimato la sua raffigurazione. Gli
aveva fatto seguito Schadow, poi Overbeck e Cornelius.
Il lavoro era proceduto con estrema lentezza perché gli artisti avevano
eseguito con grande accuratezza i cartoni preparatori. Diversamente dai
grandi affrescatori barocchi, i nazareni trattavano questi cartoni non
semplicemente come schizzi di lavoro, ma come vere opere d'arte, che fin
dall'inizio erano destinate a essere esposte in Germania in modo da
attirare l'attenzione sulle aspirazioni innovatrici della confraternita.
Va detto che con questo mecenatismo non si andò molto lontano; infatti
nell'autunno del 1816 il completamento del ciclo fu assicurato
esclusivamente dal fatto che Schadow e Veit continuarono a lavorare
gratuitamente e Cornelius si accontentò di un compenso ancora più esiguo
di quello iniziale.
Al di là delle differenze di temperamento artistico dei quattro pittori,
il ciclo presenta una sua unità nella concezione e nell'impianto
compositivo che si rifà alla pittura rinascimentale italiana. Vi si
individuano varie citazioni degli affreschi di Raffaello nelle Logge
Vaticane, che sono del resto la fonte di ispirazione dei nazareni: da
esse proviene l'idea di fondo di Cornelius e di Overbeck. Anche nel
panneggio delle figure è evidente la stretta dipendenza da Raffaello.
A Roma, i pittori tedeschi si erano dedicati con particolare interesse
allo studio del panneggio; un gran numero di disegni attesta con quale
cura fossero stati preparati gli affreschi sotto questo profilo.
Bartholdy aveva lasciato la scelta dei temi per il ciclo degli affreschi
ai quattro pittori: essi avevano scelto le storie di Giuseppe in Egitto,
poiché sono rappresentazioni del benessere e del bisogno quali
condizioni estreme della vita umana, sono inoltre portatrici del
concetto che bisogna sopportare tanto i tempi buoni che quelli cattivi
perché possono portare dei vantaggi se l'uomo segue le ispirazioni
divine e si sottomette alla volontà di Dio, come fece Giuseppe. La
storia di Giuseppe è dunque, nel suo significato più profondo, specchio
dell'agire divino nel tempo. È comprensibile che proprio questo tema
sembrasse adatto ai nazareni per il duplice scopo cui doveva assolvere
la loro iniziativa: decorare la casa di un diplomatico, di un uomo
politico, e offrire un esempio dei fini che la loro confraternita si
prefiggeva. Gli affreschi sono il primo frutto della pittura monumentale
e al tempo stesso espressione di una concezione della storia di marca
cristiana. Anche se in genere si tende a mettere in secondo piano questo
aspetto, l'importanza storica e artistica degli affreschi per il secolo
XIX è indiscutibile. A questo si deve, sette anni dopo il loro
completamento, il complicato tentativo di staccarli dalle pareti e di
trasportarli a Berlino, dove si trovano ancora oggi.
Il successo degli affreschi con le storie di Giuseppe fu più grande di
quanto i nazareni avevano potuto sperare. Dovettero ancora subire una
battuta di attesa prima che giungessero i primi incarichi dalla
Germania, malgrado il pubblico e persino i più noti artisti romani del
tempo, come Camuccini e Landi, esprimessero le loro lodi e Canova li
invitasse a dipingere affreschi nel museo Chiaramonti in Vaticano, un
invito che naturalmente raccolsero Veit ed Eggers, che era
amichevolmente legato ai Lukasbrüder.
La Divina commedia e i poemi epici di Ariosto e Tasso
Nel 1817 il marchese Carlo Massimo affidò invece a Cornelius e Overbeck
un incarico che entrambi accettarono con entusiasmo: dovevano decorare
due sale del Casino del suo parco con scene tratte dalla Divina commedia
e dai poemi epici dell'Ariosto e del Tasso. La storia della creazione
degli affreschi del Casino fu travagliata da alterne vicende, poiché nel
1818 Cornelius venne chiamato in Germania dal principe Ludwig di Baviera
e Veit lo sostituì; giunse poi Schnorr che decorò la sala centrale con
motivi tratti dall'Orlando Furioso.
L'idea di far rinascere la pittura monumentale, nata dalla cerchia dei
Lukasbrüder, potè infine trovare campo per affermarsi negli affreschi
del Casino Massimo.
L'epoca della sua maggior diffusione e divulgazione cominciò quando
ancora si attendeva alla creazione di quest'opera. In quegli stessi anni
il baricentro dell'attività artistica dei nazareni si spostò dall'Italia
alla Germania, dove ben presto Monaco divenne il centro dei loro
progetti. Cornelius aveva già dischiuso la via e Schnorr lo seguì,
appena ultimati i suoi affreschi ariosteschi. Certo, per il successo che
ora infine ottenevano, gli artisti dovettero pagare un grosso tributo.
Gli incarichi che venivano loro affidati erano così impegnati che non
avrebbero potuto mai più essere assolti singolarmente. Dovettero
necessariamente ricorrere, e su vasta scala, alla collaborazione dei
propri allievi. In generale, nello sviluppo successivo dell'arte
nazarena si ebbe una crescente accentuazione dell'elemento pittorico,
che nei grandi cicli di affreschi si rivelò necessariamente dannosa.
Alessandra Doratti