Giuliano Confalonieri
CONQUISTADORES
LA SCOPERTA DELLE AMERICHE
“Le religioni e le mitologie, come la poesia, sono un tentativo dell’umanità di esprimere in immagini l’indicibile che voi tentate invano di tradurre in ragione” (Hermann Hesse 1).
INDICE:
Introduzione
Colombo
INTRODUZIONE
Il crimine è
ininterrotto, da quello individuale a quello generalizzato, dallo stupro
ai campi di sterminio, dal terrorismo alla repressione: Sudan, Corea,
Libano, Cambogia, Cile, Afghanistan, Tibet, Kurdistan, Vietnam, El
Salvador, Etiopia, Srì Lanka, Cina, Irak, Iran, Birmania. Tra il XVII/XIX
secolo l’espansione della colonizzazione decimò intere tribù indiane del
Nord America (Apache, Arapaho, Cheyenne, Comanche, Sioux, Huroni, Iowa,
Irochesi, Seminole). Il dispotismo di Josif Vissarionovich Stalin4
ha riempito sterminati cimiteri: i processi di Mosca, gli esili
siberiani, le esecuzioni sommarie, i gulag ideati dal capo della polizia
politica Lavrentij Berija5.
Adolf Hitler6
è stato l’artefice del massacro indiscriminato della seconda guerra
mondiale; con la complicità di fanatici è stata attuata la ‘soluzione
finale ebraica’. I lager nazisti hanno restituito montagne di
cadaveri ed i sopravvissuti portano ancora nello spirito e nella carne
la miseria del loro percorso. Alla lettera del 1933 di Albert Einstein
(fisico tedesco 1879/1855) “Perchè la guerra?”, Sigmund Freud
(fondatore della psicoanalisi, Austria 1856/1939) rispose: “Ci siamo
convinti che essa è all’opera nell’interno di ogni essere vivente e che
la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo
stato di materia inanimata. Le si addice il nome di pulsione di morte
mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la
vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva quando con
l’aiuto di certi organi si rivolge all’esterno, verso gli oggetti.
L’essere vivente protegge la propria vita distruggendone una estranea.
Una parte della pulsione di morte tuttavia rimane attiva all’interno
dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare una serie di
fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione
distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della
nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso
l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è
spinto troppo oltre: il processo diretto è malsano. Invece il volgersi
di queste pulsioni alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere
vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa
biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi
combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di
quel che lo sia la resistenza con cui noi li contrastiamo e di cui
ancora dobbiamo trovare la spiegazione ... Se la propensione alla
guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio
ricorrere all’antagonista di questa pulsione, l’Eros. Tutto ciò che fa
sorgere legami emotivi fra gli uomini deve agire contro la guerra”.
Le brame territoriali di Attila7,
Gengis Khan8
e Napoleone9
hanno portato distruzione e morte. Le strade consolari romane, le
piramidi egizie e la muraglia cinese, sono grandiosi sacrari fatti con
il sangue delle masse. Se l’assurdo al quale religione e filosofia hanno
tentato nei secoli di dare una risposta fosse percepibile oltre i sensi,
probabilmente si potrebbe dare un senso a tutte le cose. Fedor
Dostoevskij10
nel suo lavoro letterario scruta il sottosuolo delle coscienze portando
a galla la considerazione che “Se ciascuno di noi fosse obbligato a
rivelare i lati più nascosti di se stesso, nel mondo si spargerebbe una
tale puzza da soffocare tutti quanti”. Il contemporaneo Ivan S.
Turgenev11
in “Padri e figli” appoggia l’analisi dei comportamenti sul
nichilismo che nega la realtà. William Shakespeare12
propende in molte sue tragedie al pessimismo con il quale conferma a
modo suo l’irrazionale. L’anticonformismo sulla mostruosa
quotidianità di Charles Bukowski13
è un altro modo di negare l’esistenza. Blaise Pascal14
completa il sintetico “So solo che non so nulla” di Socrate con
la riflessione: “Io non so chi mi abbia messo al mondo né che cosa
siano il mondo o me stesso. Sono in una terribile ignoranza di tutte le
cose. Non so cosa siano il mio corpo e i miei sensi, la mia anima e
quella parte stessa di me che pensa ciò che io dico, che riflette su
tutto e su se stessa e non si conosce più che le altre cose. Non vedo
intorno a me che infiniti, che mi imprigionano come un atomo e come
un'ombra destinata a durare un attimo senza ritorno.
Il colonialismo è una
delle tante conseguenze della prevaricazione in nome del potere e della
ricchezza, tendenze molto spesso mascherate da fini religiosi. La
politica di dominio perseguita dalle potenze europee su ampi territori
dell’America, dell’Africa e dell’Asia, si è affermata in seguito alle
esplorazioni geografiche. Giustificata sul piano morale come funzione
civilizzatrice, apportò tremende sofferenze e stragi indifferenziate. La
storia dei Conquistadores si ripercosse sull’intera Europa tanto
che fu lo stesso Papa ad autorizzare con la Bolla Inter Caetera
il tracciamento sulle carte della linea di demarcazione (raya) ad
ovest dell’arcipelago delle Azzorre. Ciò suddivideva l’influenza sulle
terre da assoggettare alla Spagna ed al Portogallo, con la
raccomandazione che gli indigeni “dovevano essere trattati
amorevolmente”. Nonostante questa paterna preoccupazione, i gruppi
di frati che si trasferirono nel Nuovo Mondo per convertire gli
indigeni innescarono una serie di coercizioni sovrapponendo le loro
crudeltà a quelle dei compatrioti andati per razziare. Costretti al
lavoro per costruire conventi, gli indios dovettero trascurare le
coltivazioni: molti di loro morirono per le malattie importate, per le
fatiche eccessive e per le punizioni spesso crudeli di chi li voleva
evangelizzare: “la storia delle ‘sottane nere’ ha una qualità
omerica. I missionari furono gli avventurieri del XVII-XVIII sec., gli
eredi dei conquistadores dei primi tempi. Percorrevano grandi distanze,
trionfavano dell’aspra natura e dell’infido selvaggio, compivano imprese
stupefacenti, non si lasciavano fermare né dalle montagne né dai fiumi
né dalla fame, dal freddo, dalla sete”.
Colombo, Vespucci, Cortes,
Pizarro
Tra
il XVI e il XVII sec. la Spagna controllava l’America meridionale e
centrale, con l’eccezione del Brasile. Oltre ai metalli preziosi,
importò in Europa le piante, in particolare le piantagioni di zucchero,
tabacco, caffé, tè e cotone. Iniziò anche il commercio degli schiavi e
l’espansione del fenomeno corsaro che influì negativamente sui
possedimenti depredati: una serie di circostanze che contribuì ad
alterare definitivamente l’intero continente. Naturalmente i nativi
erano esclusi da qualunque partecipazione amministrativa o commerciale
nella gestione delle grandi concessioni di terra ai bianchi
privilegiati. Le enormi novità apportate dallo sfruttamento delle
Americhe ribaltò il sistema finanziario anche in Europa, tanto da
spingere molte altre nazioni ad accorrere oltre Oceano per spartirsi il
bottino. In seguito a questo stravolgimento, si affermeranno la
Compagnia delle Indie17,
pirati e corsari. Con l’intensificarsi dei traffici marittimi si
attestarono gruppi di bucanieri (dal francese ‘boucanier’,
cacciatore di buoi selvatici nelle Antille, derivazione dal caribico ‘boucan’
ossia carne affumicata). Filibustieri (dallo spagnolo ‘filibustero’,
con probabile derivazione dai vocaboli olandesi ‘libero’ e ‘far
bottino’): avventurieri europei (francesi, inglesi, olandesi) che nel
XVII sec. praticavano la guerra corsara nelle Antille; erano piantatori
e cacciatori che, dopo la distruzione nel 1630 dei loro insediamenti da
parte degli spagnoli, si dedicarono al contrabbando ed agli arrembaggi
con una flotta mercenaria, appoggiati dalle nazioni di origine contro la
Spagna. Giamaica, l’isola delle Grandi Antille conquistata nel 1665, fu
per molti anni base delle scorrerie dei filibustieri mentre all’interno
si succedevano tentativi di rivolta degli schiavi: da lì saccheggiarono
Panamà nel 1671 e ‘corsero’ l’Oceano Pacifico fino al 1785; depredarono
anche le città costiere dell’America Centrale e del Venezuela (il
trattato di Utrecht del 1713/15 concluse la loro movimentata storia
favorendo l’insediamento di possedimenti europei). Corsari (dal latino
medioevale ‘cursarium’, derivazione da ‘cursus’ o viaggio
per mare e da ‘currere’, correre): equipaggi di navi private
autorizzati dal monarca a condurre la ‘guerra di corsa’ contro il
traffico mercantile e saccheggiare sistematicamente le colonie nemiche.
Dal XII sec. le grandi potenze usarono i corsari per sopperire alla
mancanza di una flotta militare operativa. Anche noti marinai ed
esploratori come Drake, Raleigh, Bart e Surcouf avevano una ‘patente’
ufficiale per questo tipo di attività.
Pirateria (dal latino ‘piratam’, dal greco ‘peirates’,
derivazione di ‘peiran’, assalire): azione di rapina compiuta
dall’equipaggio di una nave ai danni di un’altra. La pirateria risale
all’epoca dei fenici coinvolgendo – secondo le zone e gli interessi
contingenti – gli Illirici, i Liguri e gli Etruschi. Roma li contrastò
con energia fino all’epoca di Augusto ma fu solo nel 67 che Pompeo
riuscì a rendere sicura la navigazione entro i confini dell’Impero.
Barbareschi (pirati della Barberia, regione musulmana dell’Africa
Settentrionale, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia: “Vittorie delle
galere toscane sopra i barbareschi”, Carducci). Attivi
saccheggiatori delle comunità rivierasche mediterranee, con una propria
organizzazione statale autonoma dal XVI sec. fino alla espansione
coloniale francese del XIX sec. (occupazione dell’Algeria dal 1830 e
della Tunisia dal 1881).
Uno tra i maggiori
esponenti della comunità divenne il corsaro inglese Sir Henry Morgan
(1635/1688) che condusse spedizioni contro le colonie spagnole del
Centro America. Carlo II d’Inghilterra lo nominò vice governatore della
Giamaica nel 1674, carica che mantenne per dieci anni. Rapito molto
giovane a Bristol, fu venduto come schiavo a Barbados. Si unì ai
bucanieri della Giamaica partecipando a varie spedizioni contro gli
Spagnoli nelle Antille. Eletto ammiraglio dai corsari nel 1668, espugnò
Portobello (Panama), sconfisse gli Spagnoli a Maracaibo e fu nominato
comandante della flotta inglese operante nella Giamaica. Arrestato e
imprigionato in Inghilterra per abuso di potere, fu riabilitato ed
insignito del titolo di Lord Vaughan con la funzione di vice governatore
della Giamaica, carica che mantenne per dieci anni.
Il sole come simbolo
di vita è presente in varie civiltà. Credere nell’astro che nasce e
muore ogni giorno sull’orizzonte è stato probabilmente il primo segno
che la razza umanaha intuito come fonte di vita (“le stelle della
notte impallidiscono al cospetto del sole...”). Il faraone Akhenaton
(nome assunto da Amenofi IV – 1367/50 a.C.) introdusse in Egitto il
culto monoteista del dio solare Aton. La località di Amarna, a nord di
Tebe, diventò la nuova capitale Ahet Aton: le ricerche archeologiche
hanno scoperto papiri diplomatici, resti di pitture e materiale
statuario. Ci è pervenuto un inno, una preghiera, un’esortazione: “Com’è
bella la tua aurora all’orizzonte del cielo, o Aton vivente, iniziatore
della vita! Quando sorgi a Oriente riempi l’universo della tua bellezza.
Sei bello, grande, splendente, alto sopra la terra; i tuoi raggi
abbracciano la terra e tutto ciò che hai Creato”. Meandro, spirale e
labirinto: il simbolo della svastica si ritrova presso molte popolazioni
dalla preistoria. La croce uncinata dovrebbe indicare il movimento del
sole: in India (apparsa intorno al 500 a.C.) si considerava positiva
quando posizionata in sintonia con la rotazione dell’astro, negativa
invece quando gli uncini sono in senso opposto; allora il simbolo
diventa infausto perché contrario all’ordine cosmico. Il segno
allegorico sembra abbia origini molto antiche perché appare in reperti
ritrovati in Grecia, Creta, Troia, Cipro, nel Tibet, nelle regioni
danubiane e nella civiltà villanoviana in Italia. La sopravvivenza di
questo simbolo nel corso di molti secoli è documentata anche dall’arte
funeraria cristiana dal II secolo in poi: l’ultimo uso dell’emblema in
maniera assai tragica è stato quello del nazionalsocialismo di Hitler.
Montesquieu34
la considerò “una delle più grandi ferite mai sofferte dal genere
umano”, il testo ‘Chilam Balam’ di Chumayel35
riporta la tragedia con toni poetici: “Ciò che hanno fatto i signori
bianchi quando sono arrivati qui, hanno insegnato la paura e sono venuti
a fare appassire i fiori. Allora tutto era buono, vivevano sani, in loro
c’era saggezza, non c’era peccato ma i loro dèi vennero abbattuti. La
vita è avvizzita e il cuore dei fiori è morto. Ci dite che i nostri dèi
non sono veri e ora dovremmo distruggere l’antica norma di vita?”.
Giordano Bruno36
fu arso vivo nel 1600 per eresia, Galileo Galilei37
fu costretto ad abiurare, Martin Lutero38
fu scomunicato nel 1520 con Bolla pontificia. “In nome di Dio” si
commettono nefandezze che sembrano inimmaginabili per un essere dotato
di pensiero raziocinante, eppure – malgrado la presenza e la parola di
Bartolomé de Las Casas, il missionario domenicano che denunciò
l’inumanità dei connazionali nei confronti degli indios in America
Latina difendendone i diritti – l’istinto di prevaricazione portò alla
schiavitù ed all’estinzione di etnie che, nel bene e nel male, erano
sovrane dei territori nelle quali vivevano: “Il dibattito fra
colonizzatori e umanitari, fra preti e amministratori, imperversò
furiosamente durante il XVI secolo.
Avendo come basi
principali Cuba e le isole caraibiche, gli avventurieri europei
approdarono nella penisola della Florida (1513) e da lì sciamarono verso
nord attraverso terreni paludosi e deserti. La cupidigia – attratta da
voci incontrollate come "templi rivestiti di lamine d'oro" –
volle spingersi oltre, verso un nord opulento; l’immaginazione dei
conquistadores attizzata da racconti fantastici ridiventò febbrile
come al tempo dei tesori messicani e peruviani, ormai depredati.
L'esplorazione via terra e via mare coinvolse in pochi decenni l’intero
continente alla ricerca di nuove fonti aurifere, quasi sempre esaltate
per indurre nuove spedizioni ad inoltrarsi nel territorio ma quasi
sempre inesistenti. Tra le tante, quella tragica che nel 1540 con
centinaia di fanti, cavalieri, schiavi e alleati indiani al comando di
Francisco Vàsquez de Coronado (nato nel 1521 e segretario del Vicerè).
Dopo mesi di marcia intessuta da scontri con le tribù, malattie, rivolte
intestine e la costante delusione per l’assenza del fantastico Eldorado,
due anni dopo tornarono scornati e decimati a Città del Messico. Qualche
anno dopo, una spedizione pagata da Hernando de Soto – "uomo
inflessibile e di poche parole", con l'esperienza maturata agli
ordini di Pizarro – seguì la medesima sorte: alla solita ricerca di
tesori al nord della Florida, minacciata dalla fame e dall’ostilità
delle tribù per le prevaricazioni subite, scoprì un grandioso tempio
intatto con suppellettili finemente lavorate e una grande quantità di
perle scolorite. Il gruppo si inoltrò verso le pianure del nord per poi
ritornare sconfitto al Golfo del Messico: dei 622 componenti solamente
la metà sopravvisse all’ennesimo richiamo della Fata Morgana; lo
stesso Hernando de Soto fu seppellito insieme ai suoi sogni di gloria
illusoria.
_________________
COLOMBO
Le vicende storiche sono spesso riportate in
modo incerto per carenza di documentazione o per consapevole alterazione
delle date e dei fatti. Non è facile addentrarsi con sicurezza nei
meandri del tempo e delle cose al loro accadere, tanto meno lo è quando
la polvere dei secoli ha provveduto a schermare la realtà, già opinabile
in base all’interpretazione individuale. Archeologi, filosofi, teologi e
per essi scriba ed amanuensi, nel corso dei secoli hanno tolto o
inserito qualcosa sulla verità originaria, sui testi che volta per volta
vengono ricopiati o stampati. La memoria del passato viene
inevitabilmente alterata perché i fatti subiscono la metamorfosi
dell’interpretazione. Motivi politici e di tutela dell’ortodossia sono
altri elementi che vengono corrotti per le numerose mani dalle quali
passano.
Il “Diario del primo
viaggio” del navigatore (probabilmente tratto dalle note del Giornale di
bordo purtroppo perduto46)
è stato scritto dal Vescovo Bartolomé de Las Casas (la copia esistente è
“un piccolo volume in folio, legato in pergamena, composto da 76
foglietti di assai fine e compatta scrittura”). Nei viaggi successivi
Colombo si perse nell’esplorazione delle isole caribiche. Non superando
la linea dell’equatore lasciò ai conquistadores lo spazio per
assoggettare gli antichi imperi. Oltre alle traversie che aveva patito
per realizzare il viaggio transoceanico, la sorte fece assegnare al
continente remoto il nome America, derivato forse dal fiorentino Amerigo
Vespucci47
che lasciò precise relazioni sui suoi viaggi via mare: con la propria
capacità mediatica ante litteram riuscì a rubare a Colombo il
nome del continente avvistato dal coraggioso genovese.
Nel secolo XIII, i navigatori genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi, dopo
essere approdati alle isole Canarie scomparvero nel tentativo di
raggiungere le Indie circumnavigando l’Africa. Il mare ha sempre
suscitato timore e meraviglia, curiosità e rischio. Molti santuari
eretti sulle coste ospitano una quantità variegata di ex-voto in
ringraziamento per lo scampato pericolo; un antico itinerario
devozionale toccava i templi disseminati tra Liguria e Provenza, Valenza
e Cadice. “L’arte della navigazione consiste nel trovare un porto”
ovvero nella capacità di stabilire una rotta e di seguirla
correttamente. Nuovi sistemi di velatura e l’uso del timone incernierato
al centro della poppa permisero a caracche, galee e caravelle di
governare con maggiore sicurezza di quando venivano impiegati i remi
laterali. Anche la bussola magnetica (con la relativa rosa dei venti
incisa sulla scatola) e le carte marittime (portolani) contribuirono ad
aumentare il numero delle rotte anche in assenza del sole o delle
stelle. L’etnologo e navigatore norvegese Thor Heyerdahl (1914/2002)
volle dimostrare la teoria che le navigazioni transoceaniche fossero già
avvenute in epoca precolombiana. Con questo intento – costruendo
imbarcazioni primitive con legno di balsa, vimini, papiro, e sfruttando
la sola forza dei venti e delle correnti – nel 1947 attraversò l’Oceano
Pacifico (dal Perù alla Polinesia) con la zattera Kon-Tiki e nel 1970
l’Atlantico (dal Marocco a Barbados) con il barcone Ra II (il viaggio
con Ra I dovette essere interrotto per avaria) simile a quelli usati
nell’Antico Egitto48.
Gli stessi Vichinghi – o Normanni – con la loro grande abilità
marinaresca avrebbero potuto toccare (secoli VIII/XI) le coste
americane: navigatori provetti e costruttori di navi da battaglia e
mercantili (introdussero l’uso del timone e migliorarono l’efficienza
delle chiglie e delle vele), colonizzarono con le loro esplorazioni
piratesche le isole Shetland, Islanda, Groenlandia (Terra Verde),
Terranova e Labrador49.
“In quei giorni l’Oceano era navigabile da un’isola situata a occidente
dello stretto che voi chiamate Colonne d’Ercole; dall’isola si potevano
raggiungere altre isole e oltre queste si poteva arrivare al continente
opposto, al di là del quale inizia il Grande Oceano”50
Anche Colombo era convinto che oltre l’Oceano non ci fosse il vuoto
assoluto ma terra calpestabile. L’ossessione lo portò dai vertici della
fama all’oblio ma il nebbioso passato ricorda la tenacia, il genio
marinaresco e geografico51,
la volontà di vincere, la pazienza, la memoria e la fantasia di chi
conosce le proprie possibilità. Pur essendo un autodidatta riuscì a
risolvere problemi solitamente riservati agli specialisti e ad usare la
psicologia con aristocratici e marinai. Affrontò per primo il Mare dei
Sargassi e intuì la presenza della Corrente del Golfo. Una personalità
complessa macchiata purtroppo dall’esagerazione nell’applicare
l’autorità sulle terre vergini, soprattutto quando fece portare
centinaia di indios al mercato degli schiavi di Siviglia. Il mare, la
grande passione di un uomo nato per navigare, dapprima curiosando tra i
moli del porto genovese, poi imbarcato come mozzo sui barconi che
trasportavano la mercanzia. A tredici anni bordeggiava lungo la Riviera
Ligure con una curiosità talmente acuta da fargli riconoscere – nel giro
di pochi anni – i punti di riferimento a terra, i fondali, le correnti e
tutto quanto era necessario per veleggiare in sicurezza. I miti di
Afrodite52
e Oceano53
divennero parte integrante del giovane Cristoforo, fondatore della prima
colonia spagnola nel continente che fino alla morte ritenne quello delle
Indie Occidentali. La sua avventura avvicinò popoli e continenti, un
inizio che sarebbe continuato con Magellano54;
le nazioni europee compresero l’importanza dell’Oceano, al di là del
quale avrebbero potuto allargare i loro domini. Il Portogallo (l’antica
Lusitania) tra il 1419/1452 occupò Madera, Canarie, Azzorre, Capo Verde,
Guinea, Congo, Mozambico. Bartolomeo Diaz55
entrò nell’Oceano Indiano, Vasco da Gama56
nel 1497/98 compì il periplo dell’Africa e raggiunse l’India (regione di
Malabar, Mare Arabico). Pedro Alvares Cabral (1467/1526) invase il
Brasile nel 1500: riportò in Patria pepe, oro, avorio e schiavi. Ecco
perché la rotta delle tre caravelle partite da Palos il 3 agosto 1492
(lunghe meno di trenta metri ciascuna) aveva aperto una nuova era57.
Cominciò l’odissea – ingrata e umiliante – di bussare
alle porte tra intrighi dei cortigiani, derisioni e incomprensioni. Il
primo incontro che ebbe con il principe ereditario portoghese Don João
(sovrintendente del Ministero della Marina e figlio di Alfonso V61)
fu alquanto deludente. Alla morte del padre, il comportamento del nuovo
sovrano Giovanni II62,
pur appassionato di viaggi, farà amaramente constatare al genovese: “Fui
dal re di Portogallo, che si intendeva di esplorazioni e di scoperte più
di ogni altro... ma per quattordici anni non mi diede ascolto ... Il
Signore chiuse gli occhi e le orecchie di Re Giovanni perché non riuscii
a fargli capire le mie idee”. Tuttavia, senza avergli concesso alcuna
udienza dalla sua consacrazione a sovrano, gli aveva permesso di
imbarcarsi su un veliero portoghese verso la Guinea e le isole di Capo
Verde, una rotta che avrebbe maggiormente avvinto Cristoforo alle sue
intuizioni. Sulla base delle notizie avute da Toscanelli e dalle
ricerche negli archivi, uno dei problemi che lo assillavano durante il
viaggio era quello di rapportare il grado terrestre alle miglia marine:
ciò gli avrebbe permesso di valutare il tempo necessario per
oltrepassare il mare ignoto. Le ragioni del diniego definitivo di re
João nel 1484 possono identificarsi in precise ragioni: in quel periodo
la politica espansionistica di molte nazioni europee era rivolta alle
possibilità offerte dal continente africano; le istanze rivolte alla
Corte da parte di uno straniero che curiosava nelle carte nautiche
tenute segrete stuzzicavano il nazionalismo portoghese; le perizie del
progetto da parte di un cosmografo e di alcuni scienziati rilevarono
errori abnormi nei calcoli di rotta e distanza: il peso negativo della
bilancia rischiava di stroncare il sogno anche se tutto quanto – sia per
i fautori che per i detrattori – era basato su congetture. Negli anni
trascorsi curando gli affari dei committenti commerciali e consultando
continuamente le nozioni disponibili, Cristoforo non aveva tralasciato
alternative per ottenere il viatico indispensabile di mecenati disposti
a rischiare per un’impresa ritenuta stravagante.
Fu deciso che la
spedizione sarebbe partita da Palos poiché gli altri porti spagnoli
erano ingombrati dai vascelli per il trasporto coatto delle famiglie
ebree in Africa o in Italia. Palos era molto familiare a Don Cristobal e
lì avrebbe trovato marinai competenti ed avventurosi ma la sua odissea
dovette superare altri ostacoli. Con ricatti formali, i rappresentanti
della coppia reale riuscirono a far pagare l'allestimento di due
caravelle agli abitanti della città e riuscirono anche - per risparmiare
o forse per una sottile rivincita all'alterigia dimostrata in loro
presenza - ad arruolare equipaggi con detenuti graziati purché
partissero per l'ignoto. Martin Alonzo Pinzon era ritenuto il migliore
dei marinai andalusi; ricco perché possedeva una caravella e altri
natanti, rispettato dagli uomini al suo comando, esperto nel navigare
anche sulle rotte perigliose e quindi grande conoscitore dei capricci
del mare, rozzo e ribelle. Colombo capiva di aver bisogno proprio di un
uomo come Pinzon per formare l’alleanza ideale e Pinzon comprese le
possibilità insite nei piani dello straniero; con il peso della sua fama
arringò le esperte ciurme nell'angiporto promettendo fama e ricchezza a
chiunque lo avesse seguito, allontanando così il pericolo di avere a
bordo ex galeotti. Riuscì ad assoldare una novantina di marinai pagati
dalla Corona; le due caravelle (vascelli veloci) minori – 'Pinta' e
'Nina' – erano obbligatoriamente fornite dai cittadini di Palos,
l'ammiraglia 'Santa Maria' fu noleggiata. Erano barche di circa
venti metri di lunghezza e con grandi carenze nautiche, specialmente per
la traversata che le attendeva (Pinzon costituì un proprio equipaggio e
si imbarcò sulla 'Pinta'); in quasi due mesi si riuscì a
formare una 'flotta' sulla quale erano caricate provviste per
un anno, bigiotterie varie per l'incontro con ipotetici 'selvaggi',
artiglierie leggere, balestre e moschetti. Il 3 agosto 149269
Don Cristobal ordinò la partenza 'in nome di Gesù' verso
l'arcipelago delle Canarie. Ripartì dalle isole il 6 settembre,
attardatosi per una grave avaria al timone della Pinta, la sostituzione
della velatura alla Nina e per rifornire le caravelle con la maggiore
quantità di vettovaglie. Ospite nel frattempo al castello della Gomera
(governatrice era Beatrice di Bobadilla), Don Cristobal ebbe modo di
conoscere gli equipaggi, l'interprete, i parenti di Pinzon, il notaio, i
chirurghi, tutti uomini che si sarebbero fidati del suo 'senso marino',
ovvero la capacità di fiutare il vento e le correnti, di osservare le
stelle, per seguire la rotta verso le Indie, da lui valutata in tanti
anni di ossessione. Il 'Giornale di bordo' della prima traversata
ci è pervenuto nella sintesi di Las Casas poiché l'originale (consegnato
ai reali) e le copie sono perdute così come quelle dei viaggi
successivi. Da quanto è rimasto si evince comunque un puntiglio nel
raccontare i fatti e nell'annotare i dati nautici che denotano come
Colombo, malgrado fosse completamente soggiogato dall'impresa, non
dimenticò di essere al soldo di sovrani ai quali avrebbe dovuto fornire
un preciso resoconto, tanto più prezioso per l'annosa concorrenza con i
portoghesi, anche loro propensi alla conquista ed al colonialismo: “Qui
pongo termine alla presente relazione, sebbene io abbia il disegno di
trasferirmi per mare a Barcellona, ove sono ora le AA. VV., affine di
raccontarvi tutto il mio viaggio che il Signor Nostro dopo avermene
inspirato l’idea, mi ha accordato eziandio recare a buon fine.
Imperocchè sono fermamente persuaso, né dubbio alcuno sento misto al mio
convincimento, che l’alta sua Maestà fa tutto ciò che è buono e tutto è
buono fuorché il peccato ... inoltre io vedo, dal felice successo di
questo viaggio, che Iddio maravigliosamente ha provato ciò che io dico,
siccome ad ognuno è facile convincersene leggendo questa relazione, per
i segnalati prodigi da Lui operati nel corso della mia
navigazione ed in favor mio; che sono da sì gran tempo alla Corte delle
AA. VV., in opposizione e contro l’avviso di tante illustri persone
della vostra casa; le quali tutte levaronsi contro di me, trattando di
sogno il mio disegno e di chimerica la mia impresa. Pure io confido nel
Signor Nostro che questo viaggio recherà il massimo onore al
Cristianesimo, malgrado sia stato compiuto con tanta facilità (15 marzo
1493)”.
Come tutti gli esploratori in terre sconosciute, anche a bordo dovettero
provare un senso di panico di fronte ad un mare considerato senza
confini. Le leggende e le superstizioni della gente imbarcata
cominciarono quel giorno e, più il viaggio si prolungava, più aumentava
la paura fino al rischio dell'ammutinamento. La costanza degli alisei
aiutò notevolmente la piccola flotta ad accorciare le distanze. Dopo una
quindicina di giorni di piacevole navigazione, incontrarono "grandi
banchi di erba verdissima" (sargasso) che spaventò i marinai per il
timore di rimanerne imprigionati; anche la bussola diede qualche
preoccupazione quando l'ago magnetico si spostò di diversi gradi verso
nord-ovest. Colombo comprese che seguendo le indicazioni dello strumento
si sarebbe allontanato dalla rotta prevista e perciò si affidò alla
Stella Polare. Seguirono giorni di bonaccia, altri con vento contrario,
ma su tutto imperava l'infinita distesa d'acqua: cominciarono le
ritrosie, i timori, gli insulti, i ripensamenti soprattutto verso
l'ammiraglio 'straniero' che qualcuno voleva buttare fuori bordo per
poter tornare in acque note: "Perché vuoi farci morire?". Il 6
ottobre fu indetta una riunione dei capi: "Colombo disse che era
inutile lamentarsi poiché aveva deciso di arrivare alle Indie a
qualunque costo". Ogni decisione fu procrastinata ed il grido tanto
atteso "terra terra" arrivò propizio. Un urlo liberatorio,
soffocato dal vento tra le sartie, un preambolo che avrebbe
completamente cambiato un intero continente con pesanti ripercussioni
anche per l'Europa: le culture delle antiche etnie rese schiave e
distrutte, sofferenze inaudite per l'epopea della nuova frontiera con
l’inevitabile annientamento delle tribù indigene. Al nord la guerra di
Indipendenza per controbattere il colonialismo di inglesi e francesi, la
guerra di Secessione, la nascita degli Stati Uniti70,
al sud una serie di regimi dittatoriali che hanno soggiogato le
popolazioni povere: dal Cile al Perù, dall’Argentina alla Colombia, dal
Messico allo sfruttamento intensivo delle foreste amazzoniche.
Il grido ripetuto congiunse "la terra più terra di tutte le terre"
scoperta alle ore due del 12 ottobre 1492. Sembra però accertato che
l'Ammiraglio del Grande Oceano nei quattro viaggi da lui compiuti non
sia riuscito a penetrare nel continente ma solamente a toccare alcune
coste e le isole limitrofe, anzi ritenne di essere approdato in Asia.
L'incontro con i nativi è raccontato da Las Casas: "restavano
stupefatti a guardare gli stranieri, le barbe, la pelle bianca, gli
abiti" ed il notaio che prendeva possesso dell'isola a nome dei
sovrani; la conquista in nome del cristianesimo cominciò dunque,
nell'isola ribattezzata San Salvador, con un atto di prevaricazione che
sarebbe continuato nei decenni con grande spargimento di sangue. Le
caravelle continuarono a navigare toccando altre isole caribiche fino a
Cuba, dove sbarcò il 28 ottobre dopo essersi rifornito di viveri ed
acqua. Nel girovagare tra le Antille, gli alieni bianchi trovarono
flora, fauna e tribù ma senza la minima traccia di quella ricchezza che
avevano bramato e promesso in patria. Il malumore si diffuse tra gi
equipaggi malgrado avessero scoperto – ignorandolo – l'uso del tabacco,
un prodotto che avrebbe invaso l'intero pianeta con enormi implicazioni
economiche e sanitarie. L'ossessione della parola "oro" – l'unico
elemento tangibile che avrebbe potuto soddisfare gli avventurieri
imbarcatisi con il solo scopo della ricchezza – cominciò ad
impossessarsi della gente. La cupidigia spinse Pinzon a scomparire con
la Pinta per un paio di mesi alla ricerca personale del prezioso
minerale. Don Cristobal ne era angosciato sia perché temeva che il socio
tornasse in Spagna precedendolo, sia perché non sapeva ancora quale
terra stesse calpestando. Come avrebbe potuto giustificare le spese
della spedizione con il resoconto dei pochi villaggi incontrati
nell’arcipelago?
Rimaneva la consolazione della conversione forzata dei 'selvaggi',
un traguardo molto desiderato dai sovrani che, però, non avrebbero
disdegnato materiale più tattile. Scrisse sul Diario parole premonitori
sulla funzione dei conquistadores assassini: "Potrei conquistare
queste isole senza incontrare resistenza; gli indiani scappano sempre,
non posseggono armi, sono nudi e indifesi, quindi possono essere
costretti al lavoro". Un chiaro riferimento al rapporto tra padrone
e schiavo, senza alternativa di umana collaborazione nella quale il
messaggio cristiano di fratellanza avrebbe dovuto essere prioritario. Il
6 dicembre le due caravelle raggiunsero Haiti dove Colombo avrà le poche
intense soddisfazioni dell'intera sua carriera di esploratore fondando
alcune città, seminando grano e trovando qualche monile del prezioso
metallo, tra cui una maschera donata dal cacicco locale. Nella notte di
Natale, durante lo spostamento via mare per cercare i "palazzi
ricoperti d'oro", il timoniere della Santa Maria non s'accorse di
avvicinarsi pericolosamente ad una secca formata da scogli taglienti;
prima che la caravella si distruggesse completamente a causa del moto
ondoso, gli uomini trasferirono le provviste e le attrezzature
stipandole sulla Nina con l'aiuto di volonterosi indigeni. Furono poi
ospitati nel villaggio e lì cominciò il classico baratto, usato da
sempre tra 'civilizzati' e primitivi: lucente metallo nobile con
chincaglierie senza valore. Quando ebbe notizia della presenza nei
paraggi della Pinta, l'Ammiraglio fece costruire una specie di fortino,
vi lasciò una piccola guarnigione a guardia del materiale salvato dal
naufragio e partì alla ricerca perché comprese di avere bisogno di
Pinzon, qualunque fosse la ragione che lo aveva allontanato. Finalmente
le due barche si incontrarono e fu un momento felice per tutti malgrado
sospetti e recriminazioni nascoste. Erano ormai quattro mesi che gli
equipaggi erano lontani dalle famiglie e tutto ciò smorzava l'entusiasmo
continuamente sollecitato da una supposta vicinanza di miniere. Si
provvide a tirare in secco le due caravelle superstiti per calafatarle
ed affrontare nuovamente l'Oceano. Il 16 gennaio 1493 i due vascelli
superstiti cominciarono un viaggio non meno faticoso perché fu
necessario cercare una zona dove i venti sospingessero verso la Spagna.
Dopo vari tentativi, il fiuto di Don Cristobal trovò quelli giusti per
averli in poppa. Gli strumenti nautici dell'epoca erano artigianali e
quindi distanza, velocità e rotta erano presunti malgrado i marinai
avessero alle spalle una notevole esperienza. Le condizioni
meteorologiche non furono favorevoli: "il mare grosso e il cielo in
tempesta"; per tre giorni in balia di "onde che tormentavano le
caravelle" che, sebbene procedessero con la velatura ridottissima e
favorissero la prua ad affrontare i cavalloni, rischiarono il naufragio
ossia la morte sicura per tutti. Le due navi si persero di vista e fu
questo un momento particolarmente greve perché ogni equipaggio pensò di
avere perso i compagni. Preghiere e voti furono rivolti a Santa Maria di
Guadalupa; il fato li fece approdare, malconci ma vivi, proprio
sull'isola omonima nell'arcipelago portoghese delle Azzorre. Dopo
essersi incontrato con Bartolomeo Diaz (aveva doppiato per primo il Capo
di Buona Speranza) fu invitato a Lisbona da Re Giovanni II, sospettoso e
incredulo di ciò che Colombo gli raccontava. Infine, dopo un viaggio di
otto mesi entrò nel porto di Palos tra un tripudio di folla (l'ambizioso
Pinzon, sbarcato in ritardo la sera stessa e subito rinchiusosi nella
sua casa, morì cinque giorni dopo). Il 20 aprile 1493 Don Cristobal
presentò a Ferdinando e Isabella, nella lussuosa udienza preparata
appositamente per festeggiare l'impresa, pezzi d'oro, ambra, cotone,
erbe sconosciute, volatili e alcuni indiani che lo avevano seguito. Era
il momento della gloria ma anche l'inizio della decadenza.
Cinque mesi più tardi (25 settembre 1493), partirono da Cadice 17 navi
con 1200 uomini, tra i quali molti agricoltori per la colonizzazione
delle nuove terre. La seconda avventura cominciò con marcate diffidenze
tra i rappresentanti della Corona e colui che giustamente rivendicava il
diritto al titolo di Ammiraglio del Mare Oceano. Scopo dichiarato –
supportato dal Papa Alessandro VI per la contesa territoriale con i
portoghesi – era la conversione dei 'selvaggi' ma il vero specchietto
che richiamò tutta questa gente era l'oro. Con le stive ripiene di
provviste (saranno completate durante la sosta all'isola di Gomera),
la partenza fu fastosa e festosa come l'arrivo. Don Cristobal era
ansioso di ritornare a Hispaniola (Haiti) per ritrovare il
drappello di uomini lasciato come presidio e trovare le fonti del
prezioso metallo: 21 giorni di navigazione senza storia per arrivare
alle 'mille isole'. Ci fu però il primo assaggio della sanguinosa
'conquista': il violento assalto di una canoa con indigeni feroci e la
constatazione della decimazione dei 40 marinai lasciati a terra protetti
dal fasciame della "Santa Maria". Il 2 gennaio 1494 l'impazienza
dell'Ammiraglio lo fece ancorare in una località che battezzerà "Isabela"
in onore della regina. Voleva fondarvi una città e farne l'avamposto per
la conquista. Fu una scelta infelice per l'ambiente paludoso e malsano
per la presenza di nugoli di zanzare che fecero ammalare centinaia di
uomini e deteriorare buona parte delle provviste. Decise così di
rispedire in Spagna dodici velieri con poco oro e la richiesta di
soccorso. Organizzò una spedizione nell'interno e in una valle decise di
costruirvi un forte, punto di partenza per l'esplorazione e la raccolta
di oro il cui sito gli indigeni indicavano sempre vagamente pur donando
saltuariamente scaglie e pepite. Tra gli equipaggi cominciò a
serpeggiare un diffuso nervosismo, alimentato dalla voglia di tornare a
casa; contrasti con gli indiani, fame e malattie non miglioravano una
situazione che Colombo decise di superare puntando la prua di tre
caravelle verso Cuba e Giamaica con l'ossessione di trovare le Indie.
Tornato a Isabela dopo cinque mesi di inutile navigazione – a
poche miglia dal ricco Messico e dall'immensità del Nuovo Mondo – fu
avvolto da un torpore mortale, somma di alcune patologie trascurate. Lo
salvò l'arrivo del fidato fratello Bartolomeo con tre caravelle cariche
di rifornimenti ma fu anche il suggello delle diatribe tra lui –
Ammiraglio del Grande Oceano e Viceré delle Indie – e l'orgoglio
dinastico della corte spagnola.
Nominò il fratello, arbitrariamente, governatore dell'isola e questa
notizia insieme ad alcune altre malevole giunsero in Spagna con l'accusa
di arroganza e incapacità. Inoltre il rapporto con gli indigeni
diventava sempre più aspro, violenze e ingiustizie da ambo le parti con
l'inevitabile corollario di vittime. Don Cristobal penò un anno per
soffocare la rivolta dei nativi: decise di 'spedire' in Spagna
cinquecento schiavi come sigillo di una vittoria (duecento di loro
morirono) che, invece, fu interpretata come un fallimento. "Basta con
le Indie" era il pensiero dominante tra i cortigiani; ciò fece
decidere i Sovrani ad affiancare il loro uomo di fiducia Juan Aguado
all'Ammiraglio per farne controllare le azioni, un affronto che completò
il totale insuccesso di questo secondo viaggio. Ferito nell'orgoglio,
disilluso ed ammalato, Colombo tornò a Cadice, senza vessilli e senza
gloria, per essere ricevuto dalla coppia reale. In un clima piuttosto
ostile, fece sfilare i prigionieri, esibì qualche oncia d'oro e qualche
sfavillante prodotto locale per arricchire lo spettacolo. Nel colloquio
furono analizzate le spese e le questioni morali sorte in seguito al
brutale trattamento della popolazione indigena che prima dello sbarco
europeo viveva i suoi ritmi sociali nei confini di una antica cultura.
Malgrado dubbi e tentennamenti da parte delle autorità, nel maggio 1498
ripartì un convoglio di sei velieri, alcuni dei quali avrebbero portato
viveri a Hispaniola, gli altri avrebbero toccato l’arcipelago di
Capoverde e oltre, sempre alla ricerca delle ipotetiche Indie. Trovò
Trinidad, vicinissima al territorio americano; tuttavia ebbe un dubbio:
"Reputo che questo possa essere un grande continente, tuttora ignoto"
(perse l'occasione della ricchezza locale, le perle, un bene che sarebbe
stato sfruttato più tardi da uno dei luogotenenti e che avrebbe potuto
riportarlo nelle grazie dell'intera Corte).
Intanto
il fratello Bartolomeo aveva trovato l'isola che sarà battezzata Santo
Domingo – sede dal XVI sec. della più antica università americana – e lì
aveva costruito l'alloggiamento per qualche centinaio di uomini.
L'Ammiraglio, con il fratello Diego, vi avrebbe soggiornato un paio
d'anni tra scontri sanguinosi con le tribù, malumori crescenti tra gli
equipaggi e aperte ribellioni verso la famiglia 'straniera' dei
Colombo che, spesso, si vendicava impiccando e imprigionando gli stessi
compatrioti. Tra le due sponde dell'Atlantico le tragiche notizie
finirono per convincere i Sovrani che l'impresa avesse preso una
direzione pericolosa: arrivò il funzionario Francisco de Bobadilla con
credenziali eccezionali, autorizzato a qualunque azione ritenesse
necessaria per la salvaguardia degli interessi spagnoli. Considerata la
situazione sul posto e trovatala pessima ordinò l'arresto
dell'Ammiraglio e il rimpatrio in catene: "le porterò fino a quando i
Sovrani non ordineranno di toglierle". I sovrani lo fecero aspettare
fino al mese di dicembre 1500, anche se nel frattempo ordinarono di
liberarlo e di fornirgli 2.000 ducati. L’udienza si svolse su posizioni
di reciproca difesa: Don Cristobal confessò i suoi errori speranzoso di
ricuperare la piena fiducia della coppia, i reali non confermarono le
promesse firmate a suo tempo. Malgrado la grande impresa, per lui
ricominciarono le attese di un richiamo a Corte mentre altri, attratti
dall’avventura, ripercorrevano le rotte oceaniche verso quelle isole e
quel mondo ancora sconosciuto che riserverà molte sorprese. Un anno dopo
– ridotti notevolmente i titoli che gli spettavano e sostituito come
governatore delle isole – avrebbe potuto vivere tranquillamente sulle
rendite che gli erano concesse ma il carattere irrequieto e la costante
dei suoi sogni lo incitarono ad insistere per rimettersi in mare.
Infine, il 14 marzo 1502 arrivò il benestare reale e Colombo, con il
compito di trovare oro e perle ma con il divieto di deportare schiavi,
ripartì con quattro caravelle. Rendendosi conto della propria salute
vacillante, condusse con sé il figlio quindicenne ed il fratello
Bartolomeo affidando inoltre il comando a marinai fidati più giovani di
lui.
Tre mesi
prima era stato preceduto da una maestosa flotta – 32 navi, 2500 uomini,
12 frati francescani – i cui capi, forniti delle necessarie credenziali,
avrebbero stabilito sul posto guarnigioni, utile premessa per ulteriori
esplorazioni e soprattutto per la rivendicazione del territorio scoperto
nei confronti di altre nazioni europee. Una flotta che sarebbe scomparsa
in alto mare al ritorno da Santo Domingo per un tremendo fortunale: vi
erano imbarcati anche alcuni nemici acerrimi di Colombo; l’Ammiraglio li
aveva avvertiti con il suo innato fiuto marino di non uscire dal porto.
Purtroppo per loro e anche per lui, questo viaggio era nato con influssi
negativi, dovuti alla mancanza di fiducia della stessa Corte e di tutti
quanti lo avevano osteggiato. Le sue quattro caravelle si salvarono per
la preveggenza di Don Cristobal tanto che – dopo alcune necessarie
riparazioni – si rimisero in rotta alla ricerca dell’ipotetico passaggio
verso le Indie. Con questa intenzione, costeggiò l’isola di Margarita
bordeggiando poi nei Caraibi convinto che, prima o poi, sarebbe
approdato sul grande continente. Lo vide infatti quando ebbe davanti la
costa dell’Honduras. Lì incontrò tribù più evolute che conoscevano la
lavorazione dei metalli e delle fibre tessili, usavano utensili, armi e
canoe scavate da un unico tronco. Per Don Cristobal fu una grande
occasione perduta perché se si fosse avventurato all’interno avrebbe
incontrato il centro della grande civiltà Maya, nello Yucatàn, con
conseguenze per lui eccezionali. Invece decise di proseguire la
navigazione costiera combattendo, ancora una volta, con tempeste che
conciarono male le navi causando lo sfinimento di equipaggi già al
limite della disperazione: “Altre tempeste ho visto ma nessuna che
durasse così a lungo e così spaventosa ... io ero ammalato e giunsi più
volte alle soglie della morte”. Honduras, Costarica, Nicaragua e la
notizia fornita dai nativi: oltre le montagne (l’istmo di Panama)
era visibile un altro mare. Colombo, già troppe volte deluso, tralasciò
di continuare l’esplorazione lasciando la scoperta dell’Oceano Pacifico
a Vasco Nuñez de Balboa nel 1513. Nella zona trovò comunque una notevole
quantità di manufatti d’oro che furono inevitabilmente barattati con le
solite chincaglierie. La pressione degli uomini per tornare a casa, la
sua stessa debolezza, il clima intollerabile, il vano tentativo di
stabilire una colonia, i cruenti contrasti con gli indigeni che
causarono la morte di molti spagnoli, furono le ragioni che fecero
trascurare le voci di grandi quantità del prezioso metallo nella giungla
tropicale. Con due caravelle in meno ed il fasciame corroso dalle
teredini (“pompe, pentole e altri recipienti non riuscivano a
sgottare l’acqua che entrava dai buchi”) fu costretto a fare arenare
le altre – dopo un trasferimento periglioso – su una riva della
Giamaica. L’impresa era totalmente fallita e l’unica speranza risiedeva
in qualche nave che avvistasse i naufraghi bloccati sull’isola come
tanti Robinson Crosue71.
Il problema del nutrimento fu in qualche modo risolto commerciando con i
nativi in modo urbano (memori delle precedenti esperienze), gli
equipaggi furono forzati a bordo per non creare attriti con le tribù, la
speranza fu affidata a due canoe che dovevano superare almeno 100 miglia
marine per raggiungere il presidio spagnolo di Santo Domingo. Purtroppo,
quando riuscirono a sbarcare e contattare il governatore, trovarono un
uomo indeciso ed incapace che procrastinò l’invio dei soccorsi fino al
1504 inoltrato.
Don Cristobal,
abbandonato e senza notizie, dovette fronteggiare l’ammutinamento di una
cinquantina di uomini che, paurosi di affrontare il mare su fragili
zattere, si dedicarono a razzie e violenze su alcuni villaggi più
lontani; lo stesso cacicco che li aveva aiutati si stancò della presenza
di questi attaccabrighe rifiutandosi di continuare a collaborare con
loro. Fortunatamente il 29 febbraio doveva verificarsi l’eclissi totale
della luna e ciò fu l’arma vincente di Colombo. Radunò i capi indiani
predicendo un maleficio che avrebbe colpito tutti coloro che si fossero
opposti alla sua volontà: l’artificio salvò una situazione diventata
ormai insostenibile. 28 giugno 1504: un amico di Colombo aveva
noleggiato un paio di caravelle e finalmente la truppa prigioniera delle
acque salpò per Hispaniola. Tre mesi dopo, fece la sua ultima
transoceanica: “solo fra tanti dolori, ammalato, aspettando la morte”.
Aveva 53 anni, la voglia di rivendicare i diritti pattuiti con i reali
di Spagna non era sopita, la protettrice Isabella morì appena un mese
dopo il ritorno dall’ultimo viaggio nefasto, Ferdinando sottopose ai
legali ciò che era stato sottoscritto nel contratto con l’Ammiraglio del
Grande Oceano e gli interessi della Corona. Cavilli e sottigliezze che
l’Ammiraglio, malgrado fosse inabile, non voleva cedere. Era già ricco
per i proventi che continuamente gli giungevano oltremare, aveva diverse
proprietà di valore in Spagna, gli fu offerto un feudo prestigioso,
eppure puntigliosamente si arroccava su pretese talvolta assurde e sogni
vani come quello di comandare una spedizione per liberare Gerusalemme.
Morì a Valladolid72
il 20 maggio 1506 attorniato solamente dai familiari e da alcuni amici
fedeli. La Spagna ufficiale ignorò completamente la scomparsa di colui
che aveva aperto nuovi orizzonti apportando ricchezze al vecchio
continente ma anche molte sofferenze al territorio che verrà chiamato
America. Seguirono maldicenze sul suo operato – fomentate dal Re e da
una parte della Corte che lo avevano sempre osteggiato – tanto da temere
l’eterno oblio sul suo nome. La vertenza duratura tra gli eredi e la
Corona di Castiglia, ognuno con le proprie ragioni, ognuno con i propri
torti, proseguì e per alcuni secoli il suo nome si allontanò dalla
ribalta della storia finché archivi e studiosi permisero di ripercorrere
la vita di un uomo che Victor Hugo73
definì: “La sua gloria non consiste nell’essere arrivato ma
nell’avere levato l’ancora”, ribadendo così che i sogni possono
divenire realtà solamente con il coraggio e la determinazione.
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AZTECHI
Religione degli
Aztechi - Testa del mitico Serpente di Fuoco che guida il Sole
Tra
gli Aztechi, il Dio Tonatiuh (“vai per illuminare e per scaldare”)
era affiancato alle divinità delle stelle e del cielo del Sud nonché ad
una quantità di altri più o meno importanti simboli identificabili nel
“padre nostro, madre nostra, madre degli dei e il dio della fertilità”,
ai quali venivano offerti – per celebrare la primavera ed il germogliare
della semina – molti sacrifici umani più l’usanza della mortificazione
con la perforazione delle orecchie e delle unghie. Gli Aztechi (“luogo
dove si diventa dio”) erano i discendenti degli Olmechi insediatisi
nel Golfo del Messico dal 1200 al Mille a.C. I Toltechi, presenti dall’VIII
al IX secolo, sottomisero le popolazioni autoctone fomentando lo scontro
etnico per la supremazia. Un principe battezzato – Ixtlilxochitl
(1568/1648) – ebbe la capacità di scrivere in modo dotto la storia del
popolo sottomesso. Tra ricordi, racconti verbali e resoconti tramandati
in varie forme, raccolse notizie assai pertinenti ma disattese per molti
anni dagli studiosi. La ricostruzione comprende la cognizione del tempo,
della scrittura, della matematica, dell’architettura e racconta la
saggezza delle leggi tolteche che furono comunque spesso trasgredite a
causa delle lotte dinastiche. Ciò forse favorì l’invasione di altre
etnie e la successiva fuga verso lo Yucatan (quanto scritto dal principe
fu confermato solamente nel XX secolo quando l’antica capitale Tula fu
riscoperta nella sua maestosità). La religione sanguinaria basata sui
riti segreti dei sacerdoti simboleggiava nel “serpente piumato” (Quetzalcoatl)
una delle principali divinità delle civiltà precolombiane. La tipica
architettura è caratterizzata dai grandi templi piramidali adornati da
colonne a forma di serpente e dalle sculture antropomorfe della civiltà
Maya74
(sembra che gli Aztechi non facessero la guerra per ampliare il proprio
territorio o per acquisire maggiore autorevolezza ma solamente per
catturare prigionieri da sacrificare sulle loro piramidi insanguinate75).
L’istinto di predare e sopraffare è uguale a tutte le latitudini: i
conquistadores sono colpevoli di sterminio ma anche gli antichi
messicani avevano alle spalle guerre e omicidi malgrado vivessero in una
società relativamente evoluta. Le statistiche rilevate dai reperti
archeologici riportano cifre raccapriccianti: per l’inaugurazione di un
tempio (1486) furono sacrificate ai feticci 70.000 vittime, una
costumanza diffusa con varie modalità in molte parti del mondo. Il
simbolismo cristiano del pane e del vino “Mangiate, questo è il mio
corpo e questo è il mio sangue” era praticato da queste ed altre
popolazioni con il rito di un diffuso cannibalismo. Gli Aztechi – tribù
nomadi arrivate scaglionate nella Valle del Messico intorno al 1168 d.C.
– basavano la vita quotidiana su regole precise, rispettando
rigorosamente la gerarchia ed i riti religiosi. Quando Cortés riuscì a
penetrare nella loro capitale, oggi Città del Messico, trovò enormi
costruzioni con centinaia di gradini per raggiungere la cima, Su questi
mastodontici altari venivano sacrificati i prigionieri spagnoli o i loro
alleati indi: i sacerdoti gli aprivano il petto per strapparne il cuore
ed i corpi venivano fatti rotolare dai gradini fino alla base per
sezionarli ulteriormente e le conquiste militari fornivano numerose
vittime per il culto sanguinario. Il sadismo diventato sacralità è parte
integrante di molte società e quindi non può che essere addebitato alla
parte peggiore dell'essere umano. Gli innumerevoli tremendi esempi
storici diffusi in ogni tempo e luogo ne sono la testimonianza concreta:
il modus vivendi di società malate o atrofizzate dal potere arriva
all’estremismo di decimare e distruggere. Gli orrori compiuti dalla
nostra razza, dotata di sentimento e di libero arbitrio, sono una serie
ininterrotta di nefandezze e le colpe delle società cosiddette civili
sono altrettanto grandi di quelle compiute prima del loro avvento. A Cartagine tra il VII ed il II secolo a.C. erano uccisi con rito solenne
alcuni figli di famiglie nobili. In Cina, i bambini nati in giorni
ritenuti infausti venivano massacrati. In Egitto, all'epoca di Mosé, il
faraone ordinò la morte dei primogeniti maschi ebrei. I ripetuti pogrom
verso questa etnia consumati76
in ogni epoca e in molte società il cui apice è stato raggiunto in epoca
nazista con l’olocausto di sei milioni di deportati nella seconda guerra
mondiale. Ogni popolo comunque dovrebbe recitare il ‘mea culpa’ verso
tutte quelle forme di sopruso coperte da comode falsità ideologiche (l’autodafè,
sacrificio umano alla divinità, è stato praticato fino al XVII secolo).
I Toltechi usavano le calotte craniche come coppe, un capo colombiano
appoggiava la testa su un cuscino ripieno di teschi degli antenati o dei
nemici, gli spagnoli al seguito di Cortés contarono i trofei nei templi
e trovarono fino a 130.000 crani delle vittime immolate agli idoli. Nel
Nuovo Messico gli archeologi hanno rinvenuto centinaia di torri, per la
maggior parte bruciate. Dentro hanno trovato i resti di persone uccise
con asce e frecce. Gli Aztechi gettavano bambini vivi nelle acque di un
lago, giovani di ambo i sessi dentro pozzi profondi per propiziarsi gli
dèi della tradizione e immolavano una ragazza ornata come la dea che
doveva rappresentare. Alcuni sciamani – ritenuti incarnazione del divino
– venivano bruciati vivi in cerimonie pubbliche: il popolo si contendeva
le ceneri per berle sciolte nel vino. In Brasile i prigionieri cristiani
venivano depilati e compiaciuti in ogni loro desiderio per poi ucciderli
e mangiarli. Nel Messico si fronteggiarono per un certo periodo due
‘scuole’: i Maya volevano eliminare l’uccisione rituale, gli Aztechi
volevano conservarla.
Coatlicue era l’onnipotente dea della terra,
Huitzilopochtli, era il dio del sole simboleggiato dal colibrì,
Eacatl,
dio del vento, Tlazolteotl dea dell’amore, Teto Innan dea della
fecondità, furono eredità di un ramo degli amerindi, gli huaxtechi,
stanziati nel I millennio a.C. fra la Sierra Madre messicana e la costa
atlantica. Un pantheon complesso nel quale la classe sacerdotale aveva
un’influenza predominante, officianti esclusivi di ogni cerimonia. Il
dio della guerra era raffigurato con “immensi occhi terribili” ed i
templi erano impregnati dal fetore delle vittime, tuttavia quando i 400
spagnoli di Cortés entrarono nella capitale Tenochtitlàn (la città-stato
dove nascono gli dèi) accolti dal fasto della corte di Montezuma II77,
rimasero sorpresi nel trovare “gente educata e civile come qualsiasi
popolazione europea”, mercati ordinati e ricchi di ogni genere di
prodotti, una ospitalità garbata che si sarebbe presto incrinata per la
bramosia e la ferocia dei soldati barbuti, al contrario degli indigeni
che si depilavano perché associavano la peluria alle bestie. “Montezuma
aveva circa 40 anni, era alto e ben proporzionato, agile e magro, non
scuro ma del colore naturale con le sfumature proprie di un Indio. Non
portava i capelli lunghi, la sua barba rada era sottile e di bella
forma. Il suo viso un po’ lungo ma gioviale; era curato e pulito e si
faceva il bagno ogni pomeriggio. Aveva molte donne come amanti, figlie
di capi tribù mentre due grandi ‘cacicas’ erano le sue spose legittime.
Non era affetto da alcuna anormalità sessuale, nel senso che non era
sodomita. I vestiti che indossava un giorno, non li riusava prima che
fossero passati almeno altri quattro giorni. Aveva 200 capi tribù come
sua guardia personale e quando andavano a parlargli erano obbligati a
togliersi i ricchi mantelli e ad indossarne altri di minor valore;
dovevano entrare a piedi nudi, tenendo gli occhi abbassati senza
guardare mai il suo viso e dovevano fare tre inchini. Per ogni pasto
venivano preparate più di trenta portate e sotto ai piatti venivano
collocati piccoli bracieri di ceramica affinché le vivande non si
raffreddassero (Bernal Diaz)78.
Religione degli
Aztechi - Paradiso di Tlaloc, affresco
Gli Aztechi erano un
popolo guerriero perché privi delle materie prime necessarie a produrre
commercio. La loro attività principale era la conquista e la
sottomissione di altri gruppi: ciò permise loro di acquisire abilità
artigianale e soprattutto di iniziare una serie di scambi con colonne di
portatori condotte dai mercanti: ciò richiedeva la protezione dai
predoni delle altre cittàstato, ognuna delle quali doveva pagare i
tributi – vittime da sacrificare e primizie dei campi – agli odiati
dominatori ma “un governo che non si fonda sulle simpatie dei propri
sudditi non può durare a lungo”. Gli Aztechi erano anche un popolo i cui
architetti idearono e costruirono costruzioni immense – templi e
piramidi – con particolare riguardo ai problemi idraulici: una struttura
di dighe contro le frequenti alluvioni e di ponti mobili per proteggersi
da attacchi improvvisi, affiancavano la rete di acqua resa potabile dal
passaggio in conduttore di ceramica tenute continuamente pulite. La
distribuzione avveniva con fontane alle quali il popolo poteva accedere,
per non inquinare il lago gli escrementi organici erano trasportati nei
campi come fertilizzanti, l’urina veniva invece conservata come mordente
della tintura dei tessuti. Un sistema che molte civiltà contemporanee
dovrebbero riusare per diminuire i micidiali prodotti chimici.
La
fortuna economica di Cortés cominciò partecipando alla conquista di Cuba
ed allo sfruttamento intensivo degli schiavi impiegati nelle miniere
d’oro. Con questa ricchezza allestì ed ottenne il comando di una flotta
di undici navi. Ingordigia ed una naturale propensione alla crudeltà lo
spinse ad inoltrarsi in un territorio sconosciuto per una giusta causa:
“Seguiamo la croce e sotto questo segno vinceremo ... voi siete pochi ma
decisi e se la vostra fermezza non vacillerà non dovete dubitare della
protezione dell’Onnipotente”. Le parole di Cortés rivelano l’enorme
determinazione e la caparbietà nell’attribuire alla diffusione della
Croce ogni azione. Le passioni ed i sentimenti che albergavano nel
mistero della coscienza ne fecero un avventuriero senza scrupoli. Con
queste stigmate superò avversità di ogni genere, dal clima insano ai
malanni dei compagni, dal costante pericolo di imboscate all’immensa
disparità tra il minuscolo gruppo di bianchi e le centinaia di migliaia
di indios: malgrado le condizioni logistiche ed ambientali riuscì ad
annientare una civiltà importante aizzando i popoli vassalli degli
Aztechi contro i loro padroni, mescolando la ferocia alle blandizie. Il
suo nome precedeva l’avanzata delle truppe disorientando e spaventando
le tribù che, ogni giorno di più, lo identificavano con una divinità
invincibile. È utile ricordare che l’intero popolo aveva alle spalle
anni tribolati, soprattutto per le superstizioni insite (in Messico
nevicò, un vulcano si risvegliò dopo anni di inattività, nacque un
bambino con due teste, un mago preannunciò al grande Montezuma che
avrebbe perduto il regno): furono proprio questi fatti a spingere i
sacerdoti a temere il disastro preannunciato dalle profezie antiche. La
loro decisione produsse la carneficina di vittime, sacrificate sugli
altari per placare gli dèi, consapevoli che gli stranieri sbarcati sulle
coste e in rapida avanzata nel territorio sarebbero diventate un
pericolo per l’impero. Con questa decisione si inimicarono molte tribù
alleate dalle quali venivano prelevate centinaia di persone da portare
ai templi e ciò avrebbe costituito la premessa di future alleanze tra
indios sottoposti al potere centrale e le truppe spagnole. Si sarebbero
scontrati due mondi, il vinto ed il vincitore: il 13 agosto 1521 la
conquista del Messico era completata e l’antico popolo sottomesso alla
nazione predominante. Palenque79,
l’antica città e centro religioso distante 40 km da Città del Messico,
conserva i monumenti più giganteschi della cultura maya-azteca: il viale
dei Morti largo 42 metri e lungo diversi chilometri è affiancato da
palazzi e templi, sovrastati dall’imponente piramide del Sole e da
quelle minori dedicate rispettivamente al dio serpente piumato
Quetzalcoatl e quello della pioggia Tlaloc. Nel 1832 un modesto pittore
inglese, abbinò l’attività che lo faceva vivere alla passione per le
rovine delle civiltà passate partendo per lo Yucatan in cerca di fama e
guadagno. Aveva affinato la conoscenza del territorio contattando
diversi connazionali collezionisti e leggendo le cronache dell’epoca
eroica della conquista: sul posto però, oltre alla cronica mancanza di
denaro, trovò difficoltà politiche e ambientali sempre maggiori che lo
avrebbero costretto a ritornare in Europa dove riuscì a pubblicare un
libretto illustrato privilegiando lo stile del divulgatore piuttosto che
quello dello studioso: “Le costruzioni di Palenque fatta eccezione per
il palazzo, sono di dimensioni ridotte, mentre quelle di Uxmal sono
colossali e tutte realizzate in pietra lavorata. Quattro grandi edifici
principali, separati da spazi aperti, racchiudono una superficie di
57.672 piedi quadrati... Il teocalli sta in cima a una piramide; la sua
scalinata principale ha 100 gradini... L’influenza dell’Asia può essere
facilmente percepita nell’architettura di questi monumenti. Sugli angoli
arrotondati degli edifici si incontra il simbolo dell’elefante con una
proboscide alzata sul lato orientale, abbassata sul lato occidentale...
É principalmente negli ornamenti che possiamo ammirare la pazienza della
mano d’opera impiegata in queste costruzioni e farci un’idea del gusto
di questo antico popolo per lo splendore dei monumenti”. “Sosteneva che
i Maya incidevano dei segni nei vani delle porte per misurare il tempo e
che erano stati loro che avevano trasmesso ai Toltechi e agli Aztechi la
propria civiltà”. I suoi disegni riportavano con grande meticolosità i
particolari rimarcando che “se gli indios non sanno apprezzare le pietre
sagomate con cura enorme e connesse perfettamente, lo splendore e la
bellezza delle rovine disseminate sul suolo del loro paese, è perché
dormono nella più profonda ignoranza”. Il lavoro non ebbe comunque
fortuna né commerciale né accademica perché nel XIX secolo la scienza
archeologica non era ancora nata se si eccettua l’occasionale
rinvenimento della stele di Rosetta80
e la passione personale degli amatori di cose antiche. Gli scavi di
Ercolano e Pompei, i monumenti greci ed i relativi studi posero le basi
storico-critiche continuate con il lavoro sulle rovine di Troia di H.
Schliemann, l’archeologo tedesco (1822/1890) anticipatore del moderno
metodo dello scavo stratigrafico. Un settore importante di questa
scienza è l’archeologia sottomarina, il mondo sommerso che cela una
miriade di segreti del passato. Victor Hugo considerava la nave una
dimostrazione delle capacità dell’uomo di confrontarsi con il mare,
simbolo della potenza del Signore. La difficoltà di fare il punto nave e
la dimensione ridotta degli scafi hanno fatto privilegiare agli antichi
il traffico di piccolo cabotaggio. Tremila anni fa gli Egizi
costeggiavano il Mediterraneo trasportando droghe, cosmetici, avorio; i
Fenici stivavano mobili, gioielli, tessuti; i Greci, secondo la
leggenda, attaccarono Troia dal mare; i Romani, esperti nel tracciare
strade, usarono le navi per trasportare ceramiche, cereali e merce alla
rinfusa. I fondali finora esplorati hanno rivelato giacimenti più o meno
accessibili, più o meno conservati, ma sempre interessanti per la loro
testimonianza. Le prime operazioni di ricupero in mare furono compiute
in maniera disordinata e con l’unico scopo di portare a terra oggetti di
valore. Solamente più tardi ci si preoccupò di rilevare e studiare ‘in
situ’ ciò che una nave affondata rappresenta, un mondo unico e
irripetibile dal quale dedurre le tecniche dell’ingegneria navale del
tempo nonché l’attività militare o mercantile a cui il relitto era
legato. Le prime cronache di ricuperi risalgono al XVII e XVIII secolo.
Gioielli o il bronzo ed il ferro dei cannoni, ancore e materiale vario
furono strappati al mare con enorme fatica, con l’aiuto di campane
subacquee artigianali e di provetti tuffatori. Nota è la storia della ‘Lutine’,
affondata alla fine del Settecento con un enorme carico d’oro,
ritrovata, scavata, ricoperta nuovamente da cumuli di sabbia, riscoperta
anni dopo con la pompa aspirante e nuovamente perduta con il suo carico
appena intaccato. All’inizio del Novecento gli scavi sui fondali di Mahdia hanno riempito molte sale del Museo di Tunisi: candelabri,
recipienti, bronzi e marmi raffiguranti simboli e personaggi mitologici.
Nella stessa epoca una nave da guerra greca era all’ancora a ridosso di
un’isola tra Creta e il Peloponneso; un palombaro aveva identificato a
50 metri di profondità statue in bronzo e in marmo, alcune nascoste dai
sedimenti, altre liberate con pochi colpi di piccone e issate a bordo:
tra questi ricuperi primeggiava il famoso ‘Atleta’ esposto al Museo
Nazionale ateniese. In ambedue i casi il lavoro fu eseguito da palombari
coadiuvati dagli stessi pescatori che avevano fortuitamente localizzato
i resti. Il prezzo pagato per i ricuperi era allora molto alto, dalla
perdita irrimediabile di oggetti eccezionali per la mancanza di una
precisa metodologia di ricupero alla strage di uomini che si immergevano
senza alcuna nozione dei problemi connessi alla decompressione. Gli
spagnoli, estremamente appariscenti – supportati da seimila indigeni
alleati che avevano radunato durante la marcia verso l’interno – si
erano avventurati nella penisola di un regno che avrebbe potuto
facilmente annientarli. Nel novembre 1519 si incontrarono due mondi,
quello vecchio e quello nuovo, ognuno geloso delle proprie prerogative,
rappresentati da Cortés e da Montezuma II, capo supremo di 100.000
guerrieri. Il fasto del corteo, arricchito dagli splendidi costumi della
corte imperiale, fu il prologo della tragedia che avrebbe coinvolto
l’intera America travolgendo le antiche etnie e le loro tradizioni. Nei
secoli seguenti, dal Golfo del Messico i bianchi sarebbero migrati verso
nord pagando con la moneta della morte ma appena un anno dopo questo
incontro il Messico ed il suo imperatore, erano già distrutti dalla
cupidigia e dalla violenza degli uomini di Cortés. In nome della Corte
reale e con l’avallo delle autorità religiose, stragi e torture minarono
le basi di un popolo la cui aggressività ancestrale venne sostituita da
quella dei conquistadores: “Questa civiltà è l’unico esempio di una
morte violenta perché non si spense lentamente ma fu trucidata nel
fulgore della sua espansione”. Infatti quando arrivarono gli spagnoli
con il preciso compito di salvare le anime pagane, si fece largo uso di
brutalità e sottomissione forzata: le colpe degli esseri umani sono
diffuse a tutte le latitudini e perciò giudizio e condanna coinvolgono
inevitabilmente la responsabilità di tutti. Gli spagnoli si inoltrarono
nel vastissimo sconosciuto territorio che avrebbe riservato molte
sorprese, un incontro destinato a stravolgere società e ambiente. Cortés
pensava di trovare tribù primitive in alloggi precari, invece si trovò
di fronte ad immense costruzioni e ad un tipo di vita organizzato: “La
grande città di Tenochtitlàn costruita al centro di questo lago salato81,
a due leghe da qualunque punto della terraferma, è collegata da quattro
strade rialzate larghe dodici piedi. La città è grande come Siviglia o
Cordoba e nell’insieme è tanto vasta che io non riesco a farmi un’idea
esatta del regno di Montezuma” (Hernàn Cortéz). Per gli indigeni, il
corteo spagnolo diventò un simbolo divino per le gualdrappe colorate, le
corazze lucenti e soprattutto per l’animale possente, mai visto da loro,
che procedeva con l’altezzoso cavaliere. Cortés agì in poco tempo come
un padrone impiantando la croce sui templi pagani, un emblema che
copriva il vero scopo degli europei, l’oro. Infatti appena videro una
porta nascosta, entrarono in una stanza ripiena di preziosi cesellati e
di metallo nobile fuso in lingotti. Era il tesoro della dinastia
Montezuma e sarebbe stato estremamente pericoloso toccarlo finché il
piccolo drappello non avesse preso il predominio sull’enorme numero
della popolazione. Lo stratagemma ideato con astuzia per ottenere questo
risultato fu quello di plagiare l’imperatore, il semidio che con la sua
autorità poteva condizionare sudditi ed alleati. Il piano fu attivato
sia invitando Montezuma a presenziare alla Messa celebrata in una
cappella costruita accanto al tesoro prudentemente rinchiuso come prima
(il rito impressionò i notabili presenti: “effetto edificante sui pagani
immersi nelle tenebre”), sia trasferendo il comando nello stesso palazzo
del re. Da quel momento l’imperatore divenne un prigioniero sottomesso
ad ogni richiesta di Cortés. La situazione si fece rovente: asportato
l’intero tesoro dal nascondiglio e valutatone il grandissimo valore, al
momento della spartizione i soldati si accorsero di avere avuto soltanto
briciole. Il loro capo aveva deciso di trattenerne un quinto per pagare
i debiti contratti, di riservarne una parte per i sovrani patrocinatori
della spedizione, un quinto per ammansire il governatore di Cuba con il
quale aveva litigato ed il rimanente per il presidio lasciato a Vera
Cruz. Ci fu qualche tentativo di ribellione a queste decisioni ma
qualche tempo dopo il campo fu in subbuglio per una grave notizia: si
stavano avvicinando 900 spagnoli pesantemente armati con l’ordine del
governatore offeso di arrestarlo per sedizione e portarlo a Cuba. Il
carattere di Cortés fu ancora una volta sollecitato: anziché attendere
il potente gruppo nella capitale azteca, decise di andargli incontro per
combatterlo. Lasciando Pedro de Alvarado a presidiare la città, al
comando di una settantina di soldati e di 200 indios alleati, in una
notte di tempesta del 1520 piomba sull’accampamento avversario
sconfiggendo i compatrioti. Fu l’occasione perduta di Montezuma per
liberarsi dal giogo di Cortés: invece di sterminare la minuscola
guarnigione rimasta nella capitale del regno, rifiutò i consigli dei
notabili condannando se stesso e la sua gente allo sterminio. Un
comportamento guerresco avrebbe probabilmente procrastinato l’invasione
europea salvaguardando molte vite: una condotta che lascia stupiti per
l’enorme divario di forze contrapposte: pochi spagnoli, moltissimi
indios. La personalità di Cortés lo aveva schiavizzato fino a
convincerlo di dare in omaggio l’intero tesoro della stirpe reale per
tentare di salvare il briciolo di carisma rimasto a testimonianza del
suo rango. La vittoria sui connazionali ebbe rilevanti ripercussioni: la
defezione di parte delle truppe appena arrivate, il bottino di armi e
cannoni che avevano al seguito, il rafforzamento delle forze spagnole
sul territorio. Fu l’inizio della conquista e dello sterminio di un
popolo accelerato dalla frenesia di imporre una forzata
evangelizzazione: ciò avrebbe causato notevoli reciproche incomprensioni
e risentimenti duraturi. Quando dogmi e fedi diverse si scontrano, ogni
fedele diventa un fanatico pronto ad ogni riprovevole azione: la
comprensione viene castrata in nome di un’entità ritenuta superiore;
così si ripete l’eterna lotta dell’uomo contro l’uomo, svincolato da
ogni remora morale. Disseminare di croci i templi pagani, inserirsi con
prepotenza nella casta sacerdotale, oltraggiare antiche radicate
credenze, furono atti che spinsero gli indios alla rivolta. Il
cattolicesimo imperante dell’epoca condannava senza appello i sacrifici
umani degli aztechi senza rendersi conto di dover recitare il mea culpa
per il terrore dell’inquisizione che usava torture e assassini per
ribadire le certezze nate da un Cristo compassionevole: la barbarie a
confronto con la presunta civiltà. Altri due fatti precipitarono gli
eventi: le insistenze di Cortés per convertire Montezuma e il massacro
di centinaia di notabili riuniti in un tempio per uno dei loro riti,
disarmati ed abbigliati con i vestiti da cerimonia. “Il sangue scorreva
come l’acqua di un violento acquazzone”: fu l’insana iniziativa di Alvarado durante l’assenza di Cortés che, tornando, trovò una situazione
pericolosissima. Migliaia di indios assalivano in continuazione gli
spagnoli asserragliati nel palazzo reale; le loro sortite ottennero
soltanto il risultato di fare tagliare le vie di fuga. Il tentativo di
mediare lo scontro fu proposto dallo stesso Montezuma II che aveva fatto
raggiungere all’impero il massimo splendore ma che nello stesso tempo lo
aveva venduto per un incomprensibile atteggiamento di resa. Volle
parlare al suo popolo ma ormai aveva perduto ogni prerogativa reale
tanto da venire lapidato a morte dai sudditi il 30 giugno 1520:
scomparendo la paratia che dava garanzie di contenimento al furore della
massa indigena, Cortés decise di fuggire con i suoi tentando di
attraversare le schiere dei guerrieri. Una situazione disperata il cui
sviluppo verrà ricordato come la ‘noche triste’. Ormai era una questione
di sopravvivenza e anche il tesoro perse ogni valore. Cortés lasciò che
i soldati dividessero i preziosi raccomandando loro di non caricarsi
troppo per poter essere più agili nella fuga notturna. La pioggia
torrenziale mise in difficoltà il gruppo attorniato e inseguito:
tentarono di attraversare in totale disfacimento i larghi fossati
fangosi tra le numerose canoe piene di guerrieri che colpivano con
clave, frecce e lance. Quando all’alba si contarono, si accorsero di
avere perduto almeno due terzi della forza originale, compresi molti
cavalli e le armi pesanti. L’unica via per la salvezza era quella che
conduceva nelle terre dei loro alleati Tlascalani82
ma fu una ritirata costellata dalle costanti punzecchiature di
gruppuscoli aztechi che inseguivano una truppa affamata e spossata. Otto
giorni di sofferenze per giungere (8 luglio 1520) in una vallata ricolma
di decine di migliaia di nativi pronti a trucidarli o farli prigionieri
per immolarli ai loro dèi. La disperazione non faceva parte del
carattere fiero di Cortés. Riunì i cavalieri rimasti e li lanciò al
galoppo nella massa indigena che si apriva e si rinchiudeva al loro
furibondo passaggio. Intanto vide su un’altura la portantina con le
insegne del comando: intuendo la presenza di un principe, si scaraventò
verso di lui colpendolo con la lancia e strappando il vessillo dorato.
Gli indios ammutoliti si sbandarono in una tremenda confusione. Ci
furono ancora velleità di rivalsa ma ormai la sorte del Messico era
segnata. Gli spagnoli ricevevano in continuazione rinforzi militari e
religiosi, il neo imperatore Quauhtemoc fu impiccato, nelle abitazioni
ricostruite si sistemarono gli europei mentre gli aztechi erano relegati
in riserve, completamente sottomessi come le tribù indiane del Nord
America qualche secolo dopo. Il tesoro di Montezuma era andato disperso
e quel poco che venne ricuperato e caricato su una nave diretta in
patria, divenne preda dei francesi. La grande avventura fu comunque
dimenticata proprio come i grandi monumenti riassorbiti dalla foresta.
Gli archivi messicani e spagnoli rimasero misteriosi e impolverati fino
all’avvento della ricerca archeologica: la sofferenza e la morte di
intere popolazioni divennero pagine scritte e rimasugli da museo.
La
storia di Hernan Cortés (Estremadura 1485/Siviglia 1547) è la fotocopia
dei capi conquistatori di quasi tutte le epoche, in entrambi gli
emisferi. Se si scorre una qualunque edizione della cronologia della
storia universale, ogni pagina contiene una goccia di sangue delle
feroci conflagrazioni umane. Con alle spalle un paio d’anni
all’università di Salamanca, la sua personalità irrequieta lo fece
imbarcare nel 1504 in cerca di fortuna. Il 18 febbraio 1519 partì con
undici vascelli, settecento uomini, sedici cavalli e dieci cannoni.
Fondò Villa Rica de Vera Cruz dai cui maggiorenti si fece nominare
capitano generale della regione. In questo modo ruppe temporaneamente i
rapporti con il governatore Diego Velàzquez de Cuéllar83
con il quale aveva partecipato alla conquista di Cuba nel 1511. I legami
con la madre patria furono interrotti poiché, per evitare diserzioni o
rivolte, disarmò le navi al seguito: “Amici, seguiamo la Croce; sotto
questo segno, se avremo fede, vinceremo”. In quel periodo l’impero
azteco aveva problemi di coesistenza tra le varie fazioni: perciò,
quando gli indigeni videro la pelle bianca degli invasori, le
cavalcature e le armi, diedero un valore divino a quel gruppo di soldati
che stavano per invadere definitivamente la loro terra. Anche tra gli
spagnoli aleggiavano congiure e rivolte istigate dai partigiani di Velàzquez. Ciononostante Cortés, dopo aver sottomesso alcune tribù
principali e sedato le congiure tra i commilitoni, entrò a Città del
Messico nel mese di novembre 1519. Anche in questa occasione, proprio
come per le civiltà Inca e Maya, i conquistadores furono dapprima
ricevuti onorevolmente dagli indios sebbene il loro capo supremo
Montezuma venne imprigionato per essere usato come ostaggio ma in
seguito – di fronte alla sfrontatezza ed alla prepotenza degli stranieri
che distruggevano e depredavano le loro sacre cose, abominevole
sacrilegio – si organizzarono per arginare l’occupazione combattendo.
Dopo il primo abboccamento, per questi fatti che sdegnarono la
popolazione e specialmente i sacerdoti, seguì un periodo non facile:
Dìaz afferma “facevamo la guardia: né vento né pioggia, né freddo
contavano: rimanevamo fermi, doloranti per le ferite ricevute nei
combattimenti”. Infatti era la stagione delle piogge e il terreno si era
trasformato in una palude. Intanto Velàzquez, forse pentito di avere
permesso al sottoposto di calpestare per primo il suolo messicano, lo
fece seguire da un’altra flotta comandata da P. de Narvàez costringendo
il generale a lasciare Città del Messico e a cedere il comando della
città a Pedro de Alvarado. Cortéz sconfisse l’inviato di Cuba aumentando
il suo potere con una parte degli armati passati al suo servizio. I
problemi però erano appena cominciati: subito dopo il suo ritorno
dovette reprimere la rivolta degli indigeni contro lo stesso Montezuma
che simpatizzava per il gruppo spagnolo; il venerato capo supremo degli
aztechi fu assassinato dai sudditi mentre teneva un comizio pubblico. La
sollevazione popolare in seguito a questi fatti che volevano azzerare
l’impero messicano, costrinse gli spagnoli ad una completa ritirata.
L’abitudine alla guerra permise agli uomini di Cortés a riorganizzarsi
tanto da riuscire a sconfiggere l’esercito messicano quantitativamente
superiore: posero sotto assedio Città del Messico nel 1521 ottenendone
la resa. Terminò così il periodo della conquista e iniziò quello dello
sfruttamento intensivo, comune a tutte le terre invase. Cortés, nominato
governatore dei nuovi territori dal Re di Spagna Carlo V, tentò di
suddividerli tra i suoi seguaci, di ricostruire la capitale e di
estendere il proprio dominio sulle regioni confinanti mandando diverse
spedizioni per l’esplorazione e l’assoggettamento. Le solite diatribe
tra i vari blasonati, invidiosi del successo del generale, convinsero
Madrid ad istituire il vicereame della Nuova Spagna facendolo ritornare
in patria senza offrirgli altro che la conferma dei suoi titoli ed il
compito di esplorare il nuovo mondo. Fu per lui l’inizio del declino:
malgrado il viaggio lungo la costa californiana, osteggiato e sfiduciato
dalla mancanza di risultati nell’ultimo periodo, tornò in patria senza
ottenere da Carlo V l’introduzione alla corte reale. Morì senza che la
società riconoscesse i meriti del condottiero. Iniziò il periodo della
colonizzazione. Per spremere miniere e prodotti agricoli, i feudatari
usarono il lavoro coatto di indios e neri importati dall’Africa,
inizialmente dalla Guinea. L’impero Azteco, completamente sottomesso,
assunse il nome di Nuova Castiglia, quello Incaico divenne Vicereame del
Perù. Il trattato commerciale stipulato a Saragozza con il Portogallo
(1529), avrebbe permesso almeno per un secolo il dominio dei due Stati
su buona parte del mondo conosciuto. Le ricchezze che invasero l’Europa
crearono una serie di problemi finanziari: il valore della moneta subì
un forte deprezzamento in correlazione all’aumento dei prezzi ma
soprattutto la disponibilità economica nelle casse degli Stati accrebbe
la bramosia di ulteriore dominio con conseguenti inevitabili fatti
d'armi (ne sarebbe seguita l’egemonia della rete commerciale olandese,
la cui flotta rappresentò per un certo periodo l’80% dell’intera
marineria europea). Preponderanti basi per il commercio e la razzia
furono le isole delle Antille nel Mare Caraibico (Guadalupa, Martinica).
Giamaica, in particolare, ebbe la popolazione autoctona sterminata dagli
invasori iberici; successivamente gli inglesi ne fecero il punto
d'appoggio dei filibustieri che esportavano zucchero e importavano
schiavi (“raramente l’argento e lo zucchero giunsero in Europa senza
macchie di sangue”), non dimenticando l’abbordaggio ai ricchi galeoni
spagnoli carichi di merci preziose diretti in Patria. Conosciamo i fatti
dell’epoca attraverso gli storici e la ricostruzione filmica ma la
realtà doveva essere ben più crudele; lo sconosciuto Oceano Atlantico
contiene nello scrigno degli abissi i residui delle antiche brutalità:
la storia umana è intessuta di tali e tanti massacri che neppure
filosofia e religione sono riuscite a tamponare l’eterno dilemma del
dualismo bene-male.
_________________
INCAS
Nella religione Inca,
il dio del Sole Inti avrebbe incaricato il primo capo della dinastia,
Manco Capac84,
di trasmettere la conoscenza agli abitanti delle zone montuose delle
Ande, l’altopiano peruviano e la vallata di Cuzco, l’antica capitale. Il
Dio gli affidò una bacchetta d’oro con la quale segnare sulla terra il
punto di nascita dell’impero che raggiunse la sua massima estensione con
la sottomissione della regione equadoregna di Quito. Il titolo di ‘Sapa
Inca’ (unico Inca) spettava a colui che era al potere in quel momento,
rappresentante e discendente della ‘Divinità Suprema’ nel cui pantheon
sono inclusi i creatori del sole, della luna, delle stelle, del mare,
della terra: “Nessun ladro, nessun pigro, nessun bugiardo” (la dinastia
dominò il territorio per diversi secoli: alcuni di loro – crudeli e
potenti – sottomisero parecchie tribù confinanti, le stesse che più
tardi si allearono con le truppe spagnole). Il sovrano Inca Atahualpa
(1500/1533) dopo la morte del padre sconfisse l’erede legittimo Huascar;
unificò il paese nel 1532 mentre veniva occupato dalle squadre di
Francisco Pizarro: fu da loro catturato e ucciso dopo averlo battezzato
ed avergli estorto una grande quantità di preziosi. Le ribellioni delle
tribù contro gli spagnoli furono concluse con la repressione dell’ultimo
tentativo, condotto da Tupac Amaru nel 1571: l’anno seguente, una
spedizione di 40 soldati scelti lo trovò con la moglie attorno ad un
bivacco; con varie lusinghe lo trasportarono nella capitale dove fu
decapitato.
Canalizzazione e raccolta
delle acque lungo le mura di Tambu Machay presso Cuzco
I sovrani amerindi (Inca o figli del sole) dovettero
abbandonare il potere sulle popolazioni andine ma anche i risultati di
una lunga storia: le conoscenze mediche ed astronomiche nonché la
tecnica costruttiva delle imponenti opere terrazzate tuttora visibili a
Cuzco (Cusco) e Machu Picchu (nella lingua quechua ‘antico picco’)85
sulla cui cima si estendono i resti del Tempio del Sole con una torre
cerimoniale usata anche per il calcolo del tempo (è dimostrato che i
Maya di Palenque avevano calcolato la durata del mese lunare con estrema
precisione: 29,53086
giorni a fronte del valore 29,53086 giorni ottenuto con i moderni sistemi
scientifici).
Molti episodi evidenziano l’alterazione degli equilibri
del continente per le successive fasi della conquista, dai rapporti tra
gli indiani e gli spagnoli, alle lotte per il predominio tra le fazioni
dell’una e dell’altra parte, agli odi ancestrali che da sempre seguono
il cammino della razza umana. La nascita delle nazioni americane ha –
come tante altre civiltà – la prerogativa di attraversare fiumi di
sangue con enormi sofferenze sia per i vinti che per i vincitori. Guerre
civili e di religione, guerre di conquista e di sterminio
indiscriminato, guerre tra padri e figli, guerre nelle quali l’economia
è solamente un pretesto per massacrarsi a vicenda e rivoluzioni
ricorrenti nel Sudamerica.
Pietra del sacrificio sullo
gnomone della meridiana a Machu Picchu
Un percorso ininterrotto, una fotocopia di
azioni negative che coinvolgono l’intero pianeta. Anche la civiltà Inca
non si sottrasse a questo destino: se non fosse stata opera dei Pizzarro,
qualche altro cataclisma avrebbe spazzato via le antiche cose,
l’organizzazione patriarcale, le costumanze ancestrali e l’economia
agricola 86, gravitanti intorno alla capitale Cuzco (‘ombelico’). Anche
in questo caso si rimane meravigliati nel ritrovare rovine così
imponenti da chiedersi – come per le piramidi egizie, i templi aztechi,
la muraglia cinese, le enormi statue dell’isola di Pasqua, l’emiciclo
dei monoliti megalitici Stonehenge (costruito intorno al 2.000 a.C. e
probabilmente usato come calcolatore astronomico), i monumentali resti
greci e romani – potessero essere eretti con sistemi artigianali e con
la sola forza delle braccia. Quando lo scrittore inglese Aldous Huxley87
visitò una delle città-tempio trovò il luogo “incomparabilmente
magnifico, una situazione stupefacente; gli architetti Zapotechi non
furono sconcertati dalle responsabilità artistiche che venivano loro
imposte, essi livellarono la cima della collina, tracciarono due enormi
patii rettangolari. Pochi architetti hanno posseduto un tale senso di
austera e dinamica grandezza, a pochi è stata data mano libera come a
loro, non permettendo mai che considerazioni religiose interferissero
con la realizzazione di un grande sistema architettonico”. La storia è
gonfia di misteri insoluti che probabilmente potranno essere risolti
soltanto quando e se potrà essere realizzata la “macchina del tempo”, il
marchingegno vagheggiato per ‘essere’ nel passato e nel futuro con le
cognizioni contemporanee. Come in molte altre civiltà, il sovrano del
Perù era considerato un essere superiore, rappresentante del Sole (una
delle molteplici presenze naturali nelle quali i popoli antichi
identificavano la fonte della vita). Per evidenziare la sua carica di
uomo-dio e per dare come tutti i suoi omologhi (dai faraoni ai sovrani,
dagli imperatori ai Papi) maggiore sfarzo al ruolo che incarnava, si
abbigliava con oggetti preziosi, manti di piume e diademi che
impressionavano il popolo sottomesso. Quando voleva visitare i
possedimenti, il lungo corteo dei cortigiani e la ricca portantina
portata a spalle (prima dell’avventura spagnola in quella terra i
cavalli erano sconosciuti; la loro presenza fu determinante per
pareggiare la discrepanza numerica e d’armamento tra le forze opposte
nelle battaglie). Solitamente l’Inca viveva in palazzi che ancora oggi –
malgrado l’abbandono – lasciano interdetti per la capacità degli
architetti e degli operai di allora. Oltre alla precisione
nell’assemblare i blocchi di pietra, l’ampiezza degli ambienti interni
denunciava il gusto e la completa padronanza tecnica come in altre
civiltà antiche. La teocrazia dell’Inca era assoluta: attorniato dalla
corte dei nobili e dalla numerosissima figliolanza, rappresentava per la
società peruviana (Perù è la storpiatura usata dagli spagnoli di un
vocabolo locale) il sovrannaturale. Il vasto Stato, costituito da
distretti e da tribù sottomesse, aveva al vertice i governatori il cui
operato veniva saltuariamente valutato da apposite commissioni: furto,
adulterio, omicidio e offesa alla sacralità dell’Inca da parte dei
sudditi erano puniti sbrigativamente con la morte; la ribellione alle
autorità di qualche comunità veniva soppressa distruggendo completamente
il villaggio e tutti gli abitanti88.
Le classi dominanti, dai nobili al clero, dai funzionari di corte
all’intoccabile Inca, governavano il paese facendosi mantenere dal
lavoro della popolazione. L’ammasso dei prodotti era però equamente
suddiviso nei magazzini delle varie province, sotto il severo controllo
dei delegati del potere centrale. I sudditi – operai, artigiani e
contadini
89
– avevano l’obbligo, con precise cadenze e periodi limitati, di lavorare
per le opere di pubblica utilità (in cambio erano mantenuti e avevano la
sicurezza di potere accedere ai magazzini dell’Inca nei periodi di
carestia, ripieni di mais, tessuti, vasellame, arnesi vari). L’indole
della loro razza non li portava ad avere ambizioni, si accontentavano di
ciò che la natura e l’Inca concedeva loro perpetuando, generazione dopo
generazione, la condizione sociale che avevano trovato alla nascita. I
romani sono famosi per i ponti, le strade consolari lastricate e gli
acquedotti che li hanno portati a dominare mezzo emisfero ma anche i
popoli dell'America latina hanno dovuto ingegnarsi per superare alte
vette, burroni, le impenetrabili foreste e gli impetuosi fiumi.
L'ambiente malsano del clima tropicale, al quale i nativi erano
naturalmente vaccinati, fu uno degli elementi che ritardarono la
conquista del nuovo continente ma furono soprattutto le condizioni
orografiche a frenare l'espansione degli aggressori bianchi. Le grandi
arcate dei moderni viadotti possono essere equiparate agli antichi ponti
artigianali sorretti da cavi il cui diametro poteva raggiungere i 30/40
cm. È straordinario constatare che alcuni viadotti – costruiti con
materiale vegetale intrecciato – erano lunghi più di 60 metri e fissati
solamente alle due estremità del baratro. Non potendo usare elementi
rigidi, il vento e la lunghezza dell'unica campata rendevano
estremamente precario il passaggio di uomini ed animali, malgrado la
presenza di passamani ai lati e tavole di legno al fondo, poiché
l'oscillazione aumentava gradatamente più ci si avvicinava al centro
che, inevitabilmente, formava una curva marcata. I ponti sospesi e
quelli di barche collegavano una rete stradale alla quale gli Incas
erano particolarmente attenti con una continua manutenzione: un lavoro
immane che contribuì alla formazione ed alla conservazione dell'impero:
"le strade erano alcune fra le più utili e meravigliose opere che mai
l'uomo abbia realizzato". La Grande Strada o Strada Reale degli Incas
lunga 1260 km (“dubito che si abbia memoria di una strada paragonabile a
questa, che scenda in valli così profonde, si inerpichi sulle alte
montagne, procedendo tra metri di neve, nella roccia viva, superando
acquitrini e fiumi turbolenti”) collegava i confini peruviani tra la
Colombia al Cile era costruita con estremo ingegno e confermava la
tecnica evoluta delle antiche maestranze tanto che nel 1950 gli unici
edifici di Cuzco danneggiati dal terremoto furono solamente quelli di
età spagnola. Gli itinerari servivano, oltre alla popolazione, anche ai
corrieri reali che riuscivano a percorrere in un solo giorno, grazie ai
frequenti cambi e punti di sosta, anche 300 km. L'esercito – con 200.000
uomini armati di frecce, lance, asce e corte spade (la polvere da sparo
era ancora sconosciuta in Sudamerica) – poteva intervenire con celerità
nelle contestazioni tra le varie province o per sottomettere le tribù
ribelli all'idolo solare, il cui supremo rappresentante sulla terra era
l'Inca coadiuvato dalla potente casta dei sacerdoti. Pur essendo di
indole docile e accomodante, il popolo guerreggiava per allargare il
proprio territorio ma soprattutto per indurre gli infedeli ad adorare
l’unico vero Dio Sole. La grande varietà di idiomi delle tribù
sottomesse nell’immenso territorio, rese necessaria amalgamarne forme e
vocaboli in modo da potersi intendere con un’unica lingua, usata tuttora
e denominata “Quechua” (popolo della vallata calda). Era uno dei tanti
sistemi per governare un popolo variegato che l’amministrazione centrale
tentava di uniformare per garantirsi da rivolte interne e stroncare
eventuali velleità di invasione dai gruppi confinanti. Segreti e misteri
si avvicendano nelle epoche storiche, molti dei quali inspiegabili
malgrado le moderne tecnologie. Le domande sulla specie umana si
susseguono e non possono avere altro che risposte ipotetiche: le antiche
culture non hanno avuto la possibilità di trasmettere ai posteri tutte
le numerose conoscenze accumulate nei millenni: qualcosa di estremamente
importante si è definitivamente dissolto insieme agli ideatori, fossero
essi extraterrestri, fossero appartenenti a civiltà evolute che il tempo
ha sepolto. Le enormi tracce sul terreno nel deserto di Nazca, situate
ai margini dell’Oceano Pacifico nel triangolo Lima-Cuzco-Titicaca,
insieme a tessuti e ceramiche sono la testimonianza di una civiltà
preincaica: animali e figure geometriche (geoglifi) occupano un’area di
520 kmq. e sono tanto vaste che per averne una visione d’insieme
necessita alzarsi in volo. Su questa raccolta di immensi disegni sono
state formulate – dal XX secolo – numerose teorie, ognuna delle quali
plausibile ma fondamentalmente non provata scientificamente. Un cronista
dell’epoca racconta un importante rito relativo all’uomo d’oro che “...
alla laguna di Guatavita – nei dintorni di Bogotà con il moderno Museo
de Oro – rendeva offerte e sacrifici al demone adorato come un dio.
Costruita un’imbarcazione e caricata con uomini e donne sontuosamente
abbigliate, cosparsero l’erede al trono di polvere d’oro, lo portarono
in mezzo alla laguna e scaricarono nell’acqua una grande quantità di
preziosi tra lo stridore di trombe e canti degli spettatori rimasti
sulla riva ... con questa cerimonia El Dorado diveniva Re della regione:
la cerimonia si concludeva con l’immersione del nuovo signore fino a
quando la scintillante polvere che lo ricopriva si scioglieva
nell’acqua”. Nei secoli successivi la ricerca dei tesori dell’Eldorado
fu lo scopo di esploratori ed avventurieri attratti da un mito che
sembra intramontabile. Solamente alcuni oggetti di finissima fattura e
quindi realizzati da abilissimi artigiani sono stati ritrovati: tra essi
uno smeraldo grande come “un uovo di gallina”. Il paese di Vilcabamba,
la cui ubicazione è incerta, è considerato l’ultimo rifugio degli Incas
e quindi il luogo dell’esecuzione di Tupac Amaru per ordine del Viceré
spagnolo. È ritenuto la roccaforte di ambedue le forze in campo: per
l’Inca la possibilità della riscossa, per gli spagnoli il baluardo
finale della conquista del territorio e l’ulteriore saccheggio. Leggenda
o cronache perdute? Quando nel XX secolo gli archeologi andarono in Perù
per riscoprire le rovine rimaste, il nome di Vilcabamba fu abbinato a
Machu Picchu e Esperitu Pampa: il passaggio del tempo propone soltanto
interrogativi. La predominante egida dell’astro solare non impedì ai
peruviani di comporre una dottrina adattata alle esigenze ed alle
influenze della società nella quale dovevano convivere insieme a
superstizioni, usanze e consuetudini radicate con la diversificazione di
casta. La loro catechesi comprendeva la persistenza dell’anima
nell’aldilà, il significato di azione buona e azione cattiva con
relativo premio e castigo, la salvaguardia del corpo con la
mummificazione (similmente agli egizi, ponevano accanto alla salma gli
arnesi usati nel corso dell’esistenza terrena; in molte occasioni
sacrificavano spose e servi per ribadire al defunto il proseguimento
della vita). Un disegno sottilmente politico tuttavia permetteva la
convivenza ‘ecumenica’ tra le varie credenze, tanto da affardellare –
sotto l’ente supremo, il Sole, per la cui venerazione venivano impegnate
enormi sostanze e una quantità incalcolabile di cuori strappati alle
vittime designate – la quantità di idoli delle tribù sottomesse: ciò
garantiva il potere centrale da eventuali contrasti religiosi tra le
varie comunità (lo sterminato pantheon dottrinale dell’India ne è
l’esempio più appariscente: guerre e scaramucce si susseguono – con le
inevitabili influenze della ragion di stato – a causa delle differenze
di intendere riti e costumanze). Il Tuono, il Fulmine, la stella Venere,
l’Arcobaleno, la pioggia, gli alberi e le montagne erano altrettanti
monumenti alla loro fede, tangibilmente espressi nei templi del lago
Titicaca, di Cuzco e di quelli disseminati nel territorio. Al culmine
del prestigio Inca, queste testimonianze – nascoste poi dalla
lussureggiante vegetazione – potevano essere accostate allo splendore
architettonico e civile delle antiche dinastie egiziane, assai distanti
nel tempo e nello spazio ma originate dalla medesima creatività. La
bramosia dei conquistadores immiserì la ricchezza artistica e sacra dei
grandi templi riducendoli a vuote carcasse, diventate tanto più
miserande per l’asportazione – come successe al rivestimento della
piramide di Cheope, prelevato per costruire una parte della città del
Cairo – dei blocchi che ne costituivano l’ossatura. Come nelle altre
civiltà, anche il governo del Perù aveva il gruppo dominante (nobiltà e
clero) che imperava su una grandissima quantità di gente. La
sottomissione era sopportata e forse anche gradita per la garanzia data
al popolo dall’ammasso di cibo stipato nei magazzini agricoli
sparpagliati nel paese, dall’accuratezza nella distribuzione dell’acqua
(simili ai famosi acquedotti romani) e la difesa delle comunità dalle
aggressioni di tribù esterne al tipo di società basato su una cultura
prettamente agricola e tessile (merinos, lama, vigogna, guanaco). Gli
artigiani avevano acquisito una particolare abilità nel modellare
vasellame d’oro o d’argento, ritrovato copioso nelle tombe e ognuno
svolgeva il proprio compito sotto l’implacabile sorveglianza degli
intendenti dell’Inca: un equilibrio che sarà distrutto dall’equivoco di
avere scambiato lo sparuto numero di spagnoli con corazze e cavalli come
messaggeri degli dèi e quindi superiori al potere dello stesso loro
sovrano. Una particolarità rendeva dittatoriale il rapporto tra il
popolo e l’autorità suprema: ogni decisione doveva passare sotto le
forche caudine di un’amministrazione che, se da una parte provvedeva al
benessere dei sudditi, dall’altra impediva loro la libertà anche nelle
cose più personali come scegliere la moglie, cambiare la residenza,
divertirsi e vestirsi in modo diverso da quello deciso dalla legge. La
popolazione era assoggettata agli ordini dell’Inca e dei sacerdoti sia
nella realizzazione delle opere pubbliche sia per l’approvvigionamento
dei magazzini, sia per partecipare attivamente contro eventuali sommosse
di villaggi rissosi. Ciononostante, questa civiltà con migliaia di
persone e con una cultura antica basata su regole di predominio,
dapprima fu distrutta definitivamente da uno sparuto gruppo di europei
che agiva in un territorio aspro e sconosciuto sotto il comando del
crudele Francisco Pizarro e del socio Almagro (“brutto di faccia, con i
lineamenti grossolani, dotato di grande coraggio e tenace”) che lo
seguirà più tardi con un altro vascello. La spedizione spagnola verso il
Perù nacque sotto cattivi auspici: gli avventurieri furono colpiti da
burrasche, soffrirono per la fame e le malattie, faticarono a trovare
approdi che permettessero l’inoltro nell’interno paludoso. Pizarro
dovette usare tutta la sua autorità ed il suo carattere forgiato da una
fanciullezza gonfia di patimenti per tenere insieme quel gruppo di
uomini stremati e stimolati solamente dalla prospettiva di future
ipotetiche ricchezze. Inoltre il capitano non voleva ritornare a Panamà90
senza avere raggiunto alcun traguardo: lo aspettavano debiti e sarcasmi
che il suo orgoglio non avrebbe potuto accettare. Sospinse dunque la
gente esasperata avanti, sempre più avanti, con blandizie, promesse e
minacce, pagando il suo accanimento con una ventina di morti per inedia.
Il paesaggio intanto diventò più accogliente e finalmente trovarono un
modesto villaggio che depredarono immediatamente per soddisfare il lungo
periodo di digiuno. I pochi indios presenti non osarono ribellarsi
all’irruzione straniera ma, purtroppo, esibirono ingenuamente manufatti
d’oro, quel metallo per il possesso del quale si sarebbero imbarcati una
moltitudine di individui. Gli spagnoli ebbero informazioni – privi di
carte topografiche e immersi in foreste inesplorate che davano solo
l’angoscia del nulla – su un grande paese al di là delle montagne
regnato dal Figlio del Sole. Tornati sulla costa, decisero di continuare
il viaggio via terra. Ci furono le prime scaramucce con tribù
battagliere che – armate di frecce e giavellotti, i corpi nudi tatuati e
penetranti urla di guerra – assalirono il gruppo spagnolo; un momento
critico per loro poiché lo stesso Pizarro rischiò di essere catturato e
ucciso. Gli uomini delusi e prigionieri della selva, persero parte
dell’entusiasmo iniziale davanti alla necessità di prestare assistenza
ai feriti e seppellire i morti. Per mascherare la sconfitta, il capo
della spedizione rispedì il vascello a Panamà con i manufatti d’oro
racimolati, non riuscendo però ad incrociare la caravella che Almagro
nel frattempo aveva equipaggiato.
In questa pericolosa situazione si
evidenziò lo spirito indomito degli avventurieri, degli esploratori, di
tutti coloro che richiamati dall’esotico e dall’ignoto lasciano il paese
natio per prendere parte alla storia dell’espansione umana. I due soci –
dopo ulteriori traversie – si ritrovarono incrementando così le scorte
di cibo e di uomini: inoltre Almagro trovò più oro di Pizarro e ciò li
convinse a continuare la ricerca del favoloso Eldorado ma il tentativo
di proseguire fu funestato dalla perdita di molti uomini a causa dei
boa, degli alligatori, degli attacchi indiani e dei nugoli di zanzare;
tra un approdo e l’altro inoltre, il mare infierì sulla spedizione
rendendo necessaria una sosta di due settimane su un’isola accogliente.
Sembrava l’ingresso ideale a quel regno favoloso che alcuni indios
indicavano vagamente oltre la catena dei monti continentali: le
vicissitudini di questo viaggio furono comunque il preludio del massacro
di una civiltà. Ritornati sulla costa, gli spagnoli videro estese
coltivazioni ben tenute che testimoniavano la presenza di una tecnica
collaudata, i villaggi diventavano sempre più numerosi ed abitati; i
primi approcci furono ostili e la discrepanza di numero tra bianchi e
peruviani poteva essere il segno di una precoce sconfitta. Il pericolo
incombente fomentò principi di rivolta tra gli equipaggi ma soprattutto
tra i due comandanti, pronti a duellare per far valere le proprie idee.
Il destino individuale e di una società è gravato da una miriade di
incognite che decidono per tutti: ogni minimo gesto si ripercuote
all’infinito fino ad alterare l’intero mondo. Anche in questo caso, così
come Colombo perse l’occasione di calpestare e guadagnare il suolo
sudamericano pur avendone intuito l’esistenza, Pizarro ed i suoi
dovettero ringraziare una serie di circostanze per avere scoperto
l’impero Inca. Fortuna e tenacia non sarebbero stati sufficienti a
fronteggiare guerrieri bellicosi senza un fatto fortuito: sembra che la
caduta di uno spagnolo dal proprio cavallo stupì talmente gli indios
vedendo rompersi in due una creatura già di per sé fonte di meraviglia
da innalzare, nella loro ingenuità, animale e cavaliere al livello degli
dèi. La superstizione e la sottomissione alle regole draconiane della
classe nobile aprirono agli invasori le porte del misterioso impero. La
spedizione, già provata per le avverse condizioni ambientali e gli
attriti personali, era anche osteggiata dal governatore di Panamà che
spedì l’ordine di evacuare ogni spagnolo superstite. Pizarro non era
uomo da rinunciare a ciò che aveva cominciato; diede ai suoi accoliti un
aut-aut perentorio, ognuno era libero di tornare e ognuno era libero di
seguirlo a sud per realizzare il sogno. Lo sparuto gruppo di fedeli che
aveva deciso di rimanere, attese sette mesi su un’isoletta
fortunatamente ricca d’acqua dolce prima di vedere un vascello carico di
provviste e la possibilità di tornare al porto di partenza, mortificati
ma vivi. Il capitano portava un messaggio del governatore che, timoroso
delle ripercussioni in patria, dava a Pizarro un limite massimo di sei
mesi per concludere l’esplorazione. Una nave e più uomini a disposizione
premiarono la fiducia e la costanza di Pizarro che subito dimenticò le
sofferenze di quel periodo per concentrarsi esclusivamente sul successo
dell’impresa. Bordeggiando, incrociarono una flottiglia di grandi canoe
con molti guerrieri che si apprestavano ad attaccare una tribù ribelle:
fu il primo incontro positivo tra due civiltà perché finalmente Pizarro
incontrò un personaggio di alto lignaggio riconoscibile dai ricchi
ornamenti al quale, con qualche difficoltà di interpretazione da parte
di alcuni indios che avevano frequentato gli spagnoli, spiegò di essere
al servizio di un grande sovrano e soprattutto di una divinità suprema
alla quale tutti dovevano sottostare. Il dialogo servì comunque ad
ottenere cesti di frutta ricambiati da Pizarro con l’invito a bordo del
nobile indio – estremamente incuriosito della nave – ma principalmente a
pubblicizzare la presenza dei bianchi in Perù. L’ambasceria spagnola
scesa nella vallata di Tumbez non lontana da Quito con spade, archibugi
e lucenti armature, si trovò di fronte ad un tempio coperto d’oro e
argento, protetto da muraglie e da molti indigeni armati. Accanto
sorgeva il gineceo a disposizione dell’Inca e lì furono gli spagnoli a
meravigliarsi per la ricchezza e la quantità del nobile metallo usato da
abili artigiani per riprodurre fiori e piante da giardino. Levati gli
ormeggi, il viaggio proseguì incontrando altre comunità che erano già a
conoscenza della presenza spagnola e della loro indole cortese e
pacifica. Pizarro si era reso conto di essere ai margini di una civiltà
evoluta, regnata da un potente capo indio: voleva dunque arrivare alla
capitale con i tesori che senz’altro custodiva però, prima di spingersi
oltre, fu convinto dai suoi a ritornare a Panamà dopo diciotto mesi di
assenza per organizzare una più poderosa spedizione. Furono accolti da
trionfatori ma non trovarono lo stesso entusiasmo nel governatore che si
rifiutò di sovvenzionare un’impresa priva di certezze. Decisero dunque
di rivolgersi direttamente alla corte reale come aveva fatto Colombo.
Nel 1528 Pizarro salpò per recarsi in patria con alcuni indios, lama,
stoffe e vasellame d’oro, a testimonianza delle ricchezze del Nuovo
Mondo. L’imperatore, già soddisfatto del lavoro di Hernando Cortéz ma
bramoso di ampliare i propri confini, diede il proprio assenso al
progetto dopo avere ascoltato il parere del Consiglio delle Indie (la
prima spedizione era stata completamente pagata da Pizarro e soci, le
spese della seconda sarebbero state a carico dei territori occupati).
Purtroppo, la burocrazia della corte di Castiglia fece attendere a lungo
la stesura di un Capitolato che indicava minuziosamente limiti,
funzioni, emolumenti e suddivisione del prevedibile bottino. In un
angolo di tutte queste elaborazioni faceva capolino la volontà di
conversione dei selvaggi a gloria e rinomanza della cattolicissima
Spagna: diventerà uno dei capitoli peggiori della conquista poiché una
parte rilevante dei religiosi useranno metodi brutali indegni degli
insegnamenti evangelici. È uno dei tanti esempi dei travisati rapporti
tra le nazioni cosiddette civili ed i cosiddetti barbari, considerati
spesso esseri inferiori soltanto perché la loro cultura è diversa. La
religiosità è un mezzo ambiguo per inserirsi nelle società da
sottomettere perché si agisce in nome di un ipotetico essere superiore
che ognuno identifica a modo suo. Con questa giustificazione, nei
millenni si sono susseguite torture, schiavitù, deportazioni, guerre
durate decenni e ostilità durate secoli, un comportamento che non onora
la razza umana perché abbassa l’intelligenza al livello delle bestie.
Ancora una volta una nazione più potente riversò le proprie bramosie su
popoli che sarebbero divenuti vassalli fino al completo asservimento. La
storia si ripete in ogni epoca con una monotonia negativa e purtroppo i
principi etici sui quali sono basate la maggior parte delle Costituzioni
sono disattesi.
Nel 1530 Francisco Pizarro ripartì con un vascello
seguito da altri due comandati dal fratello Hernando la cui presenza
nefasta sarà motivo di dissidio con altri componenti del gruppo, in
particolare con il socio veterano Almagro. Cominciò la rapina del
territorio: manufatti d’oro, smeraldi e l’arbitraria suddivisione del
paese; tutto quanto fu ripartito rigorosamente fra i partecipanti dopo
avere accantonato la percentuale dovuta alla Corona di Spagna (chi
nascondeva un oggetto del bottino per scopi personali veniva
giustiziato). Il rapporto con gli indios era totalmente cambiato dal
primo cordiale incontro; diffidenza e paura erano subentrate alla
meraviglia ed al rispetto, l’eco di queste razzie precedeva l’avanzare
degli spagnoli che, nel frattempo, erano riusciti ad arruolare a Panamà
altri uomini attratti dal campionario di preziosi. Cavalli, corazze,
spade, moschetti, picche e balestre mietevano vittime e terrore tra i
peruviani, impreparati come erano all’improvviso furore degli uomini
bianchi. Battaglie, momenti di incertezza si alternavano a periodi di
esaltazione, una sosta all’isola di Punà per superare la stagione delle
piogge e l’arrivo del Capitano Hernando de Soto (colui che avrebbe
scoperto in seguito il Mississippi) con notevoli provviste di uomini e
materiali. Stimolato da queste novità, Pizarro si dedicò alla conquista
di Tumbez, preludio al completo assoggettamento del Perù.
La dinastia
dei Figli del Sole aveva guerreggiato a lungo per ammettere al regno
alcune parti degli Stati vicini ma, purtroppo per loro, superstizioni e
presagi avrebbero facilitato il crollo dell’Impero; la voce di una razza
superiore (uomini barbuti sopra animali molto veloci) che stava
invadendo l’altopiano della Cordigliera si espandeva tra la gente
creando sconforto e voglia di ribellione. Le sofferenze per la conquista
del nuovo continente si sarebbero sommate alle stragi passate e future
evidenziando la lettera scarlatta incisa nel DNA umano. Memori delle
antiche profezie che prevedevano la scomparsa del sacro ultimo Inca (Tupac
Amaru fu decapitato nel 1572 sulla piazza di Cuzco dopo avere assistito
all’atroce supplizio della moglie squartata da quattro cavalli), il
popolo peruviano durante la conquista fu lacerato tra vecchia e nuova
cultura, tra vetuste rivalità tribali, tra alleanze e tradimenti, tra
ambiguità generate dalle presenza di un misterioso Dio universale e di
un altrettanto misterioso potente re della lontana terra misteriosa;
erano sopraffatti anche dalla contrapposizione delle melliflue parole
degli uomini barbuti e una massima tramandata dalla tradizione india,
concetto comune a molte società, riassume il rapporto con il potere: “La
scienza non è destinata al popolo ma a chi è di sangue nobile. Le
persone di bassa estrazione con la scienza si gonfiano diventando
vanitose ed arroganti; non devono interessarsi al governo del paese
perché le alte cariche andrebbero in discredito provocando un danno allo
Stato”.
La meta di Pizarro era Cuzco per incontrare l’Inca Atahuallpa:
poche centinaia di spagnoli avrebbero attraversato la Cordigliera delle
Ande91
tra migliaia di guerrieri indigeni, lontani da ogni possibilità di aiuto
o di fuga. Un’impresa temeraria “per la causa di Dio e del Re” seguendo
un percorso molto aspro squarciato da baratri. Era il 1532 quando per la
prima volta il gruppo di armati incontrò a Caxamalca92
il Re incaico. L’ambasceria fu estremamente impressionata dalla
moltitudine di tende bianche all’esterno della città, ordinate e colme
di guerrieri, una premessa non incoraggiante per gli scarsi europei. Fu
ancora l’indomito Pizarro ad elaborare un piano per colmare la
differenza di forze: fare prigioniero con l’inganno lo stesso Inca –
autorità suprema – e conseguentemente sottomettere al suo dominio
l’intero popolo. Nella convinzione di riuscire a riunire sotto l’insegna
della Croce migliaia di ‘selvaggi’ – dimenticando la loro natura di
rapaci avventurieri – gli spagnoli prepararono la trappola invitando
l’Inca a cena nei loro alloggiamenti. Sicuro di avere alle spalle
migliaia di guerrieri, peccando di ingenuità e presunzione nei confronti
degli uomini barbuti, si ammanettò da solo insieme ai più alti dignitari
entrando nella città riccamente abbigliato e assiso sul trono d’oro
della portantina, accompagnato da una massa di sudditi guerrieri e
nobili. Il lungo corteo si ammassò nel grande cortile, accolto solo da
un frate domenicano che, inspiegabilmente, iniziò una lunga predica
spiegando i misteri della Trinità e del sacrificio di Cristo. La
magniloquenza del frate, cappellano del comandante, scese a cose più
terrene e pratiche quando parlò del Papa di Roma e del Re di Spagna.
Come e quanto della predica fosse entrato nel cervello dell’Inca – nella
traduzione approssimativa di alcuni nativi che avevano frequentato gli
europei – non si può sapere ma forse dalle parole trapelò il concetto
che qualcosa o qualcuno volesse sottomettere l’inviolabilità della
tradizione. La furibonda reazione a questa affermazione incitò gli
spagnoli nascosti all’azione: improvvisamente il caos riempì il piazzale
principale con scariche di moschetteria e falconetti, cariche della
cavalleria che aprivano vasti varchi tra la folla dei guerrieri
indigeni, panico contagioso e probabilmente mancanza di coordinazione
tra gli indios. Atahuallpa cadde dal suo trono d’oro, attorniato e
legato, confuso e ancora inconsapevole di avere perso il regno in poco
meno di un’ora di battaglia tra migliaia di suoi sudditi e poche
centinaia di uomini bianchi. Incarcerato e ben sorvegliato l’Inca,
razziato sistematicamente ogni genere di preziosi, svuotati i magazzini
colmi di stoffe raffinate, assegnati gli indios al servizio dei soldati,
rinforzata parte della muraglia per resistere ad eventuali tentativi di
contrattacco esterno, Pizarro cominciò a pianificare l’avanzata verso
Cuzco dopo avere inviato una relazione delle sue imprese a Panamà con la
speranza di ricevere rinforzi in uomini ed armi. In quel periodo era in
atto una lotta dinastica per il potere tra Atahuallpa ed il fratello
Huascar, sconfitto tempo prima sul campo e da allora imprigionato.
Atahuallpa temeva che il consanguineo corrompesse i suoi carcerieri e si
mettesse alla testa di un esercito per spodestarlo e diventare lui il
‘figlio del sole’ ufficiale. Il pensiero lo tormentava e quindi, avendo
ormai compreso perfettamente che agli spagnoli interessavano i preziosi
più della religione e del potere, Atahuallpa offrì loro – in cambio
della libertà – un vasto locale da riempire di manufatti d’oro da
prelevare nei templi e nei palazzi di Cuzco. Un atteggiamento che
riconferma quale preponderanza abbia nell’animo umano l’istinto maligno:
l’Inca comprò una parvenza di libertà personale completandola con
l’assassinio del fratello Huascar, scomoda e pericolosa presenza. Pur
attorniato dalla truppa spagnola, soprintendeva agli affari pubblici,
alla gestione della nobiltà, alla numerosissima servitù ed al vasto
gineceo. Intanto un gruppo di conquistadores – resi più sicuri dal
totale dominio sull’indiscusso capo indio – fu inviato ad incontrare i
notabili delle varie comunità sulla strada imperiale che conduceva alla
capitale peruviana. La sterminata influenza del ‘figlio del sole’ fece
accogliere con rispetto ed omaggio le poche decine di armati in
missione. Gli abitanti di Cuzco contribuirono notevolmente a soddisfare
l’ordine dell’Inca accumulando materiali pregiati per farlo liberare.
Soggetti alla sua influenza, accontentarono gli spagnoli in ogni loro
desiderio, ripagati però da un atteggiamento arrogante fino a sentirsi
componenti di una razza superiore. Intanto Pizarro era stato raggiunto
da Almagro con un paio di centinaia di armati, utile aiuto per la
completa invasione del paese ma le reciproche gelosie e recriminazioni
dei capitani e delle truppe prevalsero su una ordinata pianificazione:
intanto tutti reclamarono la loro parte del tesoro raccolto – rifuso in
lingotti – con le inevitabili discussioni. Malgrado la ricchezza
depredata, le voci di una possibile rivolta india decisero il destino di
Atahuallpa: un processo-farsa portò l’imputato (29 agosto 1533) – previa
l’imposizione del battesimo – ad essere giustiziato sulla piazza per
strangolamento93.
La notizia – diffusasi celermente per la capillare organizzazione dei
corrieri – portò disordine e confusione in ogni angolo del paese e in
ogni ordine sociale. Scomparso l’idolo al quale tutti volgevano lo
sguardo per qualunque faccenda e insieme a lui la struttura piramidale
del governo, l’anarchia si sparse come un’onda anomala. Cominciarono le
province più lontane, sottomesse a suo tempo con la forza, si estese
alle singole comunità e divenne aperta rivoluzione contro le autorità
che rappresentavano la figura dell’onnipotente ‘figlio del sole’.
Pizarro, comprendendo di avere sbagliato tagliando il cordone ombelicale
che collegava la società nelle sue varie componenti, decise di mettere
sul trono vacante l’erede dinastico Manco. Naturalmente, al di là della
forma posticcia del nuovo monarca, il potere rimase interamente in mano
ai cinquecento spagnoli che ormai pensavano solamente a depredare la
capitale: il variopinto corteo si mosse seguendo il percorso della
grande Strada Reale94
costruita con perizia nel corso dei secoli sui baratri delle
Cordigliere. Non fu un viaggio facile sia per gli ostacoli naturali sia
per i continui attacchi di gruppi indigeni condotti dai capi delle varie
comunità. Entrarono nella grande città accolti dagli abitanti e dalla
mole delle due costruzioni più importanti: il Tempio dedicato al Sole e
la formidabile fortezza sull’altura. Malgrado i severi ordini di
Pizarro, gli accoliti violarono case, templi e sepolcri arrivando
all’abominio della tortura pur di ottenere sempre più oro e argento.
L’eccesso della ricchezza spronò il gioco d’azzardo con le fatali
conseguenze e l’aumento incontrollabile dei prezzi, dalle scarpe, alle
spade, dal vino ai cavalli. L’economia millenaria di quella civiltà era
stravolta dalla legge della domanda e dell’offerta, Pizarro fu nominato
Governatore, i frati domenicani ebbero il loro Vescovo nella persona di
Padre Valverde, alcuni spagnoli formarono il nucleo amministrativo di un
paese che assumeva sempre più le caratteristiche europee per la costante
immigrazione di nuovi coloni. I missionari si inserirono in ogni strato
del paese tentando di spiegare alla massa di idolatri i misteri
cristiani: il simbolo della Croce veniva eretto sui vecchi templi e
spesso i metodi brutali supplirono alla mancanza di buona volontà di
apprendimento degli indios, strettamente avvinti alle antiche
tradizioni. Due notizie allarmarono il limitato distaccamento
acquartierato a Cuzco; infatti si stavano avvicinando due reparti
minacciosi per il predominio di Pizarro. Un forte nucleo di indigeni
desiderosi di ripristinare l’antico potere e le soldatesche comandate da
Pedro de Alvarado richiamate dalle notizie su favolosi tesori. Pur
avendo obiettivi diversi, questi gruppi minacciavano l’egemonia del
Governatore vanificando la conquista del territorio. La battaglia contro
i nativi rivoltosi fu presto conclusa con la vittoria delle truppe di
Almagro e Manco, mentre l’avanzata dal mare a Cuzco di Alvarado fu
rallentata dalle difficoltà del percorso e dall’incombente inedia:
“l’unica cosa preziosa per loro in quel momento era il cibo”. Le prime
vittime furono i cavalli, subito divorati, poi cominciarono a morire
fanti e cavalieri fino a ridursi almeno di un quarto. Ancora una volta
le Cordigliere tentavano di difendere i loro segreti e le popolazioni
autoctone. Tuttavia i gruppi di Almagro e Alvarado, per una serie di
circostanze fortuite, si incontrarono rivendicando, ognuno, la
primigenia della scoperta del ricco impero. La diatriba avrebbe potuto
concludersi solo con l’uso delle armi se il buon senso e la
consapevolezza di essere su un territorio infido non avessero convinto
le due parti ad accordarsi. Alvarado e la truppa residua si imbarcarono
per ritornare al governatorato guatemalteco (morì nel 1541 schiacciato
dalla caduta del cavallo). L’impero peruviano era quasi interamente
soggiogato – salvo qualche rimasuglio di resistenza india – e Francisco
Pizarro cominciò a lavorare per sistemarne l’amministrazione. Fondò la
capitale Lima, in posizione ideale sul mare per i commerci futuri, con
la grande piazza contornata dai massicci edifici della cattedrale, di
numerosi palazzi pubblici e rifornita di acqua dal vicino fiume con
opportune canalizzazioni in pietra. Nel 1534 inviò a Siviglia il socio
Almagro (poiché tra i due predominavano sfiducia e invidia, gli affiancò
il fratello Hernando per controllarne il comportamento) con il quinto
dei preziosi dovuti per contratto all’imperatore Carlo V. Consapevole
dell’importanza della conquista che prometteva lauti profitti,
affascinato dai resoconti edulcorati di Hernando Pizarro, l’imperatore
concesse ai condottieri maggiori possibilità di manovra ampliando i
confini stabiliti nel primo contratto notarile. Molti spagnoli
entusiasti partirono verso il magnifico sogno, verso quella terra che
stava per diventare una colonia ma che, ancora, opponeva notevoli
difficoltà di percorso e di rifornimento. Il numero dei componenti la
spedizione si ridusse notevolmente per malattia e carestia, per rinuncia
di fronte ad avversità che sembravano insuperabili e per il
raffreddamento dell’iniziale esaltazione. È il prezzo da pagare per ogni
conquista: “Credevano di scovare l’oro e invece dovettero scavarsi la
fossa”. Gli unici che raggiunsero Cuczo furono quelli che seguirono
Hernando Pizarro attraverso l’istmo di Panamà. Nel frattempo, la
politica dei conquistadores nei confronti dei peruviani si stava facendo
implacabile: la proprietà privata era costantemente violata, le fazioni
di Francisco Pizarro e di Diego de Almagro polemizzavano sulle
rispettive competenze concesse dalla Corona. Da Lima il governatore
tornò a Cuczo per dirimere le controversie: si accordò con l’antico
socio ribadendo le solenni promesse di reciproco rispetto sulle
spettanze economiche e territoriali previste nell’ultimo soggiorno in
patria. I due leader divisero poi gli obiettivi da raggiungere: il primo
si dedicò al completamento della nuova capitale95
con idee di grande magnificenza e fondò nuovi insediamenti sulla costa
dell’Oceano Pacifico, il secondo si diresse verso il Cile96
con ampie speranze di ricchezza e autonomia; un’avventura che sarebbe
costata tremende sofferenze sia agli indigeni angariati dalle truppe sia
agli stessi spagnoli che si trovarono a dover fronteggiare la fame ed il
gelo dei passi montani con conseguenze mortali. Iniziò il periodo più
torbido nella conquista spagnola delle Americhe. Fino a quel momento le
popolazioni indigene avevano accettato supinamente le prepotenze
straniere, anche le più ignobili. L’Inca Manco tentò la fuga ma fu
ricondotto prigioniero a Cuczo; mellifluamente, approfittò dell’amicizia
simulata con Hernando Pizarro per farsi rilasciare promettendo di
rivelare il nascondiglio segreto di una statua d’oro. Questa volta
ricomparve solamente al comando di un esercito che si batteva con grande
determinazione assediando la capitale con nugoli di guerrieri. La lunga
battaglia ingaggiata tra le due parti meriterebbe un enorme affresco o
un grande arazzo come quelli esposti nei musei di tutto il mondo; anche
se fossero cosparsi di manciate retoriche, le cronache riportate ne
avvalorano la sanguinosa grandiosità. Poche centinaia di conquistadores
– con qualche migliaio di indios diventati nel frattempo loro alleati
per il contrasto con il millenario potere centrale – erano attorniate da
una miriade di nativi che tentarono di distruggere la città con le
frecce incendiarie. Le poche notizie che provenivano dall’esterno
riportavano la tragedia di una rivolta che coinvolgeva l’intero Perù.
L’Inca guidava le truppe con le strategie assorbite dai suoi carcerieri,
montando abilmente il cavallo bardato e tronfio per la corazza
sottratta; era ridiventato il capo a cui guardare e per il quale
sacrificare la vita. Intanto, nuove ambascerie giunte dalla Corona con
decreti che stabilivano precisi confini d’influenza amministrativa,
fomentarono dissensi tra i vari capi – che già pativano di invidie
reciproche – desiderosi di ampliare, ognuno, il potere personale. I
risentimenti sfociarono in combattimenti tra le fazioni di Almagro,
Alvarado e il governatore Francisco Pizarro ancora impegnato a Lima.
Però il tempo era passato ed i capi soffrivano di debilitazioni dovute
alle fatiche ed agli eccessi di vite costantemente in pericolo. Inoltre
molti altri spagnoli erano arrivati sospinti da sogni di gloria e di
ricchezza promessi dal nuovo continente; tutti ambivano a rapide
scorrerie che permettessero loro di tornare in patria più ricchi e
rispettati e il momento non era il più propizio per le lotte in corso
tra compatrioti: il 26 aprile 1538, nei pressi di Cuzco, fanteria e
cavalleria spagnole – costituite da soldati di varia estrazione e spesso
passati da un campo all’altro – si fronteggiarono guidate
rispettivamente da Hernando Pizarro e da Almagro. Le alture intorno
erano ripiene di spettatori incuriositi e ambedue i gruppi prima della
battaglia si preoccuparono di partecipare alla Messa – estrema ipocrisia
– implorando lo stesso Dio cristiano di dare la vittoria. Guerre civili,
rivoluzioni, vendette personali hanno lasciato nella storia scie di
sangue fraterno come quello di Caino ed Abele. Il campo dello scontro,
durato quasi due ore e con poche centinaia di contendenti, fu invaso
dagli indios che spogliarono morti e feriti spagnoli, nemici acerrimi
del loro antico popolo. La fazione soccombente fu trascinata a Cuzco e
il loro capo Almagro, già malato, fu incatenato e rinchiuso dove aveva
imprigionato i fratelli Pizarro, suoi vecchi soci. Tra gli spagnoli
ricominciarono le faide famigliari, gli sguardi pieni di odio e di
bramosia per i tesori nascosti. Compito di Hernando, in attesa
dell’arrivo del governatore da Lima, era quello di sedare le risse e di
concedere la rapina di tutto quanto era rimasto a Cuzco. Anche la sorte
di Almagro era segnata: marchiato da colpe vere o false, nel processo a
cui non gli fu permesso di assistere, questo soldato coraggioso e
generoso fu condannato a morte da una giuria faziosa con il diffuso uso
spagnolo della garrota. La Corona, informata degli avvenimenti e delle
conquiste territoriali, accolse il ritorno di Hernando con qualche
diffidenza: dopo una serie di incertezze, le testimonianze a lui
contrarie lo fecero rinchiudere per venti anni in un fortilizio. Si
difese con reiterati procedimenti legali ma la sua situazione non
migliorò: malgrado una vita debilitante e le immense ricchezze
accatastate, sembra che raggiunse – eccezionalmente per l’epoca – la
veneranda età di un secolo. Arrogante e vendicativo, coraggioso e
ambizioso, rispettato dal fratello minore Francisco, pagò duramente le
nefandezze che distribuì equamente tra amici e nemici diventando – in un
certo senso – il simbolo dei conquistadores, persone sempre in bilico
tra potere e tragedia, meritevoli di un dramma shakespeiriano. Le
notizie provenienti dal nuovo continente parlavano di anarchia totale –
di brutalità inumane – e Francisco Pizarro, nonostante i suoi meriti,
cadde sotto la lente sempre sospettosa degli alti dignitari e dei
cortigiani che agivano in nome della Corte. Per indagare sul suo operato
fu deciso di inviare il giudice reale Vaca de Castro, tanto più che
ormai gli insediamenti dei coloni europei, con conseguenti prepotenze
sugli indios usati come schiavi, si erano moltiplicati sull’intero
territorio. Intanto i partigiani di Almagro – impoveriti e disprezzati
per una disastrosa spedizione nelle terre cilene – cospiravano contro
l’autorità del governatore: alcune voci davano disperso in mare il
giudice reale e ciò li incitò a pianificare l’omicidio del conquistatore
del Perù e fondatore di Lima, sia per i latenti sentimenti di rivalsa
sia per ottenere più libertà d’azione. Al grido di “Viva il re, morte al
tiranno” penetrarono nella sala da pranzo del palazzo dove una ventina
di convenuti erano riuniti. La maggior parte di loro si precipitò verso
porte e finestre per sottrarsi al mortale assalto mentre Pizarro –
incredulo di quella temerarietà e dopo essersi battuto con vigore
malgrado l’età – finì a terra tradito e trafitto come Giulio Cesare. Fu
inumato di nascosto fino al 1607 quando gli fu reso onore con una ricca
tomba nella cattedrale. Le fazioni continuarono a fronteggiarsi con ogni
mezzo per ottenere il potere sul paese e l’arrivo – dopo un viaggio
molto lungo e spossante – del giudice Vaca de Castro non riuscì,
malgrado possedesse credenziali ufficiali, a tamponare le evidenti
discrepanze. Giunse in Perù completamente ignaro della situazione,
dell’uccisione del governatore, delle diatribe personali tra i vari
comandanti, degli indios diventati schiavi, privo di una forza armata
che lo sostenesse in un territorio sconosciuto. Eppure, il suo naturale
carattere positivo e l’autorità indiscutibile del decreto reale, lo
assicurò nel suo nuovo ruolo che, presto, fu comunicato ai maggiori
insediamenti. I ribelli spagnoli comunque non desistevano dai progetti
sediziosi continuando a razziare armi, cavalli, preziosi e vettovaglie
con l’intento di opporsi alla nuova autorità, pur avendo ben presente il
grave pericolo di mettersi contro la Corona con le relative ferali
conseguenze. Anche con l’aiuto dell’Inca Manco, il giovane figlio di Almagro – che nel frattempo aveva fatto trucidare il pericoloso rivale
Alvarado – riuscì a formare un agguerrito piccolo esercito che intendeva
contrapporre alle truppe di Vaca de Castro, ormai insediato a Lima: vole
va rivendicare l’egemonia sul territorio della Nuova Toledo lasciatogli
in eredità dal padre. A questo scopo, prima di ricorrere alle armi,
inviò a Lima un messaggio nel quale esprimeva le proprie rimostranze.
Non avendo ottenuto alcuna risposta, Almagro uscì da Cuzco nel 1542 con
l’artiglieria pesante, duecento cavalieri e altri trecento veterani
avvezzi alle alabarde ed agli archibugi. Vaca de Castro poteva disporre
di settecento uomini e ad un nuovo messaggio di Almagro si degnò di
rispondere assicurando il perdono previa la consegna dei diretti
assassini di Pizarro. Nessuna delle parti voleva cedere e al calar del
sole iniziò una battaglia tra compatrioti che si concluse al buio con
circa trecento caduti. La fazione del giovane Almagro fu distrutta: i
superstiti fuggiaschi furono catturati, esiliati, condannati a morte o
al taglio di alcune estremità del corpo. Coloro che erano rimasti sul
campo di battaglia – morti o feriti gravi – diventarono preda degli
indios - spettatori che si impossessarono di ogni oggetto sparso sul
terreno o sui corpi degli odiati spagnoli. Almagro fu condotto al
patibolo accusato di tradimento: chiese solamente di essere sepolto
accanto alle spoglie del padre. I conquistadores erano per la maggior
parte avventurieri attratti da facili prede. L’antica civiltà peruviana
al tramonto, soggiogata dalla prepotente presenza di lestofanti che,
malgrado qualche timido tentativo di convivenza, perseguivano una
politica di aggressione. Vaca de Castro si dimostrò sempre pronto a
mediare e si dimostrò capace in campo politico, amministrativo e
militare ma notizie negative giunsero alla corte dell’imperatore Carlo
V. Tornato ad occuparsi delle colonie, che nel frattempo si erano
estese, ricevette dal vescovo domenicano Bartolomé de las Casas97
una relazione dettagliata che tentava di fare un quadro della situazione
peruviana con particolare attenzione alla precaria condizione dei
nativi. A Lima fu costituito un nuovo Consiglio reale, un nuovo
tribunale e soprattutto fu inviato un vicerè con l’autorità derivatagli
da una serie di ordinanze pubblicate a Madrid nel 1543, normative che
privarono i coloni dell’ampia libertà d’azione alla quale era adusi
poiché si ritenevano legittimati dalla conquista. Subentrò un periodo
turbolento al limite della rivoluzione, specialmente per la liberazione
degli schiavi, sottratti ai coloni dal vicerè Blasco Nuñez Vela.
“Agire
esclusivamente per riguardo agli interessi del re, delle Indie e
soprattutto del Perù”: con queste intenzioni Pizarro – richiamato da
molteplici petizioni – riunì un numeroso gruppo di armati e uscì da Cuczo per incontrare il viceré a Lima: depredò anche le casse reali,
denaro pubblico, per sostenere le spese di una spedizione ufficialmente
pacifica98.
Invece di quietarsi, il paese era tuttora in fermento: partigiani di una
parte disertavano per passare all’altra e viceversa in base ai personali
interessi, spagnoli contro spagnoli e indios contro gli invasori; il
vicerè, che avrebbe dovuto sanzionare una struttura governativa
continuativa, tronfio e sospettoso, fece incarcerare il suo predecessore
insieme a numerosi nobili. Consapevole però del pericolo incombente,
inviò alcuni messi a Gonzalo con l’assicurazione di una completa
amnistia. I messaggeri ritornarono con risposte negative e quindi Blasco
Nuñez Vela preparò Lima al confronto armato con i ribelli di Cuczo ma
proprio per il suo carattere impulsivo e aggressivo cominciò il rapido
declino: già inviso a molti e soprattutto ai componenti del Consiglio
decise la propria sorte assassinando personalmente uno dei membri con
l’accusa di sedizione. I componenti del Consiglio assunsero i poteri e
lo rispedirono in Spagna per essere processato: una carriera breve che
ricalcava quella di molti altri compagni che in quella terra si
consideravano padroni senza rispetto per i diritti altrui. Gonzalo
Pizarro, entrato nella capitale con 1200 soldati e qualche migliaio di
indios, fu proclamato Governatore in attesa delle decisioni reali,
assumendosi responsabilità che probabilmente non avrebbero avuto il
benestare di Madrid. Relegò Vaca de Castro a bordo di una nave che
improvvisamente scomparve dal porto con la prua verso la Spagna, arrestò
molti di coloro che lo avevano contrastato, emise condanne a morte,
organizzò l’esercito e diede ai suoi fedeli le cariche più importanti in
modo che tutto il paese fosse strettamente sorvegliato. Sulla scena
riapparve brevemente il vicerè Blasco Nuñez Vela per riprendere quel
potere che gli aveva assegnato il decreto reale. Con molte sofferenze
come ai tempi iniziali della conquista, arrivò con la truppa sfinita a
Quito, inseguito dall’inviperito Gonzalo, ormai considerato un traditore
anche se quasi benvoluto dalla popolazione. Per settimane i due gruppi
si cercarono finché cominciò l’ennesima carneficina perché “noi
combattiamo per la causa del diritto, è la causa di Dio” (il Dio
sconosciuto è sempre citato per scusare i comportamenti umani).
Comprendendo che quella battaglia avrebbe deciso lo sfruttamento di una
terra ricca, il combattimento si protrasse tra fratelli furenti, aizzato
dall’orgoglio tipico della gente spagnola: fanteria e cavalleria del vicerè furono soverchiate dagli archibugieri di Gonzalo, morti e feriti
giacevano nel sangue ed episodi di inumana crudeltà si rinnovarono fino
al calar del sole. Cominciò allora la caccia dei superstiti nascosti
nelle chiese di Quito, prelevati e subito giustiziati dalle truppe di
Pizarro, acclamato come “principe vittorioso”.
Nella prospettiva che si
era venuta a creare in Perù, il consigliere a lui più vicino – Carbajal
– gli suggerì di staccarsi dalla Corona e diventare padrone
incontrastato del territorio, con l’aiuto anche di nozze politiche con
una nobile rappresentante Inca. Intanto, notizie contrastanti giungevano
in Spagna creando confusione nelle decisioni da prendere per rafforzare
la conquista e lo sfruttamento intensivo della colonia. Tra le altre
novità ci fu l’arrivo di Vaca de Castro, subito imprigionato perché
preceduto da maligne insinuazioni sul suo governatorato (dodici anni di
detenzione prima di essere completamente assolto e reintegrato nel rango
che gli competeva). Anche se la rotta per le Americhe era tracciata, le
comunicazioni tra i due continenti erano ancora scarse ma soprattutto
arrivavano con ritardi eccessivi. Nel 1545 il consiglio reale si riunì
per affrontare l’aperta ribellione di Gonzalo Pizarro. Si comprese
subito che non era facile trasferire truppe nel lontano continente e
quindi si optò per un accomodamento diplomatico offrendo la grazia reale
a tutti coloro che fossero ritornati sotto lo scettro di Carlo V e del
figlio Filippo II99.
Per questa delicata missione fu scelto l’ecclesiastico castigliano Pedro
de la Gasca che alle spalle aveva notevole esperienza militare e
teologica, capacità conciliative e la massima reputazione presso la
Corte (fu anche imparziale e avveduto membro del Consiglio
dell’Inquisizione). Pur essendo una persona umile, la sua esperienza
nelle varie contese lo aveva convinto a rivolgersi direttamente
all’imperatore per chiedergli ampi poteri nel risolvere la questione
peruviana. Carlo V – consapevole dell’estrema difficoltà della missione
– aderì incondizionatamente a tutte le richieste di Pedro de la Gasca –
rilasciandogli addirittura lettere in bianco autenticate con il sigillo
reale da redigere per evenienze particolari. I primi atti ‘politici’ di
questo palesemente dimesso uomo di chiesa accompagnato da pochi altri,
furono diretti ai ribelli di Gonzalo Pizzarro ricordando loro la piena
sovranità della Corona sulle colonie. Partirono missive per incontrare
le autorità del paese e soprattutto alla comunità Domenicana, diffusa
nei centri maggiori. Domiciliato a Panamà, Pedro de la Gasca, attese per
mesi risposte che soltanto Gonzalo – che godeva a Lima di una vita
principesca, servito, riverito e adulato – avrebbe potuto decidere.
Probabilmente i legami con le sue origini non si erano atrofizzate
completamente e il rispetto nonché il timore verso la dinastia della
Corte Spagnola allignava nel suo intimo, gratificato dalla posizione
acquisita ma anche dalla consapevolezza di doversi confrontare con la
Patria. Si decise alla contromossa per assicurarsi la benevolenza delle
Corona: inviò un’ambasceria a Panamà per farla poi proseguire per
l’Europa ma successe un fatto imprevisto. L’incontro e la conversazione
tra uno dei più fedeli di Gonzalo con l’inviato reale, si concluse
facendo recedere l’incaricato da ogni tentativo di sopraffare le
argomentazioni di Pedro de la Gasca: comprese che dietro l’umiltà di
quel prelato era in agguato la potenza spagnola che, se fosse scesa in
campo, avrebbe fagocitato in poco tempo il regno fittizio del testardo
Pizarro, dittatore assoluto malgrado le numerose defezioni di
compatrioti e malgrado gli avvertimenti che gli giungevano dal
rappresentante reale. Comprese comunque di essersi troppo compromesso
(aveva addirittura fatto coniare una moneta propria) e perciò decise di
lasciare il Perù e dirigersi nella zona del lago Titicaca100.
Il 26 ottobre 1547 si arrivò inevitabilmente al confronto: da una parte
le forze reali con un migliaio di uomini bene armati guidati da Centeno,
ex commilitone dei Pizarro, (il cronista Pedro de Cieza ne parla come di
un “gentiluomo piccolo di statura, con la barba rossa, non molto
generoso con il suo denaro ma pronto a dissipare il quinto dovuto al suo
Re”), dall’altra poco meno di cinquecento (la maggior parte archibugieri
addestrati da Carbajal) con la cavalleria trascinata dallo stesso
Gonzalo. É la cronaca monotona anche se crudele di una delle tante
battaglie combattute dalla nostra razza, con le relative sofferenze e
spietatezze con l’aggravante di una guerra tra conterranei in una terra
rubata. Soddisfatto della vittoria sul campo ottenuta per la maggiore
esperienza dei suoi soldati, Gonzalo, baldanzoso per la sconfitta
inflitta alle truppe reali, decise di stabilirsi a Cuczo. Gasca,
sgomento per le notizie pervenute, riprese l’abituale energia, rianimò i
superstiti e inviò un distaccamento a smontare i cannoni delle navi
all’ormeggio per trasportarli al campo. Era deciso a superare la sierra
innevata appena le condizioni del tempo lo avrebbero permesso, un
provvedimento saggio che permise ai feriti di risanarsi, di accogliere
il ritorno dal Cile di Valdivia con la sua truppa (“gli era più gradito
vedere lui anziché un rinforzo di ottocento uomini”) e l’adesione di
molti indecisi che avevano compreso da quale parte stava la vera
autorità. Nel 1548, dopo tre mesi di inattività, le soldatesche (quasi
2000 uomini) si diressero verso Cuczo superando le tremende difficoltà
del percorso montano, compreso l’attraversamento di fiumi che – per la
loro impetuosità – necessitarono di essere scavalcati dai ponti sospesi,
costruiti ex novo perché quelli originali erano stati distrutti.
Incominciò la disfatta: i soldati di Gonzalo – già indecisi per
l’incalzare delle notizie – di fronte alla forza reale si dispersero,
alcuni si affidarono alla clemenza della Corona, gli alleati indios
furono i primi ad abbandonare il campo per non combattere a favore di
coloro che li vessavano, lo stesso comandante, consegnò la spada a Gasca
tentando di difendere il proprio operato rivendicando la conquista del
Perù da parte del fratello Francisco. Pedro de la Gasca lo accolse con
freddezza accusandolo dell’assassinio del vicerè e di avere abusato dei
poteri che la Corte gli aveva concesso: ne rispettò comunque il rango
ordinando una prigionia stretta ma dignitosa. Anche il fedele orgoglioso
Carbajal si consegnò a Centeno chiudendo in questo modo il cerchio di un
tracollo che donò alle truppe reali le vettovaglie immagazzinate a Cuczo,
cibo del quale avevano estremamente bisogno. In quelle circostanze la
giustizia si muoveva rapidamente: il giorno seguente fu istruito il
processo che condannò Gonzalo (42 anni dediti all’ambizione) alla
decapitazione e Carbajal ad essere squartato (84 anni, molti dei quali
intrisi di sangue). Il primo si avviò al patibolo riccamente abbigliato
come usava fare, il secondo con il ghigno sarcastico che lo aveva sempre
contraddistinto. I vincitori reclamarono la loro parte di bottino e
Gasca si ritirò tre mesi per stilare un elenco dei meritevoli e dei
relativi compensi: diede incarico all’arcivescovo di renderlo pubblico
rendendosi conto che le sue decisioni avrebbero suscitato invidie e
malumori. A Lima si preoccupò di lenire i pesanti disagi degli indios in
servizio presso i coloni che li consideravano bestie da lavoro. La
saggezza che aveva dimostrato nell’amministrare e nel conciliare le
fazioni di una colonia in rivolta – senza profitti personali – fu
ricompensata al momento della partenza dalla presenza di numerosi
cacicchi e coloni che insistevano per regalargli un consistente
quantitativo di oro e argento. Nella sua cristallina onestà, rifiutò i
doni convinto di avere agito solamente nell’interesse della Corona ma
caricò la nave con il quantitativo dovuto al tesoro spagnolo. All’inizio
del 1550 salpò dal nuovo continente per arrivare, dopo quattro anni di
assenza, al porto di Siviglia. Nuove manifestazioni di stima ed affetto
per questo ecclesiastico che, malgrado l’aspetto dimesso, aveva saputo
affrontare le feroci diatribe di una società turbolenta. L’imperatore
Carlo V, assillato da problemi politici, militari ed economici, convocò
subito Gasca per congratularsi personalmente con un funzionario così
raro nella storia delle nazioni. Le casse reali furono rimpinzate dal
carico prezioso delle navi, Gasca, nominato vescovo (morì nel 1567), fu
sempre consultato dal governo sulle questioni che continuavano a
scuotere i territori sottomessi. Fortunatamente il suo incarico in Perù
fu ricoperto da viceré che proseguirono la strategia dell’equità verso i
connazionali e verso i nativi (soprattutto contenendo il lavoro coatto),
ripulendo per quanto possibile il paese dalla feccia dei primi
conquistadores e tentando di conciliare le varie componenti di una
società sovvertita101.
Il compimento della storia dell’antico impero vede la morte dell’Inca
Manco II, da tempo nascosto nelle foreste con 80.000 uomini: da lì
faceva sortite assalendo i convogli spagnoli per equipaggiare con
viveri, armi e cavalli il suo esercito che sempre più apprendeva le
tattiche della guerriglia, affiancati da tribù che odiavano gli Incas.
Alcune circostanze banali, malintesi e reciproche garanzie (tra l’altro
il manoscritto spagnolo delle “Nuove Leggi” che poteva costituire la
premessa per una pace duratura) furono il preambolo per l’assassinio di
Manco – subito vendicato trucidando i colpevoli – le cui insegne saranno
portate diversi anni dopo dal battagliero figlio Titu Cusi Yupanqui.
Consapevoli di un pericoloso ritorno alle sanguinose lotte per il
predominio, il viceré inviò un unico uomo (frate Diego Rodriguez) in
missione parlamentare con l’offerta che se Titu Cusi e le sue truppe
fossero usciti dai loro inaccessibili rifugi avrebbero ottenuto
l’egemonia su diverse zone ed un ricco appannaggio. All’incontro tra le
parti – inframmezzato da un lungo e pericoloso viaggio del frate
sorretto soltanto dalla fede – seguirono discussioni interminabili sulla
bilancia delle colpe alterne: il frate addebitò all’Inca i massacri e
chiese il permesso di svolgere opera missionaria, la fazione peruviana
rispose con un sintetico pericoloso “lo dovremmo mangiare subito”. Non
avendo ottenuto alcun risultato, frate Diego ripercorse amareggiato il
cammino che lo aveva portato entusiasta all’interno del paese. Nel 1566,
il tentativo di soggiogare i ribelli venne ripetuto da altri frati ma il
destino decise con asprezza: Titu Cusi Yupanqui morì all’improvviso e
per questo fu accusato il Dio cristiano, i frati furono uccisi così come
una delegazione spagnola che stava portando il consenso alle condizioni
richieste dai capi peruviani. Il nuovo Inca Tupac Amaru apprese dalle
spie che gli spagnoli di Cuzco – irritati dal continuo pericolo – si
preparavano ad attaccarlo: nel 1572 fu sorpreso insieme ai capitani e
l’aspra battaglia tra la catena montuosa si concluse davanti al viceré.
Incatenato alle mura di Cuzco e condannato a morte, il giorno
dell’esecuzione l’Inca venne crudelmente costretto ad assistere allo
squartamento102
pubblico della propria sposa. Come avviene ogni volta che la morbosità
si insinua nella folla, tutti gli spazi della Plaza Mayor erano gremiti
di curiosi, ansiosi di assistere al macabro rito. La testa cadde al
primo colpo di mannaia: venne mostrata, grondante sangue e al suono
delle campane nelle varie chiese della città, agli spettatori peruviani
e spagnoli, religiosi compresi. La storia recente del Perù è
caratterizzata dagli interventi del capitale nordamericano, il 74% degli
abitanti risiede nelle città: la Cordigliera delle Ande (altezze tra i
2.000 e 5.000 metri, con la cima più elevata a 6.768) scoraggia gli
insediamenti. Le catene montuose scendono gradatamente verso le basse
terre amazzoniche, il mare. La metà dei peruviani vive sotto la soglia
di povertà malgrado l’autosufficienza dei gruppi familiari dediti alla
coltivazione di mais, orzo, patate, ortaggi e all’allevamento di lama,
alpaca, bovini e pollame. Solamente sulla costa sono diffuse colture
come la canna da zucchero, cotone, agrumi, frutta, cacao, caffé. Il
patrimonio forestale, quello minerario e la pesca (le acque dell’Oceano
Pacifico, tra le più pescose del mondo), sono ricchezze potenziali non
completamene sfruttate per l’eredità negativa del colonialismo, per le
disastrose politiche governative. L’alta percentuale di crescita
demografica e le tensioni interne per i contrasti sociali tra le varie
classi103.
_________________
MAYA
Calendario Maya
L’astro che genera
vita è citato nella religione Maya come una delle tante manifestazioni
palesi (“il dio del sole e del cielo, il signore con il sole in fronte,
dio del tuono e della pioggia”). Per prepararsi alle cerimonie più
importanti i Maya dovevano osservare il digiuno, astenersi dai rapporti
sessuali e confessare i peccati, comportamenti comuni ad altre religioni
di una civiltà fiorita nel IV secolo. Uno dei riti ricorrenti nelle
feste segnalate era quello del sacrificio di animali e talvolta di vite
umane. Il loro calendario era suddiviso in 18 mesi di 20 giorni ognuno:
il primo era denominato ‘bisogno di acque’, il secondo ‘disossamento
degli uomini’. In questo periodo, per sedici giorni, si svolgevano
cerimonie e processioni con sacerdoti che danzavano avvolti nelle pelli
delle vittime sacrificate agli dèi nel corso delle cerimonie
propiziatorie. Purtroppo, a causa dello zelo parossistico degli spagnoli
nel voler imporre ad una antica civiltà il cattolicesimo, i libri e la
cultura Maya sono state distrutte dai roghi (solamente tre testi sacri
originali sono arrivati nelle biblioteche europee a disposizione degli
studiosi). Proprio come sarebbe successo molti secoli dopo, quando i
nazisti si accanirono sull’ebraismo, anche la conquista dell’America
pagò un alto prezzo con vite umane e con preziosi codici che avrebbero
aiutato gli studiosi a ricostruire le tradizioni delle antiche civiltà.
Numerosi frati si erano dedicati alla decifrazione dei geroglifici ma,
contrariamente alla storia delle dinastie faraoniche sufficientemente
ricostruite, le nozioni Maya-Aztechi-Inca furono quasi dimenticate e
difficili da raccogliere cronologicamente. Lo Yucatan è uno dei 31 Stati
del Messico situato nell’omonima penisola, con quasi due milioni di
abitanti. Prima dell’invasione spagnola, era una delle regioni più
prospere dell’Impero Maya che tuttora esprime la propria tipicità con i
mastodontici resti archeologici risalenti a oltre 3.000 anni fa. Lo
Stato è uno degli ultimi territori assorbiti dalla Repubblica messicana.
Durante la presidenza di José Porfirio Diaz (1830/1915) che si avvalse
di metodi dittatoriali ma nello stesso tempo favorì la modernizzazione
economica, lo Yucatan fu diviso in 106 comuni. Diaz fu soppiantato nel
1911 dalla rivoluzione liberale di Francisco Indalecio Madero
(1873/1915), che ricoprì la carica di presidente fino al suo assassinio.
Dagli albori dell’umanità, tutti i gruppi sociali hanno voluto
imbrigliare la misura astratta del tempo104.
Il calendario (dal latino calendarium, ovvero libro di credito i cui
interessi scadevano il primo giorno di ogni mese, denominato ‘calende’,
giorno sacro a Giunone, dagli antichi romani) ha il compito di
suddividere il tempo – attraverso l’osservazione dei fenomeni
astronomici – in sezioni codificate generalmente su base annua.
L’espressione scherzosa ‘rimandare alle calende greche’ – dapprima
riferita soltanto alle scadenze economiche – ha ancora oggi il
significato di rinviare le cose da fare a tempo indeterminato: infatti
il calendario greco non prevedeva le calende; ‘Calendimaggio’ è il primo
giorno di maggio, celebrato nei secoli passati dal folclore europeo con
feste e canti per festeggiare il ritorno della primavera, a Firenze si
eleggeva la Regina della Primavera, culti agrari e riti magici avevano
lo scopo di favorire la fecondità vegetale, animale ed umana. In
Francia, dal periodo post Rivoluzione fino al 1805, i mesi furono
ribattezzati con nomi legati alle caratteristiche naturali: vendemmiaio,
brumaio e frimaio per l’autunno; nevoso, piovoso e ventoso per
l’inverno; germinale, floreale e pratile per la primavera; messidoro,
fruttidoro e termidoro per l’estate. Elaborato da un membro della
Convenzione, il calendario repubblicano divideva l’anno in dodici mesi
di 30 giorni, più 5/6 giorni complementari a compensazione. Ogni mese
era diviso in decadi e l’inizio dell’anno era fissato alla mezzanotte
del 22 settembre. Gli orologiai francesi costruirono nuovi orologi per
uniformarsi alla legge del 1793 che suddivideva il giorno in 10 ore,
ognuna delle quali durava il doppio di quelle abituali. Il calendario
repubblicano durò soltanto pochi anni perché lo stesso Imperatore si
lamentò delle innovazioni che creavano confusioni e malintesi anche a
livello internazionale. Il calendario della civiltà Maya precolombiana,
basato sull’anno solare di 365 giorni, doveva essere corretto
periodicamente per annullare le differenze tra anno ufficiale e quello
astronomico. Complicatissimo nel simbolismo per le forti influenze
religiose e rituali (anno sacro di 260 giorni), contemplava periodi
lunghi (144.000 giorni) e periodi brevi (quotidianità e coltivazione del
mais).
Originariamente il calendario romano era composto da dieci mesi,
come si deduce dalle radici latine degli ultimi quattro: septem, octo,
novem, decem e iniziava dal mese di marzo. Il nostro calendario deriva
da quello romano attribuito a Numa Pompilio: 12 mesi per 355 giorni. Al
tempo di Giulio Cesare il calendario ufficiale era in anticipo di circa
90 giorni rispetto all’anno tropico. Nel 46 a.C. il calendario giuliano
introdusse l’anno bis sexto o bisestile, adottato a Roma e osservato da
tutta la cristianità fino al 1582 quando Papa Gregorio XIII lo riformò
ulteriormente in base ad un progetto di Luigi Lilio e sottoposto
all’approvazione di matematici di tutto il mondo: è quello tuttora in
uso e non avrà bisogno di modifiche ancora per molti secoli (a Giulio
Cesare e Augusto furono dedicati i mesi ‘iulius’ e ‘augustus’). La
società multimediale tende ad uniformare le varie culture, talvolta agli
antipodi proprio per le loro diverse origini, ma non può cancellarne le
tradizioni. L’anno 2000, per esempio, è l’attuale convenzione più
adottata nei rapporti tra gli uomini per ragioni di praticità. Tuttavia
non bisogna dimenticare che il tempo frazionato ha altre misure: i
cinesi festeggiano l’anno del Drago 4698, per i buddisti l’inizio del
nuovo millennio corrisponde al loro 2544, i calendari degli antichi Maya
ed egizi contano rispettivamente 5119 e 6236 anni, in base a computi di
carattere religioso o leggendario. Il calendario gregoriano fu accettato
dai paesi praticanti la religione greco-ortodossa soltanto dopo il 1917:
“Il 25 febbraio 1582, a conclusione dei lavori di una commissione
formata da scienziati ed ecclesiastici, papa Gregorio XIII emise la
bolla Inter gravissimas che, oltre a stabilire le regole del nuovo
sistema, imponeva l’abolizione di dieci giorni, dal 5 al 14 ottobre, per
ricondurre l’equinozio primaverile al 21 marzo”. Meridiane solari,
orologi ad acqua e clessidre, orologi meccanici, a pendolo o a
bilanciere, al quarzo e atomici: un complesso arsenale di marchingegni
ideati e messi a punto per organizzare spazi di tempo predeterminati. La
clessidra ad acqua di Amenofi III ritrovata nel 1904 in Egitto (datata
1400 a.C.) sfruttava una inclinazione di 70º: ciò permetteva al liquido
nel cilindro di alabastro di uscire in modo omogeneo da un foro; le
decorazioni rappresentano i momenti fondamentali per l’economia agricola
regolata dalle inondazioni del Nilo: semina e raccolto. I Bizantini
calcolavano gli intervalli di tempo con orologi ad accensione
(combustione di olio, ceri, ecc.). I Cinesi usavano candele sulle quali
venivano incise tacche ad intervalli regolari solitamente di un’ora che,
consumandosi lo stoppino, liberavano una cordicella collegata ad una
campana. I Romani classificarono gli spazi di tempo per le necessità
della loro società: il giorno naturale (dies naturalis), quello civile (dies
civilis), quello militare e quello astronomico. In epoca imperiale
usarono meridiane monumentali e portatili oppure clessidre a polvere (o
sabbia) per segnare un tempo omogeneo e ripetitivo. La civiltà cristiana
introdusse le ore canoniche: le campane scandivano le sette divisioni
del giorno (dal mattutino alla compieta) ed erano regolate sulle
meridiane che segnavano l’ora locale. Il Medioevo cristiano occidentale
ideò la clessidra meccanica, l’orologio a mercurio, gli orologi lignei e
l’astrolabio (antico strumento utilizzato per misurare l’angolatura del
Sole rispetto all’orizzonte, usato per studi astronomici e dai naviganti
per fare il punto (sostituito poi dal sestante). Le meridiane furono
impiegate nella misurazione del tempo fino al Seicento; successivamente
servirono per controllare gli orologi meccanici ancora imprecisi. Esempi
di meridiane solari molto note si trovano a Genova nella Cattedrale di
San Lorenzo (il cosiddetto ‘arrotino’) e la traccia di bronzo incastrata
sul pavimento all’ingresso del Duomo di Milano. A Roma l’obelisco
prelevato dall’imperatore Augusto in Egitto ed innalzato in piazza
Montecitorio nel 1792, ha la funzione dello gnomone ossia quella di
indicare l’ora tramite la direzione e la lunghezza della sua stessa
ombra sulle tracce segnate a terra. Sono state costruite meridiane da
tavolo, ad anello, tascabili di legno munite di bussola per
l’orientamento, altre su piani inclinati, verticali e orizzontali. La
loro impostazione – ovvero disegnare le linee orarie e le relative
correzioni per i mutamenti stagionali in base alla posizione – richiede
calcoli matematici, strumenti astronomici e una grande abilità (gli
Arabi raggiunsero un alto grado di precisione tecnica nella costruzione
sia di meridiane che di astrolabi). Molte meridiane parietali sono state
realizzate con notevoli ambizioni artistiche ed architettoniche, spesso
con risultati cromatici e figurativi molto belli.
Gli Aztechi adottarono
un calendario diviso in 18 mesi di 20 giorni ognuno. Il primo era
denominato ‘bisogno di acque’, il secondo ‘disossamento degli uomini’:
in questo periodo, per sedici giorni, si svolgevano cerimonie e
processioni con sacerdoti che danzavano avvolti nelle pelli delle
vittime sacrificate agli dèi nel corso di riti propiziatori. Quello
musulmano è basato esclusivamente sul moto della luna, quello ebraico fa
coincidere i mesi con le lunazioni e le stagioni. L’anno greco era
formato da dodici mesi lunari, alternativamente di 29/30 giorni, 354
giorni complessivi con evidenti scompensi in rapporto al moto solare. I
calendari solari confrontano la durata dell'anno civile o legale con
quella dell’anno ‘tropico’, ovvero l’intervallo di tempo fra due
passaggi consecutivi del Sole ad uno stesso equinozio. Nell’Antico
Egitto il giorno era suddiviso in 24 ore, il mese in 30 giorni e l’anno
in 12 mesi ma la differenza tra i 365 giorni fissi calcolati e la durata
reale dell'anno tropico portava ad una divergenza tra il calendario
civile – in vigore per quasi tre millenni – ed i fenomeni astronomici e
naturali (l’inizio del calendario coincideva con le cicliche inondazioni
del Nilo, alternanze strettamente legate alle stagioni della ‘raccolta’
e quindi essenziali per l’economia di tutto il paese). I Maya facevano
risalire l’inizio della loro storia a circa 3 millenni a.C. La classe
sacerdotale dominante aveva identificato i solstizi studiando gli astri
e riuscendo ad approntare un computo del tempo tra i più precisi: 365
giorni come i calendari giuliano (Giulio Cesare) e gregoriano (Gregorio XIII) ma la cadenza dei mesi era l’occasione di orge di misticismo
pagano. Le vittime designate erano le protagoniste di riti tanto cruenti
da diventare perversione collettiva. Nella storia delle società si
presentano spesso questi fenomeni, sinergie tra intelligenza e
animalità, flagelli che hanno apportato sofferenze inaudite: nord e sud,
est ed ovest, il cancro del male è universale. Dopo il Concilio
Lateranense IV (1215) che stabilì la repressione dell'eresia, nel 1231
Gregorio IX istituì tribunali presieduti da religiosi domenicani o
francescani. La Santa Inquisizione doveva accertare con l'interrogatorio
la colpevolezza dell'accusato; se rifiutava di confessare veniva
consegnato al braccio secolare con conseguenti torture fino al rogo
'purificatore'. In Spagna l'Inquisizione fu introdotta da Sisto IV nel
1478 in seguito alla richiesta della coppia regnante Ferdinando e
Isabella. Il frate Tomàs de Torquemada (1420/1498) sovrintendeva con
inflessibile durezza ai procedimenti giudiziari. Leggendo gli atti
processuali dell’epoca si evince un’efferatezza talmente inumana da
diventare follia. Tra le migliaia di vittime di questo infame
procedimento rientra anche il frate agostiniano e poeta spagnolo Luis de
Leòn (1527/1591), inquisito per avere tradotto e commentato il "Cantico
dei cantici", rimanendo fedele all'originale ebraico tratto dall'Antico
Testamento.
Il contrappunto morale si evidenzia nella constatazione che
i conquistadores consideravano barbare le usanze dei nativi ma nello
stesso tempo depredavano con ferocia e cupidigia tutto quanto avesse
valore, incuranti di ogni insegnamento evangelico: "Ho visto anche degli
oggetti portati al Sovrano dalla nuova Terra dell'Oro ... un sole tutto
d'oro del diametro di sei piedi e una luna tutta d'argento". I giovani
spagnoli erano convinti che "la ricchezza doveva essere conquistata con
i saccheggi, con il gioco d'azzardo o con lo sfruttamento di grandi
possedimenti lavorati dagli schiavi". Trattavano gli indiani con
disprezzo e per convertirli forzatamente al cristianesimo usarono ogni
mezzo intriso di crudeltà. Nel 1545 i frati francescani giunsero nella
penisola dello Yucatan per dedicarsi a questo compito. Ne arrivarono
altri dalla Spagna e tra questi colui che diventerà noto non solo per lo
zelo missionario ma anche per i suoi scritti sui costumi dei nativi.
Nato nel 1524 nei pressi di Toledo, Diego de Landa divenne presto Padre
Guardiano per i meriti acquisiti nelle nuove terre. Il compito primario
era quello di istruire catechisti Maya e di opporsi alle vecchie
costumanze come i sacrifici umani, i tatuaggi e la schiavitù. Imparò la
lingua indigena e riuscì a redigere semplici concetti religiosi per dare
più consistenza al lavoro dei confratelli. Le buone intenzioni
diventarono però prevaricazioni: i gruppi di indigeni isolati furono
obbligati a lasciare le loro attività per riunirsi in monasteri
costruiti in modo coatto da loro stessi; in pochi anni malattie e
privazioni decimarono quelle popolazioni che lo stesso Landa nei primi
tempi ammirava: "Nello Yucatan esistono molti edifici di pietra molto
ben tagliata malgrado in questo paese non vi siano metalli". Per una
bizzarra dicotomia della sua personalità, mentre da una parte studiava
con estrema attenzione i reperti dell’antica civiltà, dall’altra puniva
crudelmente chi non seguiva i precetti cattolici.
I segreti dei Maya
sarebbero rimasti sepolti per sempre senza gli scritti di Diego de Landa
e gli scavi archeologici che, con estrema pazienza, tentano di
riallacciare la catena del tempo. Gli accurati resoconti del frate
rivelano la strana dicotomia tra l'interesse pignolesco per i costumi
indiani, i manufatti d'uso giornaliero, le artistiche sculture ed il
fanatismo nel perseguire vere o presunte ‘eresie’: proprio per questo fu
richiamato in Spagna per essere processato a sua volta. Un viaggio
durato un anno e mezzo, pieno di traversie (naufragio e malattia).
L’indagine sul comportamento stigmatizzato per invidie, fu conclusa con
l’assoluzione e la nomina nel 1571 vescovo dello Yucatan fino alla morte
avvenuta a Merida105
otto anni dopo: sia la 'Relaciòn' che le testimonianze verbali furono
dimenticate per diversi secoli. Quando il manoscritto fu ritrovato negli
archivi di Madrid, cominciò l'avventura archeologica con la scoperta di
Palenque106
i cui monumentali resti, coperti dalla fitta vegetazione,
impressionarono i componenti della prima spedizione scientifica.
Malgrado l’impegno, le ricerche non furono sufficientemente approfondite
e quindi si dovette attendere il XIX secolo per ridare interesse alle
regioni dove avevano vissuto molte generazioni di peruviani. L'attività
per trasformare i pagani in cristiani incise profondamente nella società
politica e religiosa originale; sui templi furono assise le croci, molte
opere d'arte idolatre furono distrutte, piramidi e palazzi furono
livellati per usare il materiale nei nuovi edifici. Come per il
rivestimento delle piramidi egizie di el-Giza, rimosso per le nuove
costruzioni a Il Cairo, anche qui i templi furono considerati cave dalle
quali prelevare materiale per i nuovi progetti. Molte 'conversioni'
erano soltanto apparenti perché per lungo tempo idoli e sacrifici umani
sopravvissero alle 'insistenze' dei frati. Nel 1562 si usarono contro di
loro gli stessi metodi dell'Inquisizione: tortura con il fuoco e la
frusta per sapere i luoghi segreti dove avvenivano i riti 'magici'.
Quando venivano trovati codici Maya "poiché non contenevano altro che
superstizioni e menzogne, noi li bruciammo". Questo sistema contribuì a
fare scomparire in pochi anni una enorme massa di informazioni sul
passato di culture che hanno lasciato le testimonianze fatte di pietra,
molte delle quali tuttora sepolte nella foresta equatoriale. Anche
l'importante lavoro certosino del gesuita Joseph de Acosta – contestato
per le contraddizioni riscontrate, malgrado fosse stato un testimone
oculare di molti avvenimenti – faticò nella sua 'Historia', scritta alla
fine del XVI secolo, a chiarire le vicende degli indiani d'America tanto
da ritenerli, in conclusione, "cacciatori selvaggi costretti al
nomadismo per carestia o avversità naturali". I molti misteri nascosti
nel complesso connubio tempo-spazio hanno legami con le civiltà
storicamente più antiche: l’anello di congiunzione tra passato e
presente è spesso manipolato – sul metro umano – per fini politici o
religiosi; malgrado ciò, dal passato ci pervengono molteplici messaggi,
anche se intrisi di ipotesi. Per esempio, cinquemila anni fa furono
proprio i Maya – elaboratori di teorie cosmogoniche – a predire una
catastrofe planetaria nel terzo millennio, esattamente il 21 dicembre
2012107.
Il diluvio universale, riportato dalla Bibbia e da molti altri testi di
varia provenienza, potrebbe ripresentarsi in una forma più apocalittica
coinvolgendo non solo il nostro pianeta. I motivi di questo spaventoso
cataclisma potrebbero essere innescati da molteplici fattori: lo
spostamento dell’asse terrestre, il rovesciamento del ciclo naturale
caldo-freddo o dei poli, esplosione atomica o demografica, ricorrenti
maree o terremoti, eccesso di manipolazione degli elementi chimici.
Harmaghedon108
è il nome usato nell’Apocalisse per indicare il luogo dove i re malvagi,
alleati della Bestia, si concentreranno nella guerra contro Dio: “Ed
essi li radunarono nel luogo che si chiama in ebraico Harmaghedon. Poi
il settimo angelo versò la sua coppa nell’aria; e una gran voce uscì dal
tempio, dal trono, dicendo: È fatto. E si fecero lampi e voci e tuoni; e
ci fu un gran terremoto, tale, che da quando gli uomini sono stati sulla
terra, non si ebbe mai terremoto così grande e così forte. E la gran
città fu divisa in tre parti, e le città delle nazioni caddero; e Dio si
ricordò di Babilonia la grane per darle il calice del vino del furor
dell’ira sua. Ed ogni isola fuggì e i monti non furono più trovati. E
cadde dal cielo sugli uomini una gragnuola grossa del peso di circa un
talento (45 kg.); e gli uomini bestemmiarono Iddio a motivo della piaga
della gragnuola; perché la piaga d’essa era grandissima (Apocalisse
16/21). Se è vero che la Bibbia contiene tutta la storia umana con un
linguaggio criptato da interpretare, prima dell’Apocalisse le profezie
negative vengono tamponate con i riti propiziatori, con i segreti delle
alchimie, con l’intersecazione aliena, con l’astrologia di personaggi
come Nostradamus109
fino all’avverarsi di “Io faccio nuove tutte le cose” perché sarà “il
tempo del crollo totale in cui ogni cosa è perduta”. Dunque, la fine del
mondo potrebbe coincidere con l’inizio di un nuovo ciclo. Così come Jean-François Champollion (1790/1832), in seguito al ritrovamento della
stele di Rosetta (basalto nero inciso con il testo in tre lingue:
geroglifico, demotico, greco110),
decifrò la più antica scrittura egizia, i documenti salvati dai roghi
fanatici dei conquistadores e soprattutto gli scavi archeologici
permisero di riportare alla luce le rovine, le tombe e la lastra di
Palenque. Una tomba intatta sotterranea rivelò nel 1952 i suoi tesori: i
resti del defunto (un Re chiamato Signore del Sole Pacal, morto nel 683
d.C. all’età di 80 anni) erano contornati da splendidi manufatti di
giada ma ciò che più stupì i ricercatori fu la presenza della lastra
pesante cinque tonnellate che copriva il sarcofago, con la serie di
geroglifici sui bordi. I reperti della civiltà Maya sono stati soffocati
per secoli dalla foresta tropicale, eclissando un popolo ed i suoi
grandiosi manufatti ma il sito di Palenque – con i disegni simbolici che
rappresentano gli elementi fondamentali della vita (acqua, aria, fuoco e
terra) scolpiti sulla lastra – ha permesso di risalire, anche se in modo
frammentario, ad una civiltà antichissima. Dall’Ottocento gli studiosi
ebbero a disposizione fotografie e riproduzioni di iscrizioni originali
da decrittare e confrontare con gli scritti del vescovo de Landa nonché
con gli importanti Codice di Dresda (tavole per il calcolo delle
eclissi) e il Codice di Madrid, il maggiore manoscritto Maya oggi
esistente.
Palenque, Tempio delle
Iscrizioni
Una parte notevole degli edifici pubblici di Palenque è stata
scavata, tra gli altri i templi del Rilievo, della Collina, del Sole,
della Croce, delle Leggi e soprattutto il Tempio delle Iscrizioni che
conserva la cripta con la grande lastra. L’alcade di Valladolid lasciò
scritto a proposito del pozzo sacro: “In periodi di siccità i sacerdoti
vi gettavano giovani con offerte in oggetti preziosi. I notabili, dopo
un periodo di digiuno, vanno in processione al pozzo e tentano di
fermare la malasorte buttando alcune donne dell’aristocrazia. Al
tramonto calano delle corde per issare le sopravvissute chiedendo loro
cosa hanno visto”. A Panuco – a nord di Vera Cruz – venivano bruciati
vivi gli sciamani, considerati divinità da sacrificare per il benessere
della società111.
Due appassionati viaggiatori con alle spalle esperienze di scavo nel
Medio Oriente si incontrarono nelle librerie di New York e la comune
passione li indusse ad approfondire la storia dei popoli del Messico e
del Perù che uno storico aveva sbrigativamente definito “non degni di
essere classificati fra quelle nazioni che meritano il nome di civili”.
Nel 1839 John Lloyd Stephens e Frederick Catherwood partirono per la
colonia britannica del Belize e per l’interno del Continente. Unitisi ad
una carovana di mulattieri, incontrarono difficoltà enormi per i
sentieri fangosi a picco su profonde voragini, per le cadute e la
defezione di alcuni portatori. Uno dei misteri del popolo Maya è
l’improvviso abbandono delle residenze tradizionali per spostarsi più a
nord fondando nuove città e nuovi templi. Chichén-Itzà112,
la capitale Merida fondata da uno degli ufficiali di Cortés intorno al
1542 e Palenque hanno reperti essenziali per lo studio di questa
civiltà. I due viaggiatori – combattendo mosche, zecche e una forte
forma di malaria per il clima insalubre – fecero le prime rilevazioni
topografiche misurando le costruzioni e riproducendo particolari a loro
parere interessanti. Una storia particolare riguarda Copàn (centro
rituale Maya nell'Honduras), remota e soffocata località che i due
americani riuscirono a raggiungere con molti sforzi. Furono così
entusiasti di ciò che trovarono da dimenticare anche le vessazioni dei
diffidenti padroni delle terre: “Gli strani monumenti sembravano gli
spiriti errabondi della razza scomparsa di guardia alle rovine delle
loro antiche abitazioni ... Non vi era nulla che potesse essere
associato a questo luogo ma l’architettura, la scultura e la pittura –
tutte arti che rendono la vita più bella – erano fiorite in questa
fittissima foresta; oratori, guerrieri e uomini di stato, ambizione e
gloria erano scomparsi e nessuno sapeva dire qualcosa della sua passata
esistenza”. Stregati dalle “rovine della città deserta” ebbero l’idea di
comperarne la proprietà e di spedire l’intero sito a New York. Il sogno
presto abbandonato per le difficoltà dell’impresa non impedì a Catherwood di riprodurre in disegni precisi le numerose steli ed idoli
artisticamente scolpiti, a Stephens di raccontare in modo poetico quel
mondo nascosto. Anche il nome di Palenque li affascinò a tal punto da
sottoporsi ad un altro periglioso viaggio per accamparsi – tra piogge
torrenziali e stormi di zanzare – in un enorme palazzo con torre,
costituito da grosse mura e diversi cortili. I bassorilievi e le
decorazioni sulle pareti rivelavano una manualità e una capacità
espressiva moderna. Anche qui il lavoro documentario dei due amici
risultò straordinario, soprattutto per la grande esperienza acquisita
nei loro vagabondaggi archeologici nel Medio Oriente. Dovettero però
fuggire perché la loro salute era minacciata seriamente dal clima
venefico di quelle zone. Tornati in patria, realizzarono nel 1841 un
diario di viaggio arricchito da oltre ottanta illustrazioni con il
titolo “Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatan”.
Era il periodo delle grandi esplorazioni e tutto quanto riportava
notizie esotiche stimolava la curiosità e l’interesse del pubblico;
infatti ne furono vendute 20.000 copie ma l’enorme lavoro di
documentazione rischiava di rimanere monco perché fino ad allora la
lingua Maya – proprio come per i geroglifici egizi – attendeva lo
studioso capace di decifrarla.
Nel 1846 l’abate francese Brasseur de
Bourbourg (1814/1873), soggiogato dalla lettura de La conquista del
Messico di William Prescott o forse per una naturale predisposizione, si
convinse di poter dare un contributo al rinvenimento delle zone
archeologiche americane. Si preparò alla missione in maniera pignolesca:
sull’argomento consultò la biblioteca vaticana, conobbe alcuni
collezionisti con raccolte di libri dedicate al tema, ebbe un incarico
presso l’ambasciata francese messicana e con la sua conoscenza
dell’inglese, del fiammingo e della madrelingua, molte porte si aprirono
permettendogli di consultare fonti a quel momento dimenticate. Partito
per il Messico nel 1845, visitò San Salvador, Nicaragua, Guatemala: i
contatti ravvicinati e prolungati con i dialetti delle etnie migrate,
gli permisero di pubblicare i quattro volumi (2.500 pagine, con teorie
spesso non verificate) dell’Histoire des Nations civilisée du Mexique et
de l’Amérique centrale. Ritenuto ormai un accademico, superata una
malattia per l’impegno profuso, sovvenzionato dal governo francese, si
rimise in viaggio per approdare all’importante scoperta delle 142 pagine
della Relazione di Diego de Landa relegata e misconosciuta per secoli ed
ora nota come Codice di Madrid113.
Oltre a questa novità, la corrispondenza di Stephens con William
Hickling Prescott114,
fu proficua perché lo indussero ad interessarsi approfonditamente della
storia sudamericana (per un incidente che lo rese quasi cieco, si dedicò
con ferrea volontà alla ricerca dettando il testo al segretario). Avendo
mezzi finanziari sufficienti, attivò una fitta rete di collaboratori: da
Madrid e Città del Messico i topi di biblioteca gli procurarono una
enorme quantità di documenti che gli permisero di produrre – con uno
stile avvincente – due testi fondamentali per ritrovare le piste e le
gesta dei conquistadores. Intanto, i due soci progettarono un altro
viaggio verso Uxmal, località archeologica dello Yucatàn fondata
probabilmente nel X secolo, una delle più importanti città Maya
(piramide dell’indovino, quadrilatero delle monache, palazzo del
governatore). Aggregarono alla spedizione il giovane medico Samuel Cabot
e soprattutto il bagaglio era arricchito dal nuovo apparecchio per
dagherrotipi, prototipo della tecnica fotografica moderna. L’attività di
ricognizione sul sito dovette interrompersi per un nuovo attacco di
malaria dovuto ai nugoli di zanzare; i tre esploratori furono ricoverati
nei chiostri di un vicino convento, salvati dall’inedia per l’intervento
casuale di un frate francescano. Dopo settimane di convalescenza, la
spedizione proseguì il percorso fino ad arrivare a Chichén Itzà,
estremamente stimolante per le capacità operative del gruppo. La
curiosità li spinse a girovagare ancora per completare i rilievi che
sarebbero stati raccolti e pubblicati nel 1843 a New York (dopo nove
mesi il loro ritorno) con il titolo “Incidents of Travel in Yucatan”:
“le pagine dello storico sono tinte di sangue e, viaggiando sulla rossa
corrente, appare la politica degli Spagnoli rigida e ferma, più salda e
fatale della spada, tesa a sovvertire tutte le istituzioni degli
indigeni”. Un epitaffio che conclude sobriamente con efficacia la loro
esperienza in America latina: la malaria contratta nel clima nocivo li
perseguiterà in tutte le mutevoli attività che l’attivismo e
l’entusiasmo li spinse ad intraprendere in patria. Le gravissime
conseguenze del morbo portarono alla morte Stephens nel 1852; Catherwood
morì due anni dopo per un naufragio. Un’altra personalità importante per
il contributo alle future analisi dei siti di interesse archeologico fu
un sacerdote. Bernardino de Sahagùn – nato verso il 1500 e deceduto nel
1590 in territorio messicano – concepì un metodo scientifico che
raccolse con altri testi religiosi della nazione che lo ospitava. Nel
1529 arrivò con altri confratelli per trasbordare il Messico dalla
cultura pagana in quella cristiana. Per una sessantina d’anni s’impegnò
nel ruolo di missionario ma, parallelamente, la curiosità lo spinse a
studiare la lingua, l’ordinamento sociale e militare di quella terra.
L’opera letteraria che ne derivò è il compendio – quasi un’enciclopedia
– dell’intero processo storico di una nazione completamente sconosciuta
fino a pochi anni prima. Il testo – steso in lingua azteca – dopo anni
di oblio e soprattutto salvato dal vescovo di turno che faceva
distruggere fanaticamente tutte le nozioni raccolte oralmente presso i
numerosi cacicchi, fu continuamente osteggiato anche in patria;
finalmente il presidente del ‘Consiglio delle Indie’ comprendendo il
valore del manoscritto riuscì a farlo tradurre in lingua spagnola. Il
destino del lavoro di questo sacerdote intelligente ed avveduto fu
comunque mesto perché morì solo e dimenticato dopo avere subito
l’oltraggio di vedere il suo lavoro sabotato dalla censura. Le relazioni
originali di Bernardino rividero la luce molti secoli dopo: la stesura
bilingue è custodita a Firenze, l’edizione spagnola venne stampata a
Londra nel 1830. All’attività di questo religioso si può affiancare
quella della monaca carmelitana Juana Ines de la Cruz, nata nel 1651 e
morta di peste nel 1695 a Città del Messico. Si investì di una missione,
quella di comprendere i sanguinari riti aztechi accostandoli ai
torturatori cristiani. Ne fu così sconvolta da mortificare il proprio
corpo con pesanti penitenze e offrendo tutti i suoi averi – dono della
Corte per il suo impegno religioso – per i poveri angariati indios. Una
sua poesia declama: “Rappresento le credenze e le aspi razioni di questi
paesi, di questi popoli, con la voce, la fiducia e i pieni poteri degli
Indios tutti ... Se ti senti tanto forte perché riuscisti a convertirli,
non tentare ora la forza per distoglierli dall’antico uso che essi
praticano nel sacrificio”.
Uno studio del 1879 su Chichén Itzà
realizzato dall’archeologo dilettante americano Edward Herbert Thompson,
narra la riscoperta di questo posto con le ripide scalinate dei templi
ornati, dalla cime dei quali trasse l’ispirazione poetica: “Sorse il
sole grande, rotondo ... La natura insegnò agli uomini ad adorare il
sole e nel profondo del cuore seguirono sempre questo insegnamento”. Nel
libro di Diego de Landa aveva trovato una nota che si riferiva al pozzo
sacro ‘Cenote’ usato nei periodi delle vacche magre per ingraziarsi le
divinità. Sembra che le processioni fossero formate da giovani destinate
al sacrificio, contornate dai sacerdoti salmodianti. Venivano gettate
vive nella profondità dell’oscuro pozzo, subito seguite da oggetti
preziosi. Per lui quella voragine divenne un’ossessione tanto che –
alcuni anni più tardi, dopo avere percorso lo Yucatan accumulando
esperienza – riuscì ad ottenere in patria i finanziamenti per esplorare
il fondo nascosto dall’acqua. Con una draga manovrata a mano dagli
uomini che aveva assoldato, Thompson fece diversi tentativi pescando
solo resti di animali e di vegetazione mescolati al liquame. Poi, dopo
una settimana di tentativi in quel buco largo 50 metri, gli artigli
della draga issarono qualche gioiello, utensili, coltelli e uno
scheletro di adolescente. Un primo successo che lo convinse ad
ingaggiare un palombaro. Si immersero insieme bardati con le pesanti
mute nel buio totale riuscendo tuttavia a parlarsi attraverso i vetri
dei caschi. Solamente con il tatto i due riuscirono a riportare alla
luce statuette votive di giada, lance, resina d’incenso, manufatti d’oro
cesellati, importanti conferme dei resoconti di Diego de Landa. Thompson
morì nel 1935 dopo quasi mezzo secolo di vita tra gli indigeni, sempre
entusiasta del suo lavoro.
I violatori di tombe al tempo degli antichi
egizi ed i ladri delle vestigia greche e romane, agirono in modo
vandalico anche sui tumuli del Nuovo Mondo facendo perdere agli studiosi
importantissimi dettagli per ricostruire la storia delle civiltà
precolombiane. Collezionisti e cercatori di tesori saccheggiarono tutto
quanto poteva essere trasportato, pubblicizzato indirettamente dalle
varie pubblicazioni che affascinavano il pubblico. Il XX secolo apportò
modernità ma anche la devastazione di molti siti archeologici: la
costruzione di strade e di argini contro le inondazioni, lo sfruttamento
sempre più intensivo dei giacimenti petroliferi, gli spostamenti di
masse di persone con la necessità di edificare nuove città non
impediscono però al turista contemporaneo di ammirare l’eredità di
progenitori tuttora enigmatici. L’area centrale Maya fu abbandonata
nell’anno 800, probabilmente per l’impoverimento delle aree agricole:
gli abitanti emigrarono sugli altipiani e lì rimasero fino all’arrivo
degli spagnoli. Villahermosa, capitale dello Stato di Tabasco, conserva
il parco archeologico di La Venta fondato negli anni Cinquanta del XX
secolo da un collezionista. Raccoglie una trentina di sculture in
basalto e la grande piramide, reperti provenienti dall’isola omonima,
già capitale degli Olmechi che insieme ai Toltechi furono protagonisti
della cultura locale dal 1500 a.C. I Maya saliti dal sud e gli Aztechi
discesi dal nord, hanno intrecciato con loro storie e tradizioni, un
coagulo di gruppi nomadi che, nel corso dei secoli, si sono mescolati
nella nazione messicana115.
La scienza archeologica moderna nasce dalle collezioni di reperti che
già nell’antichità attirarono la curiosità del ceto colto, un fenomeno
diffuso nella società romana dal III secolo a.C. per le opere greche.
L’inizio degli scavi nel XVIII secolo a Ercolano e Pompei, la
rivelazione della stele di Rosetta e l’apertura della tomba del faraone
Tutankhamon fecero affermare una nuova scienza, nel secolo successivo i
musei si riempirono di fregi, statue e monumenti sottratti ai siti della
Grecia, dell’Egitto, dell’Italia, dell’Oriente. Gli inglesi G.H.
Carnavon (1866/1923) e Howard Carter (1873/1939), il francese Gaston
Maspéro (1846/1916), l’italiano Ernesto Schiaparèlli (1856/1928) e
Heinrich Schliemann (1822/1890) hanno dato un importante contributo
all’organica sistemazione delle indagini sul campo: “L’archeologia,
specchio che coglie la vita così com’era, costituisce il retaggio
visibile delle generazioni scomparse (Ernst Buschor). Le nuove
metodologie di scavo, l’analisi chimica e stratigrafica, la fotografia
aerea e la ricerca sottomarina hanno dato un notevole impulso ai sistemi
artigianali di un tempo; malgrado le inevitabili devastazioni dei siti
dovute ai secoli, al passaggio degli eserciti e alla negligenza degli
uomini, gli studi apportano nuove cognizioni sul passato. Il punto
interrogativo è nascosto nel binomio realtà-verità: la storiografia
vuole convincersi di essere nel giusto ma i fatti accaduti sono stati
tramandati dalle varie culture, dalle diverse interpretazioni, dalle
traduzioni e dalle ricopiature molto spesso ‘guidate’ da interessi
politici o religiosi dell’epoca nella quale vengono realizzate. Un
secolo dopo l’altro la realtà-verità viene inevitabilmente falsata e
tutto quanto noi contemporanei abbiamo tra le mani sono soltanto
brandelli della storia così come è accaduta. Il medesimo ragionamento
vale per la scoperta e la conquista dell’America: i personaggi, gli
effetti, il bene e il male dei comportamenti, i monumenti inneggianti
alle vittorie con relativo assoggettamento dei popoli, sono fatalmente
ingigantiti e soprattutto intrisi di plagio e retorica. Così le parole,
la lingua, assumono un valore diverso per chi scrive e per chi legge in
base alle cognizioni personali e al momento in cui si scrive e si legge.
Le steli, le lapidi, i sepolcri, i resti delle antiche civiltà sono
interpretabili ma spesso enigmatiche. Tutto quanto può essere messo in
dubbio, anche se la prospettiva di chi lavora sui dati storici ha un
indubbio valore di testimonianza, ma come confermare con certezza che
teorie ed invenzioni dei millenni passati siano veri? Si parla di
batterie elettriche116,
di viaggi intorno alla terra e di automi già nel I sec. a.C., di
antibiotici nell’Egitto del III millennio a.C. Scoperte che sono state
ricuperate ai tempi nostri dopo secoli di oblio: dimenticanze o brutali
distruzioni? Incapacità di valorizzarle oppure semplice cancellazione
dovuta ai secoli? Eraclito (540/475 a.C.) teorizzò la relatività; si
dovette aspettare Copernico (1473/1543) per avvalorare la tesi di
Pitagora (VI sec. a.C.) che la terra è un pianeta; Galileo confermò la
presenza delle macchie solari scoperte dai cinesi nel 2000 a.C.;
Democrito (460/370 a.C.) intuì che la Via Lattea è un insieme di stelle.117
Intanto Cortéz procedeva nell’intento di esplorare la penisola dello
Yucatan per espandere il simbolo della Croce e smantellare le vecchie
tradizioni religiose. Nelle nuove zone la truppa spagnola si scontrò con
un inaspettato quanto feroce atteggiamento. Ancora una volta archibugi e
balestre spaventarono gli indios malgrado la loro grande abilità
nell’uso dell’arco: la città di Tabasco fu infine assoggettata anche se
gran parte degli abitanti erano scomparsi insieme con i loro averi.
Cortéz dichiarò la città suddita del sovrano cattolico e con questa
cerimonia ufficiale si tutelò contro eventuali rivendicazioni da parte
di altri stati europei. Non fu comunque un’impresa facile per i continui
contrattacchi degli indigeni, furiosi per l’ingerenza forzata degli
stranieri. Gli spagnoli, infastiditi dalle continue punzecchiature dei
nativi, decisero di uscire dalla città e di attaccare il numeroso gruppo
dei guerrieri sparsi sulla pianura a poche leghe dalla cinta di legno
che proteggeva il centro abitato; nello scontro furioso furono quasi
sopraffatti dal numero dei nemici ma la battaglia fu vinta quando in
loro aiuto giunse la cavalleria, per i nativi una spaventosa fusione di
uomo e animale. Dopo avere soggiogato e ‘redento’ lo Yucatan, gli
spagnoli si imbarcarono dirigendosi verso le coste del Messico. Qui
cominciò l’avventurosa collaborazione dell’indigena Marina (Malinche)
con la spedizione, dapprima interprete/segretaria e infine amante di
Cortéz, dalla quale ebbe poi un figlio118.
La penetrazione spagnola nel territorio messicano ed i rapporti con
l’imperatore Montezuma (Moctheuzoma) vennero facilitati
dall’intelligenza di questa donna ma soprattutto dalla condiscendenza
dello stesso sovrano. Come sempre, lo stile ipocrita del conquistatore
riuscì a sottomettere il popolo azteco – malgrado la ferma difesa dei
connazionali da parte di Marina – aprendo vaste brecce nelle antiche
credenze idolatre e nella strutturazione sociale. L’attività di Cortéz
cominciò ad attuarsi – senza perdere l’occasione di ricerca dell’oro –
nel porre le basi per ciò che sarebbe diventata la grande città di
Veracruz119.
A quel tempo il territorio era malsano per la presenza delle paludi che
diffondevano la malaria tra gli europei. I rapporti con gli indigeni
furono sanzionati con l’uso del baratto e diventarono forieri di
maggiore familiarità quando arrivò all’accampamento un nobile azteco –
seguito da numeroso e folcloristico corteo – con il compito di fare da
intermediario tra l’imperatore ed il comandante spagnolo. Finalmente – 8
novembre 1519 – avvenne nella capitale Messico l’incontro tra Montezuma
II e Cortéz, il primo preceduto da un corteo di nobili sfavillanti di
ornamenti preziosi, il secondo seguito da 400 armati e da migliaia di
indios Tlascalani, nemici da sempre della civiltà azteca; un testimone
oculare lasciò scritto: “Non potrò mai dimenticare quello spettacolo.
Ancora dopo tanti anni lo ricordo come se si fosse svolto ieri”. Avvenne
il confronto tra due civiltà lontane millenni per le diverse esperienze
che avevano creato società agli antipodi nei costumi, nelle culture,
nelle regole, negli obiettivi che ogni gruppo si pone. Al solito, allo
spagnolo non interessava il fatto storico, non vedeva o non voleva
vedere l’inizio di una nuova epoca; l’incontro lo affascinò solamente
perché intravide alle spalle di quella maestà venerata dal suo popolo la
possibilità di portare in patria – con la copertura della Santa Chiesa120
– le ricchezze e la proprietà del territorio oltre agli indigeni
convertiti al cristianesimo: “Amici seguiamo la croce e sotto questo
segno – se abbiamo fede – vinceremo”. Comprese subito di trovarsi
davanti ad un popolo evoluto, con precisi regolamenti per la convivenza
e con principi basilari sui quali ancorare la vita quotidiana.
Una delle
ragioni che contribuirono alla distruzione della civiltà azteca fu la
scoperta di una porta nascosta da una parete fresca di cemento. Quando
gli spagnoli penetrarono senza riguardo nella stanza nascosta, rimasero
affascinati dal cumulo di oggetti preziosi costituito da monili, verghe
d’oro, opere finemente lavorate da abili artigiani: il tesoro di
Montezuma. Cortéz fece prudentemente rinchiudere il varco non osando per
il momento risvegliare la collera di migliaia di guerrieri pronti a
stroncare qualunque sabo taggio verso il loro imperatore. Fu proprio la
sacralità di questa autorità a suggerire allo spagnolo di convincere
Montezuma a trasferirsi nel palazzo che lo ospitava: ottenne così di
tenerlo in ostaggio, non dichiarato, e di mostrare palesemente la
propria forza disponendo la sua cavalleria – temibile per i
superstiziosi indios – alle porte della città. Fece anche allestire una
cappella dove i padri Dìaz e Olmedo officiarono la santa messa, rito che
colpì i pagani per il suo effetto coreografico. Da quel momento la
sottomissione di Montezuma divenne totale, irritando notevolmente il suo
popolo ancora influenzato da secoli di coesistenza. La prima incrinatura
fra le truppe spagnole avvenne in seguito a questo atto e alla
conseguente appropriazione dell’intero tesoro; ciò accese la cupidigia
dei soldati, subito repressa dal loro capo che intendeva spartire i
preziosi in modo equo: una parte spettava alla Corona, un’altra parte
avrebbe coperto le spese pagate da Cortéz per l’allestimento della
spedizione, un quinto al governatore Velàsquez, una porzione al presidio
lasciato a Vera Cruz e ciò che rimaneva, ben poco, da suddividere tra la
truppa. Qualche mese dopo al comandante venne comunicato che una flotta
con più di mille uomini era in rotta per raggiungerlo e portarlo
prigioniero a Cuba su ordine del governatore. Il carattere di Cortéz non
fu scalfito dalla notizia, anzi decise di andare incontro – malgrado la
disparità di forze – ai compatrioti. Lasciando il capitano Pedro de
Alvarado a Messico come guardia del tesoro (un pegno prezioso a
salvaguardia di qualunque tipo di disputa) e come custode della fedeltà
azteca, il gruppo si avvicinò all’accampamento degli uomini di Velàsquez
che, convinti di essere protetti dal furioso temporale, si erano
addormentati. La notte di Pentecoste del 1520 fu una vittoria della
volontà del condottiero: dopo una breve ma furiosa battaglia, molti dei
superstiti si dichiararono disposti a giurare fedeltà al trionfatore che
riuscì anche ad impossessarsi di una enorme quantità di armi, fucili,
balestre e cannoni. L’esercito spagnolo doveva ora espandere il suo
potere all’intero Messico e probabilmente gli aztechi avrebbero
accettato la sottomissione politica anche se la ferita all’orgoglio
sarebbe stata profonda. Ciò che rese difficile la capitolazione di un
antico impero, con tutte le implicazioni che ciò comportava, furono le
diverse dottrine religiose, fortemente radicate nei due popoli ma
completamente contrapposte. Sacralità e spiritualità sono soverchiate
dal desiderio di possesso del potere e del denaro, due delle componenti
che hanno procreato disuguaglianza e ingiustizia in tutte le latitudini.
La coscienza non ha più, se mai l’ha avuta, la capacità del mea culpa:
l’istinto naturale dell'evoluzione che vuole migliorare giorno dopo
giorno la condizione della vita, ha portato a eccessi che ci condannano.
Il processo che presiede alla formazione delle civiltà, si incrina ogni
volta per una serie di immoralità tanto più abnormi quanto più esclusive
di una razza che ha il grande dono del raziocinio e della fede, della
creatività e della fantasia. Il progresso ha innescato molteplici
fattori a rischio, tanto più pericolosi quanto più supportati dall'uso
improprio delle scoperte tecnico-scientifiche, dallo squilibrio
distributivo delle risorse del pianeta, dall'alternanza conflittuale dei
gruppi etnici e religiosi. Inevitabile è l’interconnessione tra
religione e filosofia: la prima si basa essenzialmente sulla Fede, la
seconda sul Raziocinio: ambedue però hanno il privilegio del Dubbio,
peculiarità fondamentale dell’Intelletto.
“Qualsiasi tipo di azione o
sentimento ostile provoca una reazione, la quale si accresce e, a sua
volta, genera una progenie di violenza e di ingiustizia di straordinaria
ferocia” (Bertrand Russell). Perdendo fiducia e gioia e sicurezza,
l'individuo affronta gli altri per preservare se stesso: egoisticamente
misura la vita sul metro della propria salvezza. Ciò che l'afflato
religioso dona, sia vero o falso, è vanificato dalla lacerazione di una
società che non sa coagularsi e quindi l'insegnamento dei Profeti è
sminuito giorno dopo giorno dalla cattiva volontà e dalla paura che
genera sofferenza. Potrebbe essere il dolore ad alterare l'equilibrio
del mondo, potrebbero essere l'egoismo e la superbia a far dimenticare
l'uguaglianza, potrebbe essere la consapevolezza interiore dell'inanità
umana a incitare al male operare, potrebbe essere l'inconscia
aspirazione di ogni essere umano all’immortalità a far colpire qualunque
cosa si frapponga alla propria volontà. Le occasioni di incontro
ecumenico per esponenti di tutte le religioni del mondo ci sono state;
la buona volontà concettuale verso la pace e la convivenza ha posto
faccia a faccia le dogmatiche più diverse, un unico Dio si identifica in
dottrine nate in continenti con alle spalle gestazioni etniche e
culturali molto differenti: può questa intenzione risolvere la
precarietà morale riposta da millenni nell'individuo, può la sola unità
religiosa risolvere i conflitti politici ed economici, può Dio far
dimenticare la diversità dialettica dei dogmi e divenire unità per
permettere finalmente alla razza umana di condividere la vita e la
morte? Essere o avere, essere o apparire, il dubbio e la fede:
contrapposizioni che fanno soffrire ma soprattutto innescano la miccia
della violenza e della brutalità. Il male è una pulsione che spinge
l'essere umano ad interrogarsi, da Caino in poi. La tradizione
giudaico-cristiana ha imposto nuove prospettive morali che – dopo il
persistente istinto distruttivo della razza e l’accumularsi nel tempo
della popolazione mondiale nonché l’acuirsi dei problemi collegati alla
convivenza – sono diventate questioni vitali alle quali dare risposta;
proprio per questo, prima ancora della nascita della filosofia
nell'antica Grecia, gli uomini avevano abbozzato delle teorie attraverso
i loro miti cosmogonici. Sappiamo infatti che nelle tradizioni
mitologiche di tutto il mondo esiste una netta contrapposizione tra
divinità benevole e maligne: “Così, per gli egiziani Osiride si
contrappone al dio del male Seth, per il parsismo Ahriman a Mazda, per
gli scandinavi ed i germani Loki a Thor”. Le divinità opposte ma unite
dal legame bene/male esemplificano il rifiuto del dualismo da parte di
queste tradizioni, più propense a considerarle come frutto di una
originaria ambivalenza del reale. È comunque nell'antica Grecia, con le
definizioni date da Socrate e dagli Stoici che ha avuto origine una vera
e propria indagine sull'origine del male. Nel pensiero di Socrate il
Bene è il principio primo e “ogni essere che lo conosce, lo cerca e lo
insegue, volendo prenderlo e possederlo”: il Male è dunque frutto
dell'ignoranza, compiuto cioè da coloro che non riconoscono il Bene, la
cui cognizione spinge l'uomo ad essere, anche se i moderni mass-media
tendono all’apparire. Quando gli spagnoli ebbero il permesso di salire
la lunga gradinata che portava in cima al tempio dedicato ai sacrifici
umani, furono raccapricciati dalla vista dei numerosi crani accatastati
dopo anni di ritualità barbare. Non fecero alcuno sforzo per paragonare
l’usanza abominevole con il rogo delle presunte streghe, le torture e le
uccisioni della Santa Inquisizione capeggiata dal frate Torquemada nella
loro civile patria. Gli stessi frati al seguito della spedizione, in
questa occasione agirono con molta più prudenza della soldataglia,
suggerendo a Cortés un atteggiamento ponderato dopo le prime reazioni
piuttosto dure. Anche Montezuma si innervosì notevolmente per questo
comportamento che implicava oltre tutto l’elevazione di croci sul punto
più alto dei numerosi templi. Furono momenti di tensione ma soprattutto
fu il confronto fra due civiltà, fra due modi di interpretare la vita e
tra due antiche tradizioni. L’immagine spaventosa del Dio
Huitzilopochtli che osservava la pietra sacrificale a lui dedicata,
inorridì ulteriormente i bianchi che, comunque, riuscirono a convincere
gli aztechi a costruire un altare con l’immagine della Vergine Maria.
Naturalmente sparirono oro e argento, scopo principale, insieme alla
redenzione di questa gente considerata primitiva, causando infine, con
queste azioni, la collera dell’intero popolo.
Si rinnovava in quel
periodo l’importante festa dedicata a Huitzilopochtli: gli spagnoli, con
magnanimità, permisero il raduno previsto obbligando però i partecipanti
ad intervenire disarmati e con il divieto assoluto di non effettuare
sacrifici umani. Il tragico epilogo si stava per compiere. Quando
l’aristocrazia dei fedeli si radunò, incomprensibilmente gli spagnoli
perfettamente armati trucidarono la folla indifesa: “il sangue scorreva
a torrenti come l’acqua di un violento acquazzone”. Il massacro rovinò
inevitabilmente i rapporti tra i due gruppi, quello civilizzato e quello
barbaro, tanto che quando Cortés ritornò a Messico trovò il luogotenente Alvarado assediato da una moltitudine di indigeni. Le battaglie si
susseguirono senza alcun risultato: fu lo stesso Montezuma a sbloccare
la situazione di stallo presentandosi con le insegne imperiali e il
corteo dei nobili offrendosi come intermediario per sanare l’intricata
questione. Il gruppo di Cortés distrusse mezza città, i nemici
tagliarono tutti i ponti per la ritirata e nello stesso tempo (30 giugno
1520) lapidarono il loro capo Montezuma II perché per debolezza si era
sottomesso agli stranieri. Cominciò così quella che è comunemente
chiamata “noche triste”, preludio al totale asservimento dell’antica
civiltà.
Se si pensa che poche centinaia di spagnoli avrebbero dovuto
passare attraverso le fitte maglie delle migliaia di guerrieri indios –
fortemente motivati a distruggere la piccola truppa – si deve dare atto
al coraggio e all’audacia di Cortés se riuscirono nottetempo e in mezzo
a una pioggia torrenziale a sgusciare tramite il primo ponte
frettolosamente ricostruito. L’odissea della ritirata durò almeno una
settimana: le perdite furono ingenti, dagli uomini, ai cavalli, alle
armi, agli alleati Tlascalani. Fortunatamente gli inseguitori furono
rallentati – anche loro – dalla bramosia; infatti per rendere più celere
la fuga, gli spagnoli furono costretti ad abbandonare lungo il percorso
moltissimi preziosi ma pesanti manufatti del tesoro sottratto
all’impero. Stanchi ed affamati, disillusi, i superstiti si ritrovarono
compressi tra due fuochi perché oltre ai guerrieri alle spalle giunsero
ad una vasta vallata piena di bellicosi vendicatori. Sembrò la fine
della conquista ma, ancora una volta, la spregiudicatezza di Cortéz
riesce a superare le avversità. Raggruppa i pochi cavalieri a
disposizione e si dirige al galoppo fendendo la folla verso una ricca
portantina che trasportava un dignitario, probabilmente il comandante
degli indios raccolti nel vallone: lo uccide e gli strappa le insegne
del comando. Con questa battaglia la sorte del Messico è decisa malgrado
ulteriori tentativi di ribellione, tuttavia “…che tutto ciò sia stato
realizzato da un manipolo di indigenti avventurieri ha del miracoloso,
senza parallelo nella storia…”.
Ancora oggi questa grande nazione
risente delle vicende accadute centinaia di anni fa, pur ignorate dagli
storici per molto tempo. Il magma della rivolta verso la diffusa imposta
cristianizzazione, verso il sistematico sfruttamento delle miniere e
della popolazione formata dal 65% di meticci, ha portato una serie di
subbugli politici e guerre civili.
- Massimiliano d’Asburgo (1832/1867):
imperatore del Messico dal 1864 fino alla fucilazione dei repubblicani
di Juàrez; accettò la corona su iniziativa di Napoleone III.
- José Porfirio Dìaz (1830/1915): dittatore del Messico dal 1876 al 1980 e dal
1884 al 1911; abbattuto dalla rivoluzione liberale di Madero.
-
Francisco Indalecio Madero (1873/1913): leader della rivoluzione
democratica contro Dìaz, fu presidente della repubblica fino al suo
assassinio.
- Emiliano Zapata (1879/1919): esponente della lotta dei
braccianti indios per la riforma agraria, ebbe un ruolo decisivo nella
rivoluzione di Madero contro Dìaz; continuò la guerriglia insieme a
Pancho Villa finché venne assassinato.
- Pancho Villa Doroteo Arango
(1887/1923): rivoluzionario con Zapata e Madero; assassinato dopo avere
deposto le armi.
- Làzaro Càrdenas (1895/1970): presidente del Messico
dal 1934 al 1940; realizzò la riforma agraria e nazionalizzò le
industrie petrolifere.
- Marcos M. Guillén: guerrigliero nato nel 1958,
a capo dal 1994 del movimento antigovernativo degli indios di Chiapas,
di ispirazione zapatista.
- Garcìa Benito Pablo Juàrez (1806/1872);
presidente liberale del Messico dal 1861 alla morte, considerato il
padre della nazione; guidò la resistenza contro Massimiliano d’Asburgo.
- L’eroe venezuelano Simòn Bolìvar (“Libertador”), generale e uomo
politico (Caracas 1783/1830), figlio di una famiglia spagnola, ricca ma
non nobile, aiutò nel 1810 la rivolta verso gli eredi dei conquistadores:
“per il Dio dei miei genitori, giuro per loro, per il mio onore e per la
Patria che non darò pace al mio braccio né riposo alla mia anima finché
non avrò spezzato le catene che ci opprimono”. Così scrisse in Italia
durante un lungo viaggio in Europa, influenzato anche dalle nuove idee
dell’illuminismo messe a confronto con la realtà del suo paese in mano
alla minoranza bianca che sfruttava indios e territorio. La guerriglia
che organizzò con truppe anche mercenarie, subì contraccolpi ma poi
ottenne l’unione di Venezuela, Colombia, Ecuador. Ne divenne presidente
con l’intesa di lasciare l’incarico al termine delle guerre. Proclamato
Libertador, proseguì verso l’antica capitale peruviana Quito. Però in
una delle sue ultime lettere confessò: “Ho governato per 20 anni e non
ho ottenuto che pochi risultati certi; ho compreso che l’America è
ingovernabile per noi nativi, colui che serve una rivoluzione sta arando
nel mare, l’unica cosa che si può fare in America è emigrare, questo
paese cadrà inevitabilmente nelle mani di una folla scatenata per
passare poi a quelle di tiranni quasi impercettibili, di tutti i colori
e razze”. Profezia di un uomo romantico che, per tutta la vita, tenne
fede al giuramento di un giovane idealista capace di operare
concretamente pur minato dalla tubercolosi ereditata dalla madre. Sposò
a 19 anni una nobile venezuelana che morì pochi mesi dopo per una
malattia tropicale. In occasione di un viaggio in Italia, sul monte
Aventino giurò “per il Dio dei miei genitori, giuro per loro; giuro per
il mio onore e giuro per la Patria che non darò pace al mio braccio né
riposo alla mia anima finché non avrò spezzato le catene che ci
opprimono”. Patriota idealista, si incontrò con le idee di Jean Jacques
Rousseau121
e Napoleone. Ottenne l’indipendenza di Quito e Lima. Per porre fine alla
presenza spagnola in America, Simòn Bolìvar (da lui ha assunto il nome
dell’attuale Stato della Bolivia
122)
pose il quartiere generale sulla costa peruviana dove governò con poteri
dittatoriali. Progettò una Confederazione delle Ande (Grande Colombia),
l’abolizione della schiavitù, la creazione di un esercito e di una
flotta federali; tuttavia, commentò amareggiato: “Mi vergogno a dirlo ma
l’indipendenza è l’unico bene che abbiamo ottenuto a spese degli altri”.
L’indipendenza messicana fu proclamata nel 1821 ma non fu la fine delle
tribolazioni: tuttora il confine tra il Messico e gli Stati Uniti è
strettamente sorvegliato per diminuire la costante illegale emigrazione
verso lo Stato più ricco. Il 70% dei chicanos sono espatriati –
legalmente o illegalmente – verso California, Texas e New Mexico. La
legge border region ha permesso a centinaia di migliaia di loro di
trovare lavoro nelle numerose fabbriche americane lungo il confine,
sorte per la manodopera a basso costo; ciononostante il degrado
ambientale e la delinquenza diffusa ne hanno ridotto in parte il
beneficio. La rivolta ispirata agli ideali zapatisti degli indios del
Chiapas, regione tra le più povere al confine con il Guatemala
(1994/2000) fu il segnale dei messicani di un profondo malessere
sociale. Le sostanze che i nativi assumevano per sopportare la fatica
del lavoro alle alte quote (l’80% del territorio supera i 1.000 fino a
5.700 metri) sono diventate merce primaria del deleterio commercio
internazionale della droga. Tombaroli, miseria e criminalità comune
mettono a repentaglio vestigia e habitat tropicale, compreso il
disboscamento selvaggio (15.000 ettari di foresta ogni anno): “Nella
penisola dello Yucatan che conserva le rovine delle zone archeologiche
di Chichen Itzà e Palenque, i Maya hanno demolito l’ambiente naturale
distruggendo la giungla per ottenere terreno agricolo, noi a distanza di
secoli stiamo facendo lo stesso”. L’inquinamento affligge soprattutto la
vasta regione urbana della capitale che detiene il primato di città più
avvelenata del mondo anche per l’eccezionale incremento demografico
degli ultimi decenni: nel 1900 gli abitanti erano 13 milioni, nel 2001
hanno superato i 100 milioni (la capitale ha oltrepassato i 20 milioni
tra bianchi, indios e meticci); recenti statistiche prevedono che entro
40 anni la popolazione messicana raddoppierà. Si calcola che oltre 20
milioni di messicani vivono legalmente o illegalmente negli USA. La
cultura mesoamericana sta subendo una trasformazione radicale, così come
molte ampie zone del nostro mondo, soffocato ormai dalle novità spesso
negative del nuovo millennio, simili negli intenti a quelle antiche
perché il DNA della razza rimane comunque invariato, ma elevate
drasticamente all’ennesima potenza.
_________________
CRONOLOGIA
• 1451/1506 –
Cristoforo Colombo, partito da Palos approdò alle Bahamas. 1480/1526:
Diego (figlio di Cristoforo, per alcuni anni Viceré spagnolo delle Indie
Occidentali). 1488/1539: Ferdinando (figlio naturale, autore della
biografia paterna).
• 1474 – Una lettera
al canonico portoghese Martines inviata dall’astronomo fiorentino Paolo
dal Pozzo Toscanelli (1397/1482) – convinto della sfericità della terra
– spronò Colombo a cercare la via marittima per le Indie navigando verso
Occidente.
• 1492 – Colombo
salpa dal porto di Palos-Cadice il 3 agosto e approda il 12 ottobre in
un’isola dell’arcipelago delle Bahama, ribattezzata San Salvador.
Ferdinando I di Castiglia e di Aragona conquista Granada facendo cadere
l’ultimo baluardo della dominazione araba in Spagna.
• 1493 – Colombo
compie la seconda traversata del Mare Oceano scoprendo varie isole
dell’America Centrale.
• 1494 – Spagna e
Portogallo stipulano, con la mediazione del Papa, un trattato per la
divisione delle zone da colonizzare. Gli ebrei vengono espulsi da
ambedue le nazioni.
• 1497 – Il
navigatore Giovanni Caboto (1450/1498) – al soldo degli inglesi – scopre
il continente nord-americano, seguito da Giovanni da Verrazzano, al
soldo dei francesi.
• 1498 – Terzo
viaggio di Colombo nel corso del quale avvista per la prima volta il
continente americano. L’imperatore Inca Huayna Capac completa la Strada
Reale delle Ande lunga più di cinquemila chilometri.
• 1499 – Amerigo
Vespucci (1454/1512) esplora le coste del Brasile per incarico del re di
Spagna. L’anno successivo Pedro Alvares Cabral – seguendo la rotta
tracciata da Vasco da Gama – sbarca in Brasile dichiarandolo
possedimento della Corona portoghese.
• 1502 – Colombo
compie l’ultima spedizione. Vespucci scopre la baia di Rio de Janeiro e
costeggia la Patagonia al servizio del Portogallo (il Nuovo Mondo
prenderà il nome di America in suo onore).
• 1508 – Sebastiano
Caboto (1480/1557) riprende l’esplorazione dell’America nord
occidentale, iniziata nel 1497 dal padre Giovanni.
• 1510 – Gli spagnoli
occupano Cuba che diverrà la base per la conquista del Messico.
• 1513 – Una
spedizione spagnola guidata da Vasco Nuñez de Balboa raggiunge l’Oceano
Pacifico attraverso lo stretto di Panama. Juan Ponce de Leòn raggiunge
le coste della Florida.
• 1519 – Hernàn
Cortés – accolto pacificamente dalla popolazione che lo identifica con
il Dio Cuauhpopoca – si impadronisce del territorio azteco e distrugge
la capitale Tenochtitlàn, sulle cui rovine sorge oggi Città del Messico.
• 1519/1521 – Prima
circumnavigazione della terra di cinque navi al comando del portoghese
Ferdinando Magellano (alias F. Magalhaes – 1480/1521). La “Relazione del
primo viaggio intorno al mondo” è stata scritta dal vicentino Antonio Pigafetta al seguito della spedizione. Magellano non compì l’intero
periplo perché, arrivato alle isole Filippine, venne ucciso dagli
indigeni. Il percorso fu comunque completato dall’equipaggio dell’unica
nave superstite. Il secondo viaggio sarà compiuto (1577/1580)
dall’inglese Francis Drake.
• 1524 – Gli spagnoli
di Francisco Pizarro giungono all’impero Inca (Perù), annientandone
in pochi anni società e cultura.
• 1526 – L’italiano Giovanni Caboto risale i fiumi Paranà, Uruguay e
Paraguay per conto
della Spagna.
• 1527 – Inizia la conquista spagnola della civiltà Maya (Messico
meridionale), tra le
più evolute dell’epoca precolombiana (scrittura geroglifica, calendario
o ‘Pietra del Sole’,
architettura monumentale e culto del Dio solare).
• 1530 – Pubblicazione postuma delle “Decadi del Nuovo Mondo” di Pietro
Martire di Anghiera (1459/1526), storia delle scoperte nel continente americano.
• 1535 – Stampa della
“Historia general del Nuovo Mondo” di Gonzalo Hernàndez de
Oviedo y Valdéz.
• 1535 – Fondazione di Lima, capitale del Perù, sede universitaria dal
1551, più volte
ricostruita in seguito a fenomeni tellurici.
• 1548 – Fondazione di La Paz, capitale della Bolivia, indipendente dal
1825, sede del
governo dal 1898.
• 1552 – Bartolomé de Las Casas scrive “Brevissima relazione della
distruzione delle
Indie”.
• 1558/1569 – Il frate B. Sahagun scrive dodici volumi sulla sua
esperienza tra gli Aztechi.
• 1565 – Gerolamo Benzoni edita a Venezia
“La historia del Mondo Nuovo”.
• 1589 – Stampa di "Historia natural y moral de las Indias" del
missionario gesuita Joseph
de Acosta, attivo in Perù e Messico per una decina d'anni (1570/1580).
• 1571 – Diego Fernandez de Palencia pubblica a Siviglia “Historia del
Perù”.
• 1572 – Stampa a Venezia della biografia colombiana scritta dal figlio
Fernando.
• 1609/1617 – In questo periodo Garcilaso de la Vega ('El Inca'), scrive
l'epica storia del
Perù: "Comentarios reales de los incas", in due volumi tradotti in
inglese nel 1688. Nato
a Cuzco nel 1539, era figlio di uno spagnolo e di una nobile Inca.
• 1721 – Il frate domenicano Ximenez pubblica “Historia del origen de
los Indios de
ésta provincia de Guatemala”.
• 1875 – Pubblicazione postuma di “Historia de las Indias” di Bartolomé
de Las Casas
scritta nel 1598.
• 1941 – Traduzione in inglese della "Relaciòn de la Cosas de Yucatan"
di Diego de
Landa (in italiano è stato pubblicata dalle Edizioni Paoline nel 1983.
• 1955 – Traduzione in francese: “Chilam Balam” di Chumayel.
• 1963 – Traduzione in inglese: “L’Historia verdadera de la conquista de
la nueva España”
scritta nel XVI sec. da Bernal Dìaz del Castillo, vissuto fino a 89
anni, uno dei
partecipanti all’avventura di Hernando Cortés.
_________________
PERSONAGGI
• Almagro Diego de (1475/1538) – Collaboratore di Pizarro, esplorò la
Bolivia e il Cile
alla vana ricerca di tesori. Tornato in Perù nel 1537, liberò Cuzco
assediata dagli Incas e
se ne impadronì in contrasto con Hernando Pizarro dal quale fu poi
battuto e ucciso.
• Almagro Diego de (junior, detto el mozo, 1520/1542) – A capo di un
gruppo di ribelli
fece assassinare Francisco Pizarro e assunse il titolo di capitano
generale del Perù ma, a
sua volta, fu sconfitto come il padre e decapitato.
• Alvarado Pedro de (1486/1541) – Collaboratore di Cortés nella
conquista del Messico
e fondatore del Guatemala. In Perù partecipò alla fondazione di Lima e
Quito. Morì durante
una spedizione punitiva contro gli indios.
• Balboa Vasco Nuñez de (1475/1517) – Nel 1513 con 190 spagnoli e 600
indios giunse
all’Oceano Pacifico denominandolo Mar der Sur. Fu governatore alle
dipendenze di Gil
Gonzalez de Avila che lo fece condannare a morte temendone le mire
ambiziose.
• Caboto Giovanni (1450/1498) nel 1497/1498 toccò per primo, con il
figlio Sebastiano,
le coste dell’America settentrionale al servizio di Enrico VII.
• Cabral Pedro Alvares nel 1500/1502 prende possesso del Brasile in nome
dei reali del
Portogallo.
• Cacicco – Titolo dei capi indigeni delle Antille e dell’America Centro
Meridionale
all’epoca dell’invasione spagnola. El Dorado (l’uomo dorato) era il
Cacicco che per
l’ascesa al trono si immergeva ricoperto di polvere d’oro in un laghetto
vicino
all’odierna capitale della Colombia, Bogotà.
• Cadamosto Alvise o Da Mosto (1432/1488) – Navigatore veneziano scoprì
con Usodimare
le isole di Capo Verde).
• Cieza de Leòn Pedro (Siviglia 1518/1560) – Per 17 anni visse in Perù
come soldato.
Scrisse tre libri nei quali raccolse la cronaca delle vicende storiche
che lì avvennero.
• Cook James (1728/1779) – Navigatore inglese che esplorò la Nuova
Zelanda, le coste
dell’Australia, le isole dell’Oceano Pacifico e superò il circolo polare
antartico; fu ucciso
dagli indigeni delle Hawaii.
• Cortés Hernàn (1485/1547) – Di nobile famiglia decaduta, nel 1504 si
imbarcò per il
Nuovo Mondo stabilendosi a Hispaniola (Santo Domingo). Dopo avere
partecipato alla
conquista di Cuba, guidò una spedizione sbarcando sulle coste messicane
dello Yucatàn.
Fondò la città di Vera Cruz e sottomise la repubblica di Tlaxcala,
divenuta poi sua alleata
contro la potenza degli odiati Aztechi. Giunto alla capitale
dell’impero, fece prigioniero
il re Montezuma costringendolo a dichiararsi vassallo del re di Spagna.
Nominato
da Carlo V nel 1522 governatore e capitano generale della Nuova Spagna,
favorì la
conversione forzata degli indigeni e lo sfruttamento coloniale
dell’intero paese. Scrisse
“Relazioni”.
• Diaz de Armendàriz Miguel – Giudice che nel 1549 fece riconoscere
Santa Fè come
capitale della Colombia, fondò città e tentò di arrivare alle coste
dell’Oceano Pacifico.
• Diaz Aux de Armendàriz Lope. Governatore di Quito (1571) e del Nuovo
Regno di
Granata (1578).
• Diaz del Castillo Bernal (1492/1581) – Avventuriero e cronista
spagnolo al seguito di
Cortés. Scrisse “Verdadera historia de los sucesos de la conquista de la
nueva España”
in contrapposizione all’apologia del biografo ufficiale di Cortés, Fr.
L. de Gòmara.
• Diaz de Solìs Juan – Navigatore del XV sec. che comandò una spedizione
scoprendo
l’estuario del fiume che più tardi Caboto battezzò ‘Rio de la Plata’.
• Diaz Venero de Leiva Andrés – Primo presidente della Nueva Granada dal
1564 al
1574, tentò di reprimere gli abusi sugli indiani, creò scuole, missioni,
opere pubbliche.
• Ferdinando II d’Aragona, detto il Cattolico (1452/1516) – Nel 1469
sposò Isabella di
Castiglia (1451/1504) riuscendo in seguito a riunire i due regni fino ad
allora divisi per contese di successione. Patrocinatori dell’impresa di
Cristoforo Colombo, favorirono
l’incremento dell’industria e del commercio ma intolleranti nel dogma
religioso: nel
1478 introdussero il Sant’Uffizio che torturò e condannò migliaia di
eretici; espulsero
dalla Spagna le etnie arabe ed ebree.
• Gama Vasco da – Nel 1497/1498 compì il primo periplo dell'Africa
raggiungendo
l’India (Malabar) e proclamandone la sovranità portoghese.
• Hurtado de Mendoza Andrés (1490/1561) – Stabilì a Lima la Corte e creò
l’amministrazione del vicereame – Garcìa (1535/1609): figlio di Andrés,
governatore
del Cile e poi viceré del Perù.
• Las Casas Bartolomé de (1474/1566) – Noto con il sopranome di
Apostolo, vescovo di
Chiapas in Messico; giunto nei nuovi territori come colono, diventò
sacerdote e si rese
conto dei metodi crudeli usati dai conquistadores verso gli indios per
costringerli a lavorare.
Tornato in Spagna, si recò dal successore di Ferdinando e Isabella
(Carlo V) implorandolo
di fare cessare la carneficina. Propose di importare africani, più
adatti – in
base alla sue convinzioni – ad essere impiegati nelle miniere e nelle
piantagioni. Le
buone intenzioni furono travisate in modo macroscopico dando inizio alla
tratta dei negri,
con le agghiaccianti sofferenze riportate dai documenti e dagli storici.
• Losada Diego de – Spagnolo che nel 1567 fondò la città Santiago de
Leòn de Caracas
(Venezuela) sul luogo di un villaggio di indiani Caracas, tribù
probabilmente caribica.
• Magellano Ferdinando (1480/1521) – Portoghese che nel 1519/1521 compie
la prima
circumnavigazione della terra al servizio della Spagna dimostrandone la
sfericità. Morì
nelle Filippine in uno scontro con gli indigeni; della sua impresa ne dà
un particolareggiato
resoconto Antonio Pigafetta.
• Mendoza Pedro de (1487/1537) – Governatore del Rio de la Plata, nel
1536 fondò il
primo insediamento di Buenos Aires. Gli fu compagno il fratello Diego,
morto in uno
scontro con gli indigeni.
• Montezuma II (1466/1520) – Imperatore Azteco che accolse gli spagnoli
credendoli
inviati delle divinità. Per la pavida sottomissione a Hernan Cortés, il
suo popolo si ribellò
nel giugno 1520 e Montezuma II rimase ucciso nella ‘noche triste’.
• Orellana Francisco de (1511/1546) – Nel 1544 scoprì il corso superiore
del Rio delle
Amazzoni e attraversando l’intero continente ne raggiunse le foci.
• Pigafetta Antonio – Vicentino che partecipò alla spedizione di
Magellano alle Molucche
(1519/1522); scrisse “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”.
• Pizarro (fratelli) Francisco – Partito alla conquista del Perù nel
1531, catturò
l’imperatore Inca Atahualpa e lo uccise dopo avergli estorto un favoloso
riscatto –
• Quesada Hernàn Pérez de – Conquistatore spagnolo che combatté
spietatamente gli
indiani. Nel 1541 inviò una spedizione in cerca dell’Eldorado. Esiliato,
morì in mare
mentre tornava in Patria.
• Ulloa Francisco de – Al seguito di Cortés, nel 1539 fu inviato ad
esplorare il Golfo
della California.
• Ursùa Pedro de (sec. XVI, ucciso in Amazzonia) – Avventuriero,
governatore di Bogotà
(dal 1991 Santa Fé de Bogotà, capitale della Colombia), fondò alcune
città ed intraprese
spedizioni alla ricerca del mitico Eldorado sottomettendo le tribù
locali. A Panamà
dal 1555 al 1557 soggiogò i ‘cimarrones’ (schiavi neri fuggiaschi. Nel
1558 seguì
nel Perù il viceré Hurtado de Mendoza.
• Usodimare Antoniotto (Antonio da Noli – Genova 1425/Capo Verde 1497) –
Navigatore
al servizio del Portogallo. Scoprì nel 1456 con A. Cadamosto le isole di
Capo Verde
diventandone governatore dal 1472 fino alla morte.
• Vaca Castro de (1492/1566) – Inviato nel 1540 da Carlo V nel Perù per
ristabilire
l’ordine turbato dalle diatribe tra Pizarro e Almagro. Giunto sul luogo
subito dopo l’uccisione di Francisco Pizarro, assunse il titolo di
governatore e di generale in capo;
sconfisse Almagro e lo fece giustiziare. Fu sostituito per la cattiva
gestione amministrativa
dal viceré Blasco Nuñez de Vela, a sua volta decapitato nel 1546.
• Valdivia Luis de – Missionario gesuita (1561/1642) inviato nel Perù e
nel Cile, cercò
di istruire e proteggere gli indigeni scrivendo catechismi a loro
dedicati.
• Valdivia Pedro de – Inviato da Francisco Pizarro ad esplorare il Cile
nel 1540, fondò
la città di Santiago. Diventato governatore, morì in uno scontro con gli
indigeni che aveva
sottomesso: “Ho combattuto per Sua maestà in Italia, ho partecipato alla
presa di
Milano, ho servito nelle Fiandre”.
• Velàzquez de Cuéllar (Segovia 1465/Cuba 1524) – Accompagnò Colombo nel
secondo
viaggio. Nominato governatore di Cuba, veniva dimesso dall’incarico per
poi essere
reintegrato.
• Verrazzano Giovanni da (1480/1528) – Nel 1524 per conto della Francia
esplora la
Baia di New York. Morì durante una seconda spedizione verso il Brasile.
• Vespucci Amerigo (Firenze 1454/Siviglia 1512) – Nel 1499/1501
raggiunge le coste
del Brasile e della Colombia. Al servizio del Portogallo esplora le
coste atlantiche meridionali
rendendosi conto per primo di calpestare un nuovo continente che dal
1507 sarà
battezzato America in suo onore.
_________________
FILMOGRAFIA
• Amistad (1997) di Steven Spielberg – Ricostruzione di un episodio
storico sullo schiavismo.
• Capitano di Castiglia (1947) di Henry King – Gentiluomo spagnolo del
XV secolo si
unisce a Hernàn Cortés nella spietata sottomissione del Messico.
• Conquistatore del Messico (1939) di William Dieterle – Massimiliano
d’Asburgo, imperatore
del Messico, contro la resistenza armata guidata da Benito Juarez
(1806/1872).
• Cristoforo Colombo (1949) di David Macdonald – Biografico.
• Cristoforo Colombo, la scoperta (1992) di John Glen – Biografico.
• Diari della motocicletta (2004) di Walter Salles – Viaggio in moto di
Che Guevara alla
scoperta dell’America Latina.
• Impero del sole (1956) – Documentario di Enrico Gras e Mario Craveri.
• Inferno verde (1940) di James Whale – Avventurieri alla ricerca di un
tesoro degli Incas.
• Lampi sul Messico (¡Que viva Mexico! - 1933) di Sergej Eizenstein –
Violento regime
feudale nel 1900. Film incompiuto con molte peripezie produttive per
l’autore russo.
• Magia verde (1953) documentario di Gian Gaspare Napolitano –
Spedizione attraverso
le terre vergini del Mato Grosso, le foreste amazzoniche del Brasile, le
zone andine del
Perù e Bolivia.
• Messicano (1970) di Felipe Cazals – Biografia di Emiliano Zapata che,
insieme a Pancho
Villa e Francisco Madero, capeggiò la rivolta dei peones contro la
dittatura di Porfirio
Diaz.
• Messico in fiamme (1981) di Sergei Bondarchuk – Biografia del
giornalista John Reed
e del suo reportage ‘Messico insorto’ a contatto con la leggenda vivente
di Pancho Villa.
• 1492 - La scoperta del Paradiso (1992) di Ridley Scott – Storia di
Colombo narrata
come il ritratto di un sognatore sconfitto.
• Mission (1986) di Roland Joffé – Nel 1750, un mercante di schiavi
convertito, diventa
gesuita e va in Sudamerica a dirigere una missione.
• Nel mar dei Caraibi (1945) di Franz Borzage – Pellegrini naufragi nei
Caraibi vengono
imprigionati dal governatore spagnolo Alvarado.
• Q - Il serpente alato (1982) di David Carradine – Compare su Manhattan
un serpente
alato che fa strage di abitanti indifesi. È Quetzalcoatl, il rettile
piumato adorato come
divinità dagli Aztechi.
• Re del sole (1963) di J. Lee Thompson – Una tribù Maya emigra dal
Messico al Texas
coalizzandosi con i locali pellerossa.
• Segreto degli Incas (1954) di Jerry Hopper – Una pietra indica il
luogo dove è nascosto
un tesoro Inca. Ricerca sulle Ande da parte di gruppi antagonisti.
• Sette città d’oro (1955) di Robert Webb – Nel 1769 una spedizione
spagnola parte da
Città del Messico per conquistare la California e cercare le leggendarie
‘sette città
d’oro’.
• Simon Bolivar (1969) di Alessandro Blasetti – Vita e imprese del
generale venezuelano
‘El Liberador’ (1783/1830) che guidò le guerre d’indipendenza di Perù e
Colombia
contro gli spagnoli.
• Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich – Rivoluzione popolare messicana
nel 1866 contro
l’imperatore Massimiliano d’Asburgo (1832/1867), fucilato dai
repubblicani di Benito
Juarez.
• Viva Villa! (1934)
di Jack Conway – Generale dei ‘ribelli’, Pancho Villa (1887/1923)
appoggia il presidente messicano Madera.
• Viva Zapata! (1952) di Elia Kazan – Città del Messico 1909. Vita del
rivoluzionario
messicano Emiliano Zapata (1879/1919) che combatté il dittatore Porfirio
Diaz per i diritti
dei peones.
giuliano.confalonieri@alice.it
BIBLIOGRAFIA:
NOTE:
_________________________
1
- (1877/1962). Scrittore tedesco, premio Nobel nel 1946. Gli avvenimenti
della prima guerra mondiale produssero in lui una violenta crisi,
accostandolo alla psicoanalisi e al pensiero religioso indiano (“Siddharta”).
2
- (1844/1900). Filosofo e scrittore tedesco. Dopo il primo manifestarsi
della pazzia a Torino nel 1899, vagò da una clinica all’altra fino alla
morte.
3
- Nato nel 1919 a Costantinopoli, morto suicida nel 1971. Oggi è
considerato uno degli scrittori più provocatori del XX secolo; i suoi
libri pubblicati in vita non ebbero successo (“Post mortem”).
4
- (1879/1953). Pseudonimo di Stahl (acciaio) Dzugasvlii. Iscritto
al seminario di Tiflis, ne fu espulso nel 1898 per avere fatto
propaganda rivoluzionaria. Esiliato in Siberia dal 1913 al 1917, ritornò
a Pietroburgo poco dopo lo scoppio della Rivoluzione. Commissario del
primo governo sovietico, diede un importante contributo come
organizzatore nella guerra civile. Fu eletto segretario generale del
Partito Comunista nel 1922.
5
- (1899/1953). Capo della polizia politica russa nel 1938. Alla morte di
Stalin fu accusato di alto tradimento e fucilato.
6
- (1889/1945). Uomo politico tedesco, conobbe a Vienna disoccupazione,
miseria e frustrazione dei suoi sogni artistici. Volontario in un
reggimento bavarese nel 1914, terminò la guerra con decorazione al
merito. Nel 1919 entrò nel Partito tedesco dei lavoratori, diventato poi
Partito Nazional-socialista tedesco del quale divenne capo nel 1921.
Organizzò il Putsch di Monaco per abbattere la Repubblica di Weimar.
Nominato Cancelliere nel 1933 si proclamò Capo (Führer) del Reich
instaurando la dittatura.
12
- (1564/1616). Prolifico drammaturgo inglese nel periodo in cui i teatri
erano numerosissimi, sia pubblici scoperti in cui si recita alla luce
del giorno sia privati dove la scena è fissa.
17
- Promotrici dei traffici a lunga distanza, attive fino al XIX secolo
quando cedettero i loro privilegi alle novità del mercato.
18
- Nella Bibbia è citata varie volte la divinità Molek, alla quale
venivano offerte vittime umane ed il cui culto fu combattuto dai
Profeti. Nella religione cananea, il sacrificio rituale di bambini era
praticato dai Fenici dal I millennio a.C.
21
- Orazio Flacco Quinto (65/8 a.C.). Poeta latino educato a Roma ed
Atene. Equilibrio etico tra capacità di rinuncia e piaceri immediati
dell’attimo fuggente (‘carpe diem’).
27
- Religione nazionale del Giappone. I due maggiori testi (sec. VIII d.C)
menzionano numerose divinità (Kami) primordiali ma anche forze della
natura, eroi, defunti. È una religione rituale, priva di istanze etiche,
spesso praticata insieme al buddismo.
30
- In lingua spagnola “paese dorato”, regione favolosa ricchissima d’oro
inutilmente ricercata nel Sudamerica dal XVI al XVIII secolo.
39
- Gli Zulù, la popolazione africana del gruppo Bantù, costituitasi in
nazione sotto Chaca (1787/1828) subirono la medesima sorte da parte
delle truppe inglesi. La guerra coloniale iniziata nel 1879 fronteggiò
immense folle di indigeni armati di zagaglie a militari addestrati ma
decisamente numericamente inferiori.
41
- Da questa e da altre fonti, il regista tedesco Werner Herzog trasse
nel 1972 il film “Aguirre, furore di Dio” con l’interpretazione
nevrotica e veristica dell’attore Klaus Kinski (1926/1991).
42
- (1474/1566) Missionario domenicano che denunciò la brutalità dei
coloni spagnoli verso gli indios nei Caraibi. Scrisse: “Brevissima
relazione della distruzione delle Indie” e “Storia delle Indie”.
43
- In questo suo libro raccolse numerosi testi antichi, dai quali rilevò
qualche premonizione della terra che avrebbe scoperto: un passaggio
della Medea, la tragedia in cui il filosofo latino Lucio Anneo Seneca
(ca. a.C. / ca. 65 d.C.), prediceva che in futuro un nuovo mondo si
sarebbe rivelato oltre l’Oceano. Seneca, oratore brillante, esiliato
otto anni in Corsica per un processo, precettore di Nerone, non
riuscendo a contenere la politica sempre più dispotica dell’imperatore,
si ritirò per scrivere le sue opere. Condannato a morte in seguito ad
una congiura, si uccise tagliandosi le vene.
46
- Sembra che Colombo abbia aggiornato due versioni: uno con i dati
veritieri per sua memoria e un altro con distanze percorse diminuite per
non scoraggiare l’equipaggio se il viaggio si fosse protratto
eccessivamente.
51
- “Colombo superò nell’arte della navigazione tutti i contemporanei”
(Las Casas). Un compagno genovese commentò: “Solo a vedere una nuvola o
una stella di notte, giudicava quello che doveva seguire e se doveva
essere mal tempo”.
59
- “Nel febbraio 1477 navigai cento miglia oltre l’isola di Thule”
(anticamente considerata il
62
- (1455/1495). Re dal 1481, promosse importanti esplorazioni tra le
quali quella lungo le coste africane comandata da Bartolomeo Diaz.
65
- Dall’arabo ‘sid’ (signore) e dal tardo latino ‘campeductor’
(guerriero), soprannome di Rodrigo Dìaz de Vivar (1043/1099), cavaliere
castigliano, eroe nazionale spagnolo che tolse Valenza ai Mori.
69
- Traversate oceaniche di Colombo: 1ª nel 1492, 2ª nel 1493, 3ª nel
1498, 4ª nel 1502.
70
- Griffith David Wark (1875/1948). Regista e produttore statunitense.
Autore del film "Nascita di una Nazione" (1915).
71
- Romanzo dell’inglese Daniel Defoe (1660/1731) nel quale si racconta la
vera storia di un marinaio abbandonato su un’isola per 28 anni.
72
- Sede universitaria dal 1346. Due piazze della città conservano i
monumenti dedicati a Colombo e Cervantes, l’autore di Don Chisciotte
della Mancia. Traversate atlantiche di Colombo: dal 1492 al 1493 – dal
1493 al 1496 – 1498 – dal 1502 al 1504.
74
- Attualmente il Cristianesimo è professato da quasi tutti i messicani;
all’epoca di Cortés molti degli antichi templi furono spogliati dai
simboli degli dèi sostituendoli con la Croce e immagini dei Santi. Fu un
drastico cambiamento – introdotto a forza dai preti spagnoli al seguito
dei conquistadores – che colpì i fedeli ma soprattutto la classe
sacerdotale con il relativo potere.
76
- Termine russo (distruzione) con il quale si indicano massacri e
saccheggi contro le minoranze ebraiche.
78
- Montezuma I detto ‘il collerico’ era suo nonno. Bernal Diaz scrisse
“Verdadera historia de los sucesos de la conquista de la nueva España”.
79
- Fondata intorno al 100 d.C. non è una città azteca ma piuttosto
appartiene alla civiltà Maya, assai più antica della prima. I Toltechi
introdussero scrittura, l’astronomia e le prime leggi sociali.
81
- I laghi messicani, costituiscono un unico sistema idraulico continuo.
La maggior parte era salina tranne che nei due bacini più meridionali;
il sistema delle dighe e delle strade fu sviluppato in seguito
all’insediamento azteco.
82
- Tlascaltèchi: tribù del Messico centrale, probabilmente insediati nel
territorio prima dell’arrivo degli aztechi ai quali opposero una lunga e
tenace resistenza; dopo avere osteggiato l’arrivo degli stranieri
europei, divennero loro alleati con migliaia di guerrieri contro il
nemico comune quando videro la potenza delle armi da fuoco a fronte di
fionde, lance, frecce. Preziosa per l’ambasceria tra i due gruppi si
rivelò l’interprete india e amante di Cortés, la formidabile Marina che
si era guadagnata l’ammirazione generale del campo per la forza e la
serenità dimostrate sia nel tentare di mitigare le sofferenze dei
compatrioti sia nel rincuorare i cristiani nelle situazioni più
difficili.
83
- Seguì Colombo nel secondo viaggio verso le Americhe. Nominato
governatore organizzò alcune spedizioni nello Yucatan e nel Golfo del
Messico. Gli attriti con l’insubordinato Cortéz, che rifiutava di
ritornare a Cuba, furono motivo di reciproci risentimenti.
84
- Ricco, illustre, nome di re e nobili Incas. Manco Capac I fu il
fondatore dell’impero incaico peruviano; ritenuto ‘figlio del sole’,
uccise i tre fratelli maggiori e si stabilì a Cuzco iniziando la
coesione di tribù autoctone. Manco Capac II (1513/1544) fu riconosciuto
Re da Pizarro, un potere apparente perché dominato dagli spagnoli.
89
- Per sopravvivere alle fatiche quotidiane ed alle alte quote della
Cordigliera, venne introdotto l’uso delle foglie di coca, molte le
coltivazioni in Perù, impastate fino a formare palline che gli indios
succhiavano come caramelle.
90
- Stato dell’America Centrale tra Costa Rica, Colombia, Oceano Atlantico
e Oceano Pacifico, collegati dall’omonimo Canale lungo 81,6 km. e largo
da 90 a 300 mt. Aperto nel 1914, dal 2007 è sottoposto a lavori di
ampliamento, la cui conclusione è prevista per il 2014. Fautore di
questa importante opera e del Canale di Suez fu il francese visconte di
Lesseps F.M. (1805/1894).
91
- Sistema montuoso lungo 7500 km, largo tra 150 e 650 km., con 25 vette
che superano i 6000 metri.
93
- La garrota è uno strumento cinto al collo del condannato: lo fa morire
stringendo il cappio con un bastone. Usato in Spagna dal 1882 al 1976.
95
- Lima, Città dei Re, sede universitaria dal 1551. Fondata nel 1535 da
Francisco Pizarro, danneggiata
97
- Una tra le più antiche città costruita nel 1528 in stile europeo è San
Cristobal de la Casas (2000 mt. slm) dedicata al vescovo che, per primo,
difese i nativi dalle prepotenze dei conquistadores.
99
- Carlo V (1500/1558) – Figlio di Filippo d’Asburgo Arciduca d’Austria,
e di Giovanna la pazza, regina di Castiglia, grazie all’abile politica
matrimoniale del nonno paterno, l’Imperatore Massimiliano I, riumì sotto
la sua autorità un immenso impero: le Fiandre, la Franca Contea, gli
stati ereditari asburghici, i regni di Castiglia e d’Aragona con le
colonie americane, di Napoli e di Sicilia. Alla morte di Massimiliano I
ottenne dalla dieta di Francoforte il titolo di Imperatore (1519), cui
aspirava anche Francesco I di Francia. Domata in Spagna la rivolta dei
Comuneros fu a più riprese impegnato in un conflitto con la Francia per
l’egemonia in Europa. Dopo avere sconfitto e fatto prigioniero Francesco
I, che fu costretto al trattato di Madrid, si scontrò con la lega di
Cognac (Francia, Firenze, Venezia e Stato della Chiesa). Il conflitto,
che vide Roma saccheggiata, Carlo V terminò vittoriosamente con la pace
di Cambrai. Incoronato Re e Imperatore (1530) da Papa Clemente VII. A
Francesco I veniva riconosciuta la Borgogna; cercò poi di sfruttare le
difficoltà provocate all’Imperatore dalla minaccia turca e dai principi
protestanti tedeschi. Una nuova fase della guerra si concluse nel 1544
con la rinuncia francese al ducato di Milano. Dopo altre contese, Carlo
V abdicò in favore del figlio Filippo II, lasciando infine la dignità
imperiale sugli stati tedeschi in favore del fratello Ferdinando. Il suo
rapporto con i conquistadores fu spesso ambiguo e influenzato sia
dalle manovre di Corte sia dall’estensione dei territori da governare –
Filippo II detto il ‘re prudente’ (1527/1598). Primogenito di Carlo V e
di Isabella di Portogallo, già Duca di Milano (1540), reggente di
Castiglia e Aragona e Re di Napoli, in seguito all’abdicazione del padre
(1556) ereditò tutti i suoi domini ampliandoli ulteriormente con una
serie di acquisizioni.
101
- Nel 1821 il Perù proclamò la propria indipendenza diventando
repubblica. Nel 1879 la nazione fu nuovamente agitata dalla ‘guerra del
Pacifico’ che coinvolse Bolivia e Cile. I successivi tentativi di
democratizzazione furono disturbati da governi militari e dal gruppo
terroristico maoista ‘Sendero Luminoso’ fino all’attuale
difficile situazione socio-economica.
102
- Antico supplizio: quattro cavalli legati ai quattro arti della vittima
venivano spronati in direzione opposta.
104
- Sintesi della storia degli orologi: 1200/movimento meccanico –
1400/analogici portatili – 1650/a pendolo – 1670/ad àncora –
1760/cronometro marino – 1840/elettrico – 1929/digitale al quarzo – dal
1950 atomico e al cesio.
105
- Capitale dello Yucatan, centro di partenza per visitare le vestigia
Maya della penisola.
107
- Gli scienziati sono scettici perché ritengono che il 2012 sia
semplicemente la conclusione di un calendario periodico e quindi
l’inizio di un ulteriore conteggio del tempo. Ciononostante, il rapido
deterioramento della Terra in questi ultimi decenni, potrebbe essere il
preludio di un cataclisma senza possibilità di ritorno alla normalità.
Il nostro piccolo mondo potrebbe essere coinvolto dalla costante
espansione dello spazio siderale.
110
- La stele è stata ritrovata nel 1799 da soldati francesi al seguito
della spedizione napoleonica in Egitto. Oggi è conservata al British
Museum, Rosetta è una città sul braccio occidentale del Nilo.
113
- Ciò gli permise di confrontare i testi in suo possesso con i
geroglifici riportati sui calendari Maya e una parte della lingua fu
infine decifrata. Le prime fotografie dei siti messicani furono riprese
al tempo di Napoleone III (1852/1870).
115
- Purtroppo il boom petrolifero degli anni Settanta (XX sec.) e le
piogge acide delle industrie danneggiano in modo irreparabile l’intero
ambiente senza apportare un significativo benessere alle povere
popolazioni, già vessate dalla corruzione politica.
116
- Nel XX secolo furono scoperti in Irak manufatti in terracotta –
ritenuti vecchi di 2000 anni – con all’interno barre di rame coperte
d’asfalto; fu introdotto solfato di rame facendo così iniziare il
processo che produce l’energia elettrica.
118
- Orfana di un ricco cacicco, venduta come schiava dalla matrigna. Nella
disavventura imparò oltre al dialetto locale anche la lingua maya: il
necessario compito di interprete avveniva tra lei e un ufficiale
spagnolo che conosceva il maya, così l’azteco diventava castigliano
permettendo a Cortéz di sapere e quindi comandare meglio. Malinche –
donna intelligente ed affascinante – tentò di salvaguardare le esigenze
del suo popolo con quelle dell’amante.
121
- (Ginevra 1712/1778). Letterato e filosofo, polemico contro le
istituzioni del suo tempo, contrappose
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