La storia della "chiave"

 

 

Alessandra Doratti

 

 

 



La raffinata bambolina in avorio della fanciulla romana Creperia Tryphaenn ne portava una al dito.
Era una minuscola chiave giocattolo in oro che serviva ad aprire il cofanetto con il necessaire della ormai famosa bambola. Talmente piccola da dover essere guardata con la lente d'ingrandimento, questa chiave terminava ad angolo retto in una serie di dentini microscopici. E si infilava al dito della bambola grazie a un filino d'oro avvolto ad anello, del diametro di appena mezzo centimetro.
Le origini delle chiavi si spingono però ancora più in là nel tempo. Nell'Odissea di Omero, Penelope si accinge ad aprire i suoi scrigni munita di una pesante chiave in bronzo dall'impugnatura in avorio. La Bibbia ci parla degli ebrei come dei più abili "serraturisti" dopo gli egizi, ai quali resta però il merito indiscusso di aver impiegato per primi le serrature (in legno, per l'esattezza). Anche i miti e le leggende estremo-orientali fanno ampi riferimenti alla chiave, della quale molti esemplari risalenti al 2000 a.C. sono stati ritrovati in Cina.
Ma l'uso più antico in assoluto risale alle civiltà mesopotamiche e a quella egizia: nei bassorilievi babilonesi del 3000 a. C. il dio Schamash agita il braccio sinistro che regge una rudimentale chiave dentata da saliscendi, simbolo del potere di condanna e assoluzione. È un tema che ritroveremo più tardi nelle chiavi di S. Pietro sullo stemma pontificio.


Nella mitologia segno del legame fra vivi e morti

La magia dell'"apriti Sesamo" si impadronisce della chiave quand'essa è soprattutto allegoria e simbolo: di custodia, sicurezza offerta (nel passaggio di proprietà), alleanza (d'un paese con l'altro), soprattutto di diritto (di possesso, d'azione, di governo, di giudizio). Nella mitologia classica la cupa Ecate, dea infernale detentrice del potere sulle anime dei defunti, reca con sé piccole chiavi d'argento fissate alle dita da numerosi anelli e allusive del legame tra vivi e morti. Significativo è il ritrovamento dell'insegna portata 3000 anni fa dai soldati di guardia medi e persiani raffigurante due chiavi incrociate. Oggi questo è l'emblema di cui si fregiano i nostri portieri d'albergo. Altra valenza hanno invece le più recenti chiavi incrociate che compongono la "trinità fabbricale" dell'alto Medioevo, simbolo di Cielo, Terra e Purgatorio.
Di chiavi preistoriche se ne sono riscoperte un po' ovunque, dal Medio ed Estremo Oriente al centro Africa. Tutti questi reperti derivano da un unico modello, quello della serratura con chiave di origine egizia trovata a Khorsabad (una trentina di chilometri a nord di Ninive), realizzata in legno e progettata per l'esterno della porta (delle serrature all'interno si occuperanno i greci).
La crescente abilità dei fabbri egizi ed ebrei, e successivamente greci, diffonde a macchia d'olio questo sistema di sicurezza. Quegli esemplari non si potevano portare naturalmente in tasca. Rozzi, pesanti, lievemente arquati a falce, venivano trascinati a fatica, spesso in spalle e da più persone, come nel caso delle enormi chiavi da portali. Lo schiavo curvo sotto il peso del mazzo di chiavi diventa presso i greci simbolo d'appartenenza a rango assai elevato.

 


Le successive chiavi romane riducono le dimensioni al punto da venire portate come anelli o essere utilizzate come sigilli. In ferro e bronzo o solo bronzo, sono state risparmiate dalla corrosione a differenza delle loro serrature che, essendo in ferro, non sono certo pervenute a noi nella quantità delle chiavi. Queste risultano per lo più sagomate a "L"; l'impugnatura o anello è a cerchio, spesso a testa di animale; la parte finale provvista di denti. La confusione dei secoli seguenti la civiltà romana sembra segnare una battuta d'arresto nell'evoluzione della chiave: i barbari, grandi sfondatori di porte, certo preferivano i colpi di daga ai giri di chiave. Ne consegue il tanto difficile ritrovamento delle chiavi merovingie, dall'anello traforato a lobi, losanghe, cerchi concentrici, anticipatrici delle più elaborate carolinge, sempre in bronzo e contraddistinte dall'anello a forma di mitra o tiara bizantina; per non parlare di quelle del periodo romanico, in ferro e non risparmiate dalla corrosione.
Una ventata innovatrice investe il settore tra il 1000 e il 1100 con la chiave normanna, che può essere considerata "scheletro" della moderna. Esile dall'anello a cappio, pare fosse riservata alla chiusura di mobili e scrigni di valore, nonchè di edifici di prestigio (castelli, fortezze e chiese): ciò a causa dell'alto costo che comportava la fattura d'una serratura, allora privilegio di autorità e potenti. Per le case dei contadini normanni risulta solo un catenaccio di legno. La distinzione di stili che si manifesta a partire dal 1200 non cancella nella chiave alcune prerogative fondamentali, quali ad esempio il "fusto pieno" e il "fusto forato" nell'esemplare "femmina". Tipo questo che offre maggiori garanzie poiché gli corrisponde una spina di guida nella serratura di aggiunta agli ingegni. Ma ha lo svantaggio di poter essere utilizzato soltanto all'esterno, come in cassetti, mobili, scrigni, mentre il tipo "maschio" era sfruttato da ambo le parti, come nelle porte di un locale. La forma della chiave all'epoca della "Magna Charta" (1215) e delle Crociate (1182-1270) è quella gotica, dall'anello romboidale e dall'ornato leggero: doveva appartenere anche al genere usato nella bizzarria (assai poco cavalleresca e molto romanzesca) nominata "cintura di castità"; secondo le cronache del tempo, pare circolassero parecchi duplicati dell'originale che l'illuso cavaliere recava solo nella santa spedizione, duplicati che fabbri compiacenti si affannavano a produrre per poi essere i primi a servirsene. Altre testimonianze dimostrano che questo marchingegno aveva una funzione difensiva contro i rischi delle dame in viaggio. A partire dal 1300 si riscontra una crescente abilità nella lavorazione del metallo unita all'uso di ingegni sempre più complicati, e soprattutto una maggiore varietà nei modelli delle impugnature: diventa popolare l'anello lobato, a trifoglio o a quadrifoglio, che dominerà incontrastato anche per tutto il Quattrocento. Dopodiché la struttura della chiave non fa che arricchirsi ulteriormente come nelle fenditure della mappa e nei "rosoni" alla base dell'anello. Il cesello mostra un'ineguagliabile perizia orafa nella creazione di guglie, trafori di gigli, intagli di croci, corone sovrastanti l'anello e minuscoli soggetti animatori di scene religiose, come l'esemplare ecclesiastico che vede inserita nell'anello la Crocifissione di Cristo o come l'altro esemplare tardo-gotico visto in Francia da una delle sorelle Balzani, antiquarie di Milano, che reca scolpito nell'anello il vano d'una cattedrale contenente la sua brava Madonnina.
Il periodo rinascimentale conosce l'uso dell'acciaio, oltre a quello antico del ferro lavorato solo o in lega, per le più tarde chiavi da "parata" e da rappresentanza. Nel '500 e '600 cominciarono ad apparire impugnature e grifi, chimere, sirene e statuine in miniatura: la chiave si fa oggetto prezioso sfoggiando stemmi, corone, armi e iniziali intrecciate. Specie nel '600 si esaspera l'ornato chimerico in soggetti di carattere onirico-grottesco quali cariatidi, teste e maschere umane, faune popolate di delfini, aquile e grifoni. Ma la produzione più strabiliante del secolo resta quella del capo d'opera: vale a dire chiavi a "lanterna" con relative serrature che l'artista eseguiva come somma maestria per presentarle alla propria corporazione quando voleva diventare maestro. Tripudio d'arabeschi questi "lampioni magici" s'accendevano di chiaroscuri nell'alternarsi di pieni e vuoti, nello svettare dei pinnacoli sovente animati da figurine umane. Le mappe erano massicce, traforate come pizzi e terminanti a esteso "pettine". Materiali di base il ferro e l'acciaio, bagliori in argento. Tra '600 e '700, con la necessità di far fronte alla sempre crescente delinquenza e alla faccia tosta dei ladri, le chiavi si "armano" in modi curiosi e spesso geniali: l'inventiva si scatena in esemplari a doppio uso come la "chiave pugnale", la "chiave temperino", la "chiave pistola", la "chiave a colpo di pugno o spaccatesta" e la "chiave scavata" adibita al trasporto dei messaggi segreti.

 


Quei diabolici marchingegni contro i ladri


Non da meno erano le serrature, anche loro più che mai sulla difensiva come ad esempio la "prevotale" (dal francese prévot-prevosto, il cui ruolo era proprio quello di arrestare i ladri). Dotato di due pinze potentissime, il diabolico marchingegno si reggeva su robuste molle azionanti questi taglienti semicerchi metallici che nella difesa attanagliavano i polsi del furfante. Il principio della sadica tagliola era affine a quello che lanciava un dardo in acciaio sulle mani di chiunque tentasse lo scasso: si dice che lo stesso costruttore ne avesse fatto le spese.
Una mente geniale aveva poi adottato il principio della chiave pistola al retro della serratura: la rivoltella così incorporata sparava all'istante sull'inesperto che non avesse saputo azionare il dispositivo di sicura, si trattasse pure del proprietario ubriaco. E non fu trascurata neanche l'idea dell'allarme, inserendo nella serratura un sistema di suoneria. Nel corso del '700 si assiste anche a una fioritura di chiavi inglesi da cerimonia, da club e da "ciambellano": tutte esenti da uso pratico, puramente onorifiche, e forgiate in acciaio, argento, bronzo dorato e "vermeil". E talvolta anche in oro, specie quelle da ciambellano: il "cavaliere delle chiavi" le portava appese alla cintura. Queste ultime in particolare, recavano incise sull'anello sia le armi della famiglia regnante che quelle di chi ricopriva la carica; spesso l'arma o l'intreccio di iniziali era sovrastato da una corona.
In questo secolo anche in Italia la chiave si arricchisce di preziose impugnature e dorature. I primi esemplari italiani di un certo valore risalgono addirittura al '300. Di notevole pregio artistico sono quelle del '500 e, in particolare, le chiavi venete in ferro battuto, lavorate a cesello o a traforo.

 

Alessandra Doratti