COLLEZIONI E MUSEI: A SPASSO NELLA STORIA
Simona Fuscà
I. Dal principio all’antica Roma Questo breve excursus mira fondamentalmente a mettere in evidenza il rapporto che ha legato e che continua a legare gli uomini agli oggetti a prima vista inutili: “Cose” che non sembrerebbero avere immediato scopo pratico. Nel lasso di tempo compreso fra 40000 e 60000 anni fa, in Francia (Arcy-sur-Cure), è possibile fissare un terminus a quo e trovare così le prime labili tracce di un’attività collezionistica. Questo particolare atteggiamento nei confronti degli oggetti si evolve nel tempo e viaggia nella storia insieme all’uomo. Possiamo trovarne testimonianza, ad esempio, nelle raccolte di oggetti preziosi e d’arte che si formano nei santuari, nelle tombe e nelle dimore dei capi e dei sovrani. Leggendo il testo Storia dell’arte Greca di Antonio Giuliano e, più specificatamente, il capitolo dedicato all’Età classica (2005, pp. 201-335), si noti come nei santuari greci affluissero voti da ogni città ellenica e da ogni punto del Mediterraneo. Essi erano conservati per lo più in appositi edifici chiamati θησαυροί (thesaurói), alcuni dei quali giunti fino a noi come il thesauros dei Sicioni, dei Sifni, o quello degli Ateniesi. Alternativamente, sempre nella Grecia antica del VI, V e IV secolo a.C., è possibile trovare grandi quantitativi di oggetti preziosi nei templi, ovvero nella parte posteriore – o adyton – in cui spesso erano conservati i tesori appartenenti al dio titolare dell’edificio di culto. Ancora Giuliano (ibidem) mostra come i pellegrini arrivino anche da lontano per ammirare gli oggetti preziosi dei templi più ricchi e sontuosi: molte fonti ce lo confermano, primo fra tutti, Pausania. Conclude la sua opera a metà del II secolo d.C. e scrive un testo che rientra nel genere della periegetica: dà informazioni su opere d’arte, soprattutto molto antiche, ed in generale su ciò che è meritevole di essere visto. In ogni caso salta subito all’occhio il fatto che, proprio come nel caso dei beni culturali odierni, gli oggetti del tesoro dei templi non potevano assolutamente rientrare (tranne in casi estremi) nel circuito delle attività economiche e, per questo motivo, spesso erano rotti e resi inutilizzabili. È importante altresì sottolineare, ricorrendo ancora una volta a Giuliano (ibidem), un altro elemento in comune e cioè le pressioni politiche esercitate sul tesoro dei templi più importanti: basti ricordare le continue manovre politiche da parte degli Ateniesi per il controllo del tesoro di Delfi. Atene riesce ad assumerne il patronato in corrispondenza del suo massimo splendore: il periodo denominato Età classica (480 a.C. – 323 a.C.). Chi possiede il tesoro si assicura ricchezza ed autorità, è questo un elemento a cui prestare particolare attenzione. Lo stesso meccanismo avviene oggi ed avverrà in futuro: maggiore è la preziosità e il prestigio della collezione o dei beni culturali posseduti, quanto più tale prestigio, come in uno specchio, si rifletterà sul proprietario dei beni. Tuttavia una differenza può essere evidenziata: nel caso dei tesori contenuti nei templi, la preziosità risiede, oltre che nell’alta qualità di esecuzione dell’oggetto, proprio nel tipo di materiale utilizzato. Col tempo però tale caratteristica non è più fondamentale perché quell’oggetto entri a far parte nel novero degli oggetti da collezione, nella rassegna cioè, utilizzando un termine moderno, dei beni culturali. La storia dell’arte contemporanea non è avara di esempi, basti fare i nomi di Duchamp, Burri e così via. Ad ogni modo, ritornando a occuparsi delle collezioni e dei musei nel corso della storia, si ribadisce che la natura delle sopraccitate raccolte votive esclude un loro interesse specificatamente ed esclusivamente estetico. Ancor di più ciò vale per i tesori funerari; in passato si tentava di proteggere in tutti i modi le tombe dai saccheggi: si nasconde il luogo della sepoltura, si creano labirinti, si lanciano terribili maledizioni sui profanatori; eppure gli oggetti sepolti insieme al defunto sono fatti per essere guardati. Ma da chi? Non certo dagli uomini; lo spettatore, anzi gli spettatori in questo caso erano quelle stesse divinità nonché quegli stessi defunti che popolavano il mondo dell’aldilà. Spostandosi nell’antica Roma si nota certamente come l’amore per gli oggetti senza un’immediata funzione pratica non sia assolutamente un tratto tipico della cultura della nascente civiltà romana.
Uomini duri, violenti e tenaci, abituati alla fatica e al comando assoluto nella cerchia familiare, [...] tutti volti al pratico e all’immediato interesse, al vantaggio da raggiungere con lo sforzo personale [...]. Ma anche con l’astuzia, unica Musa. Una mentalità dominata da un senso oscuro di incombenza di forze inafferrabili, che li spinge non tanto a una religiosità di rivelazione e fiducia, quanto a una superstizione diffidente [...]. A una società di uomini siffatti, è logico che tutto dovesse sembrare superfluo e anche un poco incomprensibile, quello che non recasse un’utilità immediata e pratica. “Greci pazzi” si legge in scrittori romani quando si tratta di questioni artistiche o filosofiche [...]. Ci vorranno diverse generazioni, prima che un’assicurata potenza e una grande ricchezza ammassata renda consapevoli i Romani che non si può far parte del mondo civile senza mostrarsi intenditori e amatori d’arte (Bianchi Bandinelli, 2004, pp. 23-24).
Decisiva, per il contatto di Roma con l’arte, è la presa e il saccheggio di Siracusa nel 212 a.C. Sappiamo infatti da Plutarco (Marcello, 21) che il generale Marcello porta via da questa città molte splendide opere e che, prima d’allora, Roma non aveva mai conosciuto artefatti simili. Alcuni romani rimproverano addirittura Marcello per questo gesto, poiché gli oggetti d’arte portavano il popolo a discutere tutto il giorno di questioni artistiche. Dopo il 146 a.C., anno in cui Scipione Emiliano conquista definitivamente Cartagine e Lucio Mummio la Grecia continentale compresa Atene, un vero e proprio “fiume” di opere d’arte inonda Roma. Via via quest’ultima si rende sempre più conto che l’arte è fondamentale – tanto allora quanto oggi – per propagandare ed affermare nel mondo il proprio potere. L’imperatore Augusto, come possiamo confermare osservando le opere create sotto il suo impero (31 a.C. – 14 d.C.), ne era profondamente convinto.
II. Dal Medioevo alle Signorie d’Italia È, a questo punto, il momento di indagare la situazione nel Medioevo. Le collezioni in questo periodo sono, per la stragrande maggioranza dei casi, inscindibilmente legate alla Chiesa cattolica. Il contenuto di esse corrisponde per lo più a reliquie ed oggetti sacri.
Basti ricordare che era considerata reliquia ogni oggetto che si riteneva avesse avuto un contatto con un personaggio della storia sacra, in primo luogo una parte del suo corpo. Per quanto infimo fosse quest’oggetto e qualunque ne fosse la natura, esso conteneva tuttavia l’intera grazia di cui il santo era rivestito mentre era in vita [...]. Per fondare un ente religioso occorreva dotarlo non solo di terre ma anche di reliquie. [...] Chiuse nei reliquiari, venivano esposte ai fedeli durante le cerimonie religiose (Pomian, 2007, p. 26).
A Venezia troviamo un caso eclatante per quanto riguarda, appunto, il traffico di questi singolari oggetti. Qui la presenza di reliquie è creata artificialmente: nell’828-829 il doge fa trafugare da Alessandria il corpo di San Marco (come Tintoretto attesta con i suoi dipinti). Conseguentemente a questa vicenda la città, sfruttando il suo talento nel commerciare, provvede all’accaparramento – legale e non – di reliquie da tutto il mondo; proprio con esse, prime fra tutte quelle di S. Marco, Venezia si identifica. I motivi che fondano questa operazione sono politici. La Serenissima, infatti, non è dotata di un sovrano e, si tenga a mente, nel Medioevo quest’ultimo non aveva una valenza mortale bensì una derivazione divina. La città ha dunque necessità di acquisire una giustificazione non terrena del potere che detiene e la trova proprio nelle reliquie dell’Evangelista. Con l’identificazione di Venezia nelle reliquie conservate nel tesoro di San Marco (custodito nell’omonima basilica), a partire dal nono secolo, si crea anche qui una commistione tra stato e sacro tipico del Medioevo. L’accesso al tesoro inizialmente è ristretto e riservato ai sovrani in visita, essi rimangono stupiti dinnanzi a tanto splendore: la ricchezza del tesoro è un indicatore della potenza dello stato. Solo parte di esso è mostrato al pubblico veneziano ed unicamente in concomitanza con le feste più importanti dell’anno. In età Medievale, oltre alle reliquie, troviamo una gran quantità di oggetti sacri come pissidi, pianete, calici, offerte di ringraziamento, tombe riccamente decorate. Tutto ciò rendeva le chiese una sorta di “museo del sacro”. Solo con il mondo gotico l’urbanesimo e lo sviluppo del commercio fanno sì che l’arte torni ad essere ornamento della vita, nasce un gusto profano, un nuovo interesse per la vita mondana. Le opere possono finalmente essere apprezzate esclusivamente per la loro bellezza. Tra gli esempi di tutto ciò ricordiamo la collezione del duca di Berry (Les très riches heures de Jean de Berry – Chantilly, Musée Condé). Tappa obbligata per questo viaggio nei secoli rappresenta la seconda metà del XIV secolo e la collezione di Francesco Petrarca. In effetti, egli si inserisce perfettamente nella temperie culturale tipica dell’umanesimo. Il collezionismo si rigenera profondamente. Come alle humanae litterae si attribuisce un valore formativo per l’uomo, così si riconosce lo stesso valore alle opere d’arte antica. Il mondo classico è oggetto di estrema e rinnovata attenzione. Per quanto riguarda Petrarca, molti sono a conoscenza dei suoi componimenti poetici e del suo infinito amore per Laura, decisamente minore però è il numero di coloro che lo riconoscono come colui che delinea, a partire dalla seconda metà del trecento, l’ambito culturale in cui ci si muove per i prossimi sei, sette secoli. Egli è uno dei primi fondatori della filologia e studia inoltre con forte rigore e rinnovata razionalità l’antichità classica. Non a caso, come attesta anche Salerno (1972, pp.738-772), Petrarca è collezionista di monete romane d’età imperiale su cui sono riconoscibili le raffigurazioni delle teste degli Imperatori dell’Urbe. Ebbene, possedere quelle monete comincia da questo momento a significare possedere l’antico e le virtù stesse incarnate in quegli oggetti. Essere proprietario dell’antico equivale ora a rendersi direttamente partecipi del valore morale e politico dell’antichità. Con Petrarca collezionare è sinonimo di gusto preciso, conoscenza e dignità. Non trascurabile è il fatto che egli è autore del testo De viris illustribus (“Gli uomini illustri”, una rassegna degli uomini illustri dell’antichità e delle loro virtù). Le persone descritte in quest’opera diventano modelli di virtù etica e politica a cui prima di tutto gli uomini al potere – ovvero gli uomini illustri contemporanei a Petrarca – sono invitati ad ispirarsi. Successivamente, le Signorie italiane non esiteranno ad accettare tale invito ed ecco che presso le corti italiane raccogliere antichità diviene un obbligo.
In ogni corte nascono i guardaroba, i camerini, gli studioli: ambienti adatti all’attività intellettuale del nobile, che faceva decorare le sale con serie di imperatori, uomini illustri, virtù, stagioni, mirando ad una organicità iconografica memore delle enciclopedie figurate gotiche. Come nel mondo antico, la collezione principesca, anche se formata da una persona, entrava a far parte dei beni dinastici da conservare, che più davano lustro alla casa regnante e alla nazione. Inoltre, a favorire tale attività era la convinzione che la conoscenza dell’arte antica promuovesse quella moderna, la quale, in quanto attività produttiva, era un fattore economico rilevante nella vita dello Stato. Basti citare, fra le più tipiche collezioni rinascimentali, quelle dei Gonzaga a Mantova, dei Montefeltro ad Urbino, degli Este a Ferrara, dei Visconti a Milano ecc. (Salerno, 1972, pp. 741-742).
III. Il XVI ed il XVII secolo Come risulta evidente dalla lettura del testo di Salerno (ibidem), dal XVI secolo in poi qualcosa di nuovo s’intravede all’orizzonte: gli artisti rivendicano e monopolizzano sempre più la loro funzione di esperti e critici, riescono a liberarsi della loro condizione di inferiorità valorizzando il loro “essere geni”, l’idea trionfa sulla manualità. Non a caso Vasari scrive in questo periodo le sue Vite. Se prima del Cinquecento esisteva un sistema di valori per cui le opere d’arte salivano di prezzo in base alla preziosità dei materiali impiegati, d’ora in poi la qualità delle opere non è più misurabile e può benissimo tendere ad infinito: l’arte non è misurabile. Dal momento che si pone l’accento sul genio, sulla qualità artistica, non è importante utilizzare materiali particolarmente costosi, così la tecnica dell’olio su tela si diffonde senza freni. Un lampante esempio di quanto è stato detto è da riscontrare leggendo una qualsiasi biografia di Caravaggio. Ad inizio carriera è estremamente indigente e solo grazie all’aiuto del Cardinal del Monte la sua fama decolla. In ogni caso, nel XVI secolo continua ancora un tipo di collezionismo eclettico ed erudito, animato dalla curiosità per il meraviglioso, il raro, il prezioso. La finalità più diffusa della collezione cinquecentesca è la sintesi di due universi: il macrocosmo animale, vegetale e minerale e il microcosmo umano.
Che l’attrazione per il meraviglioso fosse alla base di queste collezioni è dimostrato dal nome di Wunderkammer che in Germania si usò per la collezione che, naturale sviluppo del tesoro principesco, comprendeva ogni aspetto della curiosità cosmica, animali imbalsamati o sotto spirito, strumenti scientifici [...] e i primi esemplari etnologici, risultati delle recenti grandi scoperte geografiche. Ogni oggetto era considerato interessante per ciò che insegnava piuttosto che per la sua bellezza (Salerno, 1972, p. 743).
Come si è detto dunque, macrocosmo e microcosmo, si parla tantissimo anche di naturalia ed artificialia. In una parola sola: il mondo. Si tenta di far sì che le collezioni siano uno specchio rimpicciolito del mondo, sunti dell’intero universo. Carlo V possedeva raccolte del genere così come altri regnanti: ancora una volta, siamo di fronte a degli oggetti apparentemente inutili e, in questo caso, anche rari e bizzarri; ma in realtà il loro scopo è ben evidente: degli universi sintetizzati, miniaturizzati, fittizi, che dimostrano la potenza di chi, in realtà, domina proprio su un angolo di universo reale, in carne ed ossa se così si può dire. Nel XVII secolo assistiamo a un fenomeno molto significativo (ibidem): l’ascesa del nuovo ceto borghese e la formazione dell’amatore-collezionista, il quale acquista non solo per aumentare il proprio prestigio, ma anche per gusto e per diletto esprimendo così un implicito giudizio critico. Proprio in corrispondenza della nascita di una nuova classe sociale, in campo artistico fiorisce quella pittura denominata “di genere”, si sviluppano le mostre-mercato e le botteghe dei rivenditori. La borghesia ha bisogno di imporsi sulla scena sociale e legittimarsi anche e soprattutto attraverso lo strumento delle collezioni o, più in generale, di singoli dipinti. È evidente che, per compiere ciò, essa non può rifarsi al modello delle collezioni di corte e, per questo motivo, le crea autonomamente. Il nascente collezionismo borghese è evidente soprattutto in Olanda. Essa, dopo la conversione al protestantesimo e l’indipendenza dal Belgio, assiste all’inarrestabile ascesa della borghesia che impone i propri gusti e sollecita la produzione di nuove opere in cui potersi rispecchiare: nature morte, paesaggi e soggetti piacevoli. Basti ricordare le opere di Jan Vermeer e il grande successo che riscossero.
IV. Il XVIII secolo IV.1. La crescita dell’interesse archeologico Nel secolo XVIII, mentre la borghesia prende definitivamente il sopravvento come classe sociale dominante rispetto all’aristocrazia in declino, si affermano due diversi tipi di collezionisti d’arte: i curiosi, che seguono e al tempo stesso determinano una nuova moda sollecitando così un’arte di società, e i filosofi che mirano alla specializzazione (ibidem). L’attività di collezionisti inglesi in Europa e specialmente in Italia è notevole in questo periodo. Molto marcato l’interesse per l’archeologia.
Sir William Hamilton a Napoli formava una collezione insuperabile di vasi greci, poi ceduti al British Museum […]. Charles Townley (a Roma dal 1765 al 1772) creò una collezione, acquistata poi anch’essa dal British Museum (Salerno, 1972, p. 749).
Poco dopo, alla fine del Settecento, l’antico programma riguardante il trapianto dell’antica Grecia in Inghilterra fu ripreso, è il caso di dirlo, alla lettera da Lord Elgin. Nominato ambasciatore inglese presso il Sultano di Costantinopoli, intraprese un viaggio appunto in Grecia allo scopo di acquisire opere d’arte per il proprio governo. L’esito della spedizione è noto a tutti, tanto che le sculture portate via dall’Acropoli e approdate in terra inglese sono ancora oggi conosciute come “marmi di Elgin”. Ciò conduce a una duplice riflessione. Non solo qui una cultura per molti aspetti distante da quella mediterranea tenta di rivestirsi, con un gesto eclatante, di quei gloriosi valori insiti nei marmi greci (operazione culturale proposta già da Petrarca con le medaglie antiche). Questo avvenimento suscita anche una spinosa polemica che ben presto si espande a macchia d’olio in Europa e anche oltre: ci si riferisce alla questione della restituzione delle opere d’arte. Chi ha veramente la facoltà di avanzare il diritto di proprietà su opere ritenute ormai patrimonio dell’umanità?
IV.2. Un momento focale Fino al XVIII secolo ogni collezione è a carattere privato. Tale situazione comporta due palesi conseguenze: non solo il proprietario, anzi, i proprietari che si succedono nel corso degli anni, sono liberi di accordare la possibilità di visionare le raccolte esclusivamente ad artisti, studiosi e visitatori prestigiosi, ma possiedono anche la piena facoltà di alienare in qualsiasi momento gli oggetti della collezione. Per questo non è difficile imbattersi in testamenti in cui si stabilisce tassativamente l’indivisibilità delle raccolte lasciate in eredità. Nel Settecento, mentre tale atteggiamento si accentua, i nuovi ceti borghesi rivendicano sempre di più il loro diritto di accedere a tutti gli strumenti della cultura e, dunque, anche alle collezioni. Aumentano le accademie nonché i lasciti di raccolte d’arte a vari enti culturali (ibidem). Nel 1737 la granduchessa di Toscana Anna Maria Ludovica lega le collezioni medicee allo Stato.
Nel 1753 nasce il British Museum. Ma è necessario attendere la rivoluzione francese affinché si veda emergere in pieno il principio sociale di togliere ai privati per restituire al popolo ciò che è suo di diritto. Nel 1793, infatti, con la nazionalizzazione dei beni della corona, il Museo del Louvre fu aperto al mondo e proclamato “Museo della Repubblica”. Dopo la soppressione di numerosissime chiese e il conseguente sequestro di opere medievali in esse contenute, si assiste alla creazione del Musée des Monuments Français. Finito il periodo rivoluzionario e la stagione napoleonica, non passò certo in secondo piano il valore politico che, dopo la sconfitta definitiva della Francia, avrebbe avuto la restituzione delle opere ai paesi d’origine, evidente simbolo di liberazione europea.
V. Il XIX ed il XX secolo: la grande macchina dei musei pubblici inizia a mettersi in moto Nel 1815 i vari governi inviano i propri rappresentanti a Parigi per riavere indietro il maltolto. Successivamente alla restaurazione, in tutti gli Stati d’Europa le raccolte acquistano carattere pubblico e, poco alla volta, tutti i sovrani ed i principi decidono di donare allo Stato le proprie collezioni. Esattamente il XIX secolo inaugura la stagione dell’apertura dei musei pubblici. Luigi Salerno (1972, pp. 752-753) elenca brevemente i principali:
Nel 1797 Federico Guglielmo III dichiarò di proprietà pubblica le sue collezioni, costituendo quello che sarà il Kaiser Friedrich Museum di Berlino. Nel 1824 George Beaumont offriva la sua collezione allo Stato; nacque così la National Gallery di Londra […]. Nel 1841 una commissione del parlamento britannico raccomandava la formazione e lo sviluppo di collezioni pubbliche nel paese, sia per il prestigio della nazione, sia per l’educazione del pubblico […]. Nel 1846 fu fondato a Londra il Victoria and Albert Museum che si arricchì con molti acquisti fatti in occasione della Esposizione Universale del 1851. Scopo del museo era quello di favorire l’artigianato moderno.
Solo dopo alcuni decenni si assiste alla formazione dei musei americani, come la National Gallery di Washington fondata nel 1937. È proprio con la descrizione dell’entrata in scena dell’America che si intende concludere tale excursus. A partire dai primi anni del Novecento i magnati dell’industria, ovvero i “principi” e i “sovrani” del mondo moderno, iniziano imponenti collezioni da donare al loro paese. Che tipo di guadagno vi è in tutto ciò? Innanzitutto, affermare la propria personalità, ma anche la possibilità di evitare alcune tasse e di acquistare all’America un patrimonio di storia e di cultura. L’arte antica ha spesso riscosso grande successo nel nuovo continente. I Rockfeller, i Mellon, i Frick e molti altri furono fra i maggiori collezionisti di questo genere di oggetti. Parallelamente alle raccolte di arte antica si è anche sviluppato il settore dell’arte etnologica, apprezzata non solo dal punto di vista scientifico ma anche da quello estetico ed entrato gradualmente a pieno titolo nel novero dei beni culturali anche dal punto di vista legislativo.
BIBLIOGRAFIA
- R. Bianchi Bandinelli, 2004, Roma. L’arte romana al centro del potere, Milano, BUR Arte. - A. Giuliano, 2005, “Età classica”, in Storia dell’arte greca, pp. 201-335, Roma, Carocci. - K. Pomian, 2007, Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia XVI-XVIII secolo, Milano, Il Saggiatore (edizione originale Collectionneurs, amateurs et curieux, Paris, Venise: XVIe-XVIIe siècle, Paris, Gallimard, 1987). - L. Salerno, 1972, “Musei e collezioni”, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. IX, pp.738-771, Venezia, Sedea.
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