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L'ARTE   CIRCENSE

 

 

Giuliano Confalonieri

 

 

 

 

   

 

 

 

   

    Il circo è stato definito dallo scrittore Ernest Hemingway  ‘unico piacere eterno che ci si possa procurare pagando’.  In piazza, sua sede naturale, lo spettacolo viaggiante è stato un tipo di divertimento genuino e diretto: cani ammaestrati, fachiri e saltimbanchi, famiglie itineranti che con pochi riflettori, un semplice velario e sedie in plastica ricreano l’atmosfera dello chapiteau, una forma di spettacolo popolare viaggiante ideato nel 1779 dall’inglese Philip Astley, già sergente maggiore dei dragoni che organizzò a Londra le acrobazie equestri ed i funambolismi dei saltimbanchi: fu poi l’udinese Antonio Franconi ad assumere la gestione dell’anfiteatro parigino fondato nel 1782 dallo stesso Astley e successivamente a dare impulso all’attività circense in Italia. Le antenne imbandierate si diffusero sia in Europa che negli Stati Uniti dove, nell’Ottocento, cominciò ad operare Phineas Taylor Barnum (1810/1891), giornalista ed impresario, che presentava fenomeni e curiosità; le sue tournée diventarono famose quando nel 1871 formò ‘Il più grande Museo del mondo’ – un insieme di ‘numeri’, serraglio e baraccone delle meraviglie – con il quale girò i continenti. Il circo si fuse più tardi con quello di J.A. Bailey e nel 1907 con quello dei fratelli Ringling (nel 1854 Barnum scrisse “Autobiography”).

Nella nostra epoca il circo classico è in fase di recessione per l’azione degli animalisti ma soprattutto per la supremazia dei nuovi intrattenimenti. Tuttavia a Parigi ha sede stabile il Cirque d’Hiver, nei paesi dell’Est la tradizione è tuttora molto viva, in Cina numerose scuole addestrano i giovani in complessi esercizi acrobatici, nel Principato di Monaco ha successo l’annuale Festival del Circo. Alcune importanti famiglie come i Togni e gli Orfei producono ancora nel terzo millennio ‘il più grande spettacolo del mondo’. Il Circo Nazionale Togni fu fondato agli inizi del Novecento da Riccardo, Ercole, Ugo e Ferdinando. Nel 1951 i tendoni itineranti dei Togni diventarono tre, creati e diretti dalla numerosa discendenza. Il Circo Orfei fu fondato nel 1820 da Paolo affermandosi poi per merito del figlio acrobata Ferdinando e del nipote Paolo, grande saltatore. Un secondo circo fu creato da Liana Orfei con i fratelli, un terzo dalla cugina Moira nel 1964.

Joe Grimaldi (figlio di un genovese emigrato in Inghilterra nel 1755), malgrado una naturale propensione alla malinconia, creò la maschera del clown – evidente sempiterno contrasto dell’animo umano – con le pantomime del clown ‘Bianco’ per la faccia infarinata e ‘Augusto’ per l’uso di scarpe spropositate, il naso rosso e la parrucca fantasiosa. Uno dei più grandi fu lo svizzero Grock (alias Adrien Wettack, 1880/1959), comico, funambolo e musicista (sulla collina delle Cascine a Imperia sorge la villa nella quale abitò: è stato l’interprete di se stesso sullo schermo nel 1931 (anno in cui pubblicò le sue memorie), nel 1949 e nel 1958.

La famiglia Fratellini (di origine italiana ma attiva in Francia) contribuì notevolmente ai primi del Novecento al successo di un genere che comprendeva le esibizioni dei cavalli ammaestrati, il lanciatore di coltelli, il domatore di bestie feroci, il funambolo, l’antipodista, la contorsionista, il numero dei trapezisti ed i giocolieri: Gustavo (1842/1905) fu acrobata, i figli Paul e Louis diventarono clown così come i figli Gustav e Jean Max (è rimasta celebre nella storia del circo la performance “I musicisti impossibili” presentata nel 1916). Buffalo Bill (William F. Cody, 1846/1911), lo scout che combatté gli indiani Sioux e compì stragi di bisonti per nutrire gli operai durante la costruzione della rete ferroviaria americana (in 17 mesi uccise 4.280 animali), lavorò con il Circo Barnum ed alla fine dell’Ottocento portò in Europa uno spettacolo nel quale rievocava l’epopea del Far West con indiani autentici e lui stesso come protagonista: l’idea di “Storia del West selvaggio” nacque in seguito all’enorme pubblicità fatta a Cody da romanzi e riviste nelle quali venivano narrati in modo melodrammatico episodi – veri o falsi – della sua avventurosa vita e dell’ambiente che lo aveva ospitato. Considerando che molta gente spendeva denaro per leggere “Buffalo Bill, re degli uomini di frontiera” o per andare a vedere una pièce tratta da un racconto che lo riguardava, lo scout ritenne giustamente che avrebbero pagato più volentieri per vederlo in azione di persona.   

 

       La tradizione degli artisti da strada, dei cantastorie e dei mangiatori di fuoco, dei nani e della donna cannone, del luna park con il rutilante sfavillio di mille luci, è un mondo apparentemente romantico ma nella realtà è legato alla dura legge rievocata da Federico Fellini nel film “La strada” del 1954. Un mondo che ha legami con etnie autonome come gli zingari e con forme di spettacolo molto antiche come marionette e burattini, simbolo povero dello spettacolo popolare: ne parlano gli scrittori classici e le cronache medievali riportano il loro uso nelle chiese per sacre rappresentazioni o nelle corti feudali per intrattenimento. La marionetta (azionata dall’alto con i fili) e il burattino (manovrato dal basso con le mani) sono rappresentanti di un mondo semplice nel quale tuttavia non mancano citazioni culturali. Notizie storiche indicano Giappone e Cina come esportatori in Occidente di personaggi con il corpo snodato e le teste in legno o terracotta. I secoli XVI e XVII vedono i pupazzi girare l’Europa, interpreti di copioni originali o di adattamenti da canovacci teatrali conosciuti.

Fino a qualche decennio fa le antenne imbandierate che sorreggevano il tendone multicolore erano spesso presenti nelle aree urbane o nelle periferie che nel secondo dopoguerra si stavano riempiendo di nuovi caseggiati per l’urgenza di dare un tetto alla moltitudine di persone che cercava lavoro e benessere nelle future megalopoli. Quando il Circo arrivava in città i ragazzini partecipavano alla vita dei saltimbanchi diventando talvolta prezzolati venditori di bibite e caramelle per pochi spiccioli di mancia e l’ingresso ‘a gratis’. Darix Togni con il gruppo di leoni berberi – numero centrale dello spettacolo – incrementava l’odore di selvatico mescolandolo alla segatura mossa dagli artigli, al fumo ed al sudore. Sotto lo chapiteau il pubblico si estraniava dai compiti di ogni giorno per farsi irretire dallo spettacolo fatto di esotismo, agilità e comicità popolare. La troupe dei “Diavoli volanti”, il trapezio a pendolo per la sinuosa ragazza ed il cavo teso per gli equilibristi con l’asta completavano l’avventura cominciata di prima mattina quando la carovana arrivava nell’area destinata ad ospitarla. I carrozzoni formavano un cerchio protettivo come durante gli assalti degli indiani d’America ai pionieri ed al centro veniva scaricato il voluminoso tendone da issare.

Un lavoro che si svolgeva febbrile perché lo spettacolo serale (“Grande Prima”) doveva andare in pista. All’interno della struttura si montavano le gradinate, i riflettori, gli attrezzi, le sedie pieghevoli dei primi posti, il palchetto per l’orchestrina che qualche anno dopo sarebbe stata sostituita da basi musicali registrate, il tunnel attraverso il quale le fiere sarebbero entrate e la pista cosparsa di uno spesso  strato di segatura. Le gabbie su ruote degli animali formavano un reparto a parte; l’ingresso come in un normale zoo avrebbe attirato molta gente sia nel corso della giornata sia durante l’intervallo dello spettacolo. La puzza persisteva dentro e fuori l’area, lo stile di vita zingaresco contagiava coloro che curiosavano intorno all’accampamento per la sensazione di avere a portata di mano terre lontane. L’apoteosi della fatica si concretizzava nello scintillio dei costumi, nelle musiche trascinanti, nel movimento ininterrotto ed nel piacere di far parte tutti insieme di un momento magico estremamente terapeutico. I pagliacci, le scimmie sapienti, gli orsi e i cani ammaestrati, l’omone forzuto mangiafuoco, la contorsionista, i salti mortali del gruppo ‘cosacco’, il bilico che proiettava l’acrobata sulla poltroncina in cima alla pertica, il funambolo, il lanciatore di coltelli abbigliato come gli indiani, la giovane sorridente amazzone che vorticava sul cavallo bianco. Come sottrarsi al fascino di tante cose messe insieme in due ore di spettacolo intenso? Intorno all’accampamento ruotava la routine degli spostamenti e degli allenamenti, l’ansia di attirare il pubblico, le spese di gestione inderogabili per la sopravvivenza del complesso, gli imprevisti come l’incendio, il gelo, la piena di un fiume, l’incidente ad un artista, la moria di animali, la carestia o turbolenze sociali.

 

      I giochi gladiatori dell’antica Roma, organizzati per le cerimonie funebri in onore di Giunio Bruto Pera  (264 a.C.) hanno qualche attinenza con il circo moderno: si diffusero nell’Oriente ellenico con l’eccezione del territorio greco. Disapprovati da Cicerone e Seneca, i giochi incontrarono largo favore nell’età imperiale e declinarono contemporaneamente allo sfaldamento dell’Impero. Le “Feste Olimpie” (776 a.C.) duravano solitamente cinque giorni ed erano sostanzialmente di carattere religioso; dapprima frequentate solamente dagli Elei (Olimpia nell’Elide, a 10 km. dal Mare Jonio; la città, il cui nome deriva dalla sede degli dèi, conviveva con il Tempio Altis) furono in seguito aperte ad atleti e spettatori dell’intero Peloponneso. Punto focale della festa erano le gare ginniche (corsa, lotta, pugilato, gare delle quadrighe e ippiche). Si onoravano i vincitori con statue o poemi. Queste feste quadriennali furono in auge fino al 393 quando vennero proibite dall’Imperatore Teodosio. Fu il pedagogo francese Pierre de Coubertin (1863/1937) – convinto assertore dell’importanza dell’attività sportiva nell’educazione ‘importante è partecipare, non vincere’ – a proporre nel 1894 la rinascita dei giochi olimpici.

 

    Così come sono scomparsi il tabarin ed il cine-varietà con le donnine discinte avvolte dal fumo che saliva dalla sala strapiena di gente che aspettava la ‘passerella’, pure il circo ha dovuto cedere i suoi incantesimi  alle novità del terzo millennio. Rimangono tuttavia le testimonianze filmate poiché il connubio tra circo e cinematografo è di vecchia data. Nel 1907 il Cirque d’Hiver parigino ha ospitato alcune proiezioni di film; a loro volta i caravanserragli viaggianti hanno prestato lo chapiteau all’inizio del Novecento al pubblico curioso della nuova grande invenzione dei Lumière. L’atmosfera circense ha stregato il mimo Tati, il poeta Charlot e l’affabulatore Fellini che hanno interpretato – ognuno a modo suo – la fatica, il sudore, la vita e la musicalità di un ambiente irripetibile: “l’arrivo del circo di notte, la prima volta che lo vidi da bambino, ebbe il carattere di una apparizione” (Federico Fellini).

 

    Due film a soggetto di Charlie Chaplin: “Il Circo” (1928) e “Luci della ribalta” (1952) con il personaggio Calvero al tramonto, simbolo malinconico di tutti gli artisti. “La strada” felliniana con gli indimenticabili personaggi di Zampanò, Gelsomina, il Matto (colonna sonora di Nino Rota) ed il successivo “I clowns” del 1970. “Il circo di Tati” di e con Jacques Tati (1974). “Lola Montès” di Max Ophuls (1955), melodramma sulla vita circense della nota cortigiana dell’Ottocento. “Una vampata d’amore” di Ingmar Bergman (1953), dove il circo fa da sfondo a meditazioni esistenziali. “Il più comico spettacolo del mondo” di Mario Mattioli con Totò (girato nel 1953 con il sistema tridimensionale), parodia del “Più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille (1952). “Buffalo Bill e gli indiani” (1976) di Robert Altman racconta la tourné del circo “Wild West Show” promossa dallo scout americano. “Alegria” (1999), documento del “Cinque de Soleil” fondato nel 1984 e diretto da Franco Dragone. “Barnum il re del circo” (1986) di Lee Philips, biografia romanzata dell’impresario americano. “Bronco Billy” (1980) di e con Clint Esastwood, vicende semiserie di un circo di seconda categoria. “Luna e l’altra” (1996) di e con Maurizio Nichetti, storia di uno sdoppiamento di personalità causato dall’arrivo a Milano di una carovana di giocolieri ed acrobati. “Dumbo” (cartoon Disney, 1941), storia dell’elefantino volante.

 

    Upilio Faimali (piacentino del 1826), fu un domatore spericolato tanto da cimentarsi nella gabbia con un gruppo di pantere catturate in Algeria, animali difficilmente addomesticabili. Nel 1879 l’indiana Miss Aissa rischiò di essere sbranata da due tigri a Firenze. Nel 1886 la domatrice Nouma Hawa fu ferita da un leone in Belgio; qualche anno prima il suo compagno fu aggredito e ferito a morte a Roma da una leonessa. Nel 1869 il numeroso pubblico presente all’Hippodrome assistette alla tragedia del domatore Lucas, sbranato dal gruppo di leoni. Nel 1907 due trapeziste al lavoro in un caffè-concerto parigino caddero per la rottura delle corde nella gabbia sottostante e subito aggredite dagli animali selvaggi lì raccolti per aumentare il brivido dell’esibizione. Nel 1904 a Madrid l’americana Miss Alix perse la vita compiendo a bordo di una speciale automobile il ‘cerchio della morte’ (nel 1900 il ciclista Mephisto eseguiva lo stesso esercizio con una bicicletta). Nel 1866 Davis Richard morì a Pietroburgo eseguendo volteggi equestri appendendosi alle maniglie fissate al collare. Alessandrini, il cui numero consisteva nel fermare una palla di cannone con le mani, morì per l’esplosione del pezzo. Nel 1922 Edmondo Zacchini esordì come uomo-proiettile ferendosi gravemente. Enrico Rastelli, soprannominato il ‘giocoliere triste’, ebbe un incidente strano: l’artista che riusciva a fare roteare contemporaneamente 10 palle o 12 cerchi (un primato che sembra non sia stato più eguagliato) morì nel 1931 a causa di una emorragia causata dalla ferita alle gengive per una palla lanciata su sua richiesta da uno spettatore. Yojtej Trubka fu azzannato 57 volte dalle tigri e Oscar Konyot ebbe lo stesso trattamento per oltre 40 volte dai leoni. Orlando Orfei, Leonida Casartelli e Darix Togni portano sul loro corpo le cicatrici procurate dagli animali con i quali stavano lavorando (Darix fu costretto ad uccidere nel 1951 con un tridente la tigre Senegal che l’aveva assalito. Nel 1908 il domatore Alf è stato ucciso in un circo parigino da un orso durante un numero ibrido con un iena ed una tigre.

 

     L’orso ammaestrato ha precedenti illustri: Teodora, imperatrice di Bisanzio, era figlia di Acacio detto ‘il maestro degli orsi’. Nel Medioevo erano gli zingari a presentare nella piazze questo possente animale e ancora nella prima metà del Novecento nelle Fiere era possibile vederlo ballare. Valentino Filatov del circo di Mosca faceva guidare agli orsi la motocicletta. Piccioni ammaestrati  furono presentati da Antonio Franconi nel 1778 e due secoli più tardi fu Moira Orfei a proporre un delicato volteggio di colombe. La foca apparve nel 1819 nel serraglio circense italiano, nel 1841 una elefantessa ammaestrata da Costanza Saqui piantava chiodi con un martello tenuto dalla proboscide e suonava il flauto. Nel 1892 si riuscì a fare giocare cento topolini con dei gatti, nel 1972 un rinoceronte riuscì a sopportare sulla groppa una tigre, elefanti e tigri furono abituati a lavorare insieme e si riuscì a fare eseguire una capriola perfino ad un ippopotamo. Nel 1903 a Budapest una domatrice dovette sottoporsi all’amputazione del braccio azzannato da un leone. Sembra che gli antichi romani riuscissero a far camminare gli elefanti sulle corde.

 

Nel 1975 lo statunitense Dean Martinez riuscì a superare Alfredo Cordona eseguendo un triplo e mezzo salto mortale al trapezio volante. Giovanni Palmiri – altra importante famiglia di circensi italiani – ideò la bilancia della morte su una pista circolare a 25 metri dal suolo: sull’anello correva con una motocicletta alla quale era sospeso un trapezio con la moglie e la figlia (Giovanni morì nel 1949 cadendo e la stessa sorte subì la moglie). Nel 1850 il farmacista statunitense Gilbert Spaulding inventò il tendone con le due antenne portanti, nel 1887 fu realizzata la gabbia circolare smontabile (i domatori cominciarono ad esibirsi nei circhi francesi dal 1831, in Italia dal 1890). Nel 1840 l’americano Washington ideò il trapezio fisso e nel 1859 il francese Lèotard si esibì per la prima volta a Parigi con il trapezio volante. Per l’intero Ottocento, nei serragli, nei teatri e negli anfiteatri, furono proposte pantomime con uomini ed animali per rievocare battaglie e fatti storici. Nel 1882 il circo a tre piste di Barnum comperò a Londra l’elefante più grande del mondo portandolo trionfalmente a New York. Durante i secoli precedenti acrobati e domatori si esibirono nelle sagre paesane e nelle fiere itineranti. Il circo ha conquistato il diritto di innalzare come emblema le due maschere tipiche del teatro greco, il dramma ed il sorriso: lo spettacolo deve comunque continuare nell’incubo dei numerosi incidenti che inevitabilmente si ripetono sotto il tendone: “Li portorno via morti, poveracci. Sur sangue ce buttorno un po’ di rena e poi vennero fora i pajacci” (Cesare Pascarella).          

 

 

Giuliano Confalonieri

giuliano.confalonieri@alice.it