Le case incantate Cenni sulla Scuola di Burano
Walter Abrami
Burano, Torcello, Mazzorbo e San Francesco del Deserto costituiscono un itinerario da suggerire non solo a chi desidera conoscere i caratteri più peculiari e le complesse vicende della civiltà lagunare da cui è nata Venezia. Se a questo percorso si associano l’interesse per gli aspetti artistici del nostro invidiabile patrimonio, per la storia della pittura veneta del ‘800 e ‘900 e perfino il piacere della buona tavola (chi seguendo le tracce di Ernest Hemingway ha sostato nella locanda Cipriani di Torcello non smentirà le parole di chi scrive) l’incanto aumenterà nel corso delle stagioni. E che spettacolo di chiaroscuri la vista dal campanile della Cattedrale di S. Maria Assunta! Fu a pochi passi da qui, infatti, che l’autore di Morte nel pomeriggio, de Il vecchio e il Mare scrisse alcuni capitoli del romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi. Non è ancora tutto. Il vero impatto di Burano con la sua particolarità spaziale e cromatica si può godere dal Rio di Mezzo così come apparve nel 1910 a Gino Rossi da poco ritornato dalla Bretagna. La dimensione ridotta delle case e del canale, la relativa larghezza delle fondamenta molto basse sul livello dell’acqua, alla stessa altezza delle fiancate delle barche, la presenza di una vita nel canale altrettanto intensa di quella che si svolge a terra dove proliferano punti di ritrovo e negozi di ricordi rendono questa magica cittadina qualcosa di diverso da una Venezia in miniatura come lo fu nel primo decennio del secolo passato. Oggi a Burano si sentono parlare lingue di mezzo mondo, i merletti, piuttosto che sulle tovaglie e i centri tavolo si ammirano sui seducenti bustini sexi esposti nelle botteghe… I giorni sono questi e il mondo cambia ovunque in fretta… Rimane tuttavia in questo spazio lagunare la sorprendente varietà dei colori che attrasse molti artisti, il rumore lieve dell’acqua, il dondolio delle barche, l’odore di salsedine misto a quello delle poderose fritture, la quiete della notte e… il panorama di Venezia! Rossi e Moggioli arrivarono assieme, presero in affitto uno studio, si stabilirono sull’isola e cominciarono a dipingere. Nel giro di un paio d’anni Burano diventò l’approdo dei giovani ribelli di Ca’ Pesaro e nacque la “scuola di Burano”. Negli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale la scoperta di Burano fu intimamente connessa con il movimento d’avanguardia di Ca’ Pesaro. Si formò dunque il sodalizio di indisciplinati composto da Gino Rossi, Umberto Poggioli, Arturo Martini, Tullio Garbari, Ugo Valeri, Felice Casorati e più tardi Pio Semeghini. Il gruppo fu accolto da Nino Barbantini “paron de casa” di Ca’ Pesaro. La mostra del 1913 in cui questi giovani si presentarono all’insegna della rottura, suscitò polemiche e pure reazioni ufficiali. L’arte nuova fu deplorata pressoché unanimemente nella città di Favretto, Ciardi, Ettore Tito, Sartorio. Proprio in reazione a questo clamore, i giovani di Ca’ Pesaro cominciarono a seguire le orme di Moggioli scegliendo il luogo di convegno della piccola isola che persino da Guglielmo Ciardi trascurò. Terra malinconica al centro di una laguna immota. Per i ribelli di Ca’ Pesaro Burano significava qualcosa di più che l’occasione di una gita. La luce di Burano era idillica e sembrava smaterializzare le cose. Burano nacque sotto il segno dell’arte nuova interpretata da Gino Rossi che la considerava affettivamente una sorta di bretone Pont-Aven sebbene completamente diversa, più intima e familiare. Con la guerra, la brevissima stagione di Burano finì all’improvviso e quella che ne seguì ebbe sviluppi diversi, ma ancora assai avvincenti per taluni. Nel 1966 presentando una mostra retrospettiva di pittori della Scuola di Burano. così scrisse Diego Valeri: “Quello di Burano fu (per me) uno strano tempo: un tempo stranamente felice. Forse perché, dopo lungo desiderio, avevo finalmente (anno 1926) acquisito il diritto, anzi il dovere professionale, di stabilirmi a Venezia (e Burano mi pareva una Venezia minore sì, ma allo stato puro), o forse perché quella fu l’ora della mia vera giovinezza, tardi venuta e perciò stesso più cosciente ed intensa: irradiata da un sole cui non saprei dare altro nome che, appunto di felicità. A Burano si andava spesso, specie durante la buona stagione, in piccola brigata di amici, portati dai vecchi vaporetti ansimanti e fumanti, carichi di ceste, di fagotti e di bambini dentro una nuvola di chiacchiere e di canti: le mille voci di quel caro popolo minuto che sulle Fondamenta Nove s’era imbarcato con noi. Ci si andava nei giorni di festa o di mezza festa, come per una passeggiata fuori porta. E lì c’erano, ad attenderci gli amici pittori. Il tempo di cui parlo non era già più quello di Umberto Moggioli e di Gino Rossi. Morto Moggioli, con tutti i suoi sogni idillici, rapito Gino Rossi fuori dal mondo dei viventi da un tetro vento di follia, il solo signore dell’isola era adesso Pio Semeghini. Al suo fianco non mancava mai il fedelissimo Vellani Marchi e intorno al quale fluttuava una piccola corte, non mai la stessa, di giovani e di meno giovani, veneti, milanesi, perfino stranieri. C’erano pittori, scrittori, musicisti, qualche bella donna, qualche snob di tipo ostinatamente dannunziano; e tutti, dopo aver fatto e rifatto il breve giro dell’isola, si trovavano riuniti nella trattoria di Romano, davanti a profonde scodelle di risotto di scampi e a trofei monumentali di pesce fritto.. Semeghini e Vellani godevano di stabile alloggio, per tutta la stagione, nella bella casa della signora Anna, la vedova del povero Moggioli; gli altri venivano e andavano, attenti a non lasciarsi scappare l’ultimo vaporetto della sera, per non dover passare la notte sotto le stelle. Questo il ritmo normale delle giornate buranelle; ma ci furono anche giornate straordinarie, grandiose e gloriose, in cui alla tavola di Romano sedettero uomini i cui nomi correvano per l’uno e per l’altro mondo: artisti di tutte le arti e di tutti i paesi… Come potrei dimenticare per esempio Luigi Pirandello con quel suo sorriso quasi doloroso davanti a una giovinetta che gli parlava dei Sei personaggià Ma la mia Burano fu, e resta, quella quotidiana: di povere case aperte sull’acqua silenziosa e di umile gente sparsa per le calli e sulle fondamenta: pallide fanciulle chine sul tombolo, rudi pescatori di laguna dai miti occhi bruciati dal salso, donne che stendono il bucato nei campielli. Un mondo che nello splendore dei giorni sereni si trasfigurava in un luogo di meraviglie. Insomma la Burano di Semeghini! Moggioli e Rossi erano pur sempre presenti, ombre luttuose e inestinguibili luci di fantasia. Erano stati i primi a eleggersi quell’umile patria pittorica; ed è certo che, se si potesse parlare di una Scuola di Burano come si parla di una Scuola di Barbizon, spetterebbe ad essi, per diversi che siano, il titolo di fondatori, d’iniziatori. Ciò non toglie che Semeghini, venuto un poco più tardi, non abbia penetrato l’anima segreta del paesaggio e l’umanità di Burano più profondamente di ogni altro: così intimamente da rivelarla, in certo modo, e al mondo e a se stesso. Semeghini fu il vero creatore della Burano pittorica. Con i suoi piccoli occhi grigi e pungenti vide una Burano che nessuno prima di lui aveva colto e che nessuno dopo di lui potrà non vedere. Così come Recanati non si può vedere che con gli occhi di Leopardi. L’artista ebbe una vita esemplare e sebbene si parli assai poco di lui fu pittore della luce. Anche per coloro che conoscono le vicende pittoriche del ‘900, il nome di Semeghini resta a tutto oggi avvolto in una sorta di nebbia. A sessant’anni era un Maestro che lottava ancora per vivere. Da giovane praticò molti mestieri: fu droghiere quando imparò un po’ di disegno e di scultura. Fu autodidatta. Uomo mite, dopo i moti del 1878 fu segnalato dalla polizia di Questello in provincia di Mantova, suo paese natale. Fu ritenuto un anarchico pericoloso e come tale dovette espatriare. Visse qualche tempo in Svizzera nel rifugio di Lugano e di lì passò a Parigi. Al ritorno in patria riprese il suo lavoro di droghiere e fece anche l’attore girovago finché, stabilitosi nel Veneto, incominciò a guadagnare con qualche suo lavoro artistico. Modellò e scolpì statue per le facciate delle chiese di campagna. Venezia intanto moriva sotto la grassa, opulenta, scenografica pittura che aveva fatto invadere dagli artisti le sue calli e le sue fondamenta fra il 1890 e il 1910. Semeghini portò dalla Francia direttamente e non di terza mano, la lezione impressionista come fece Veruda a Trieste. Egli fu soprattutto un buon disegnatore. La sua coerenza fu, fin dai suoi esordi, una prova d’umiltà. Più volte si è parlato degli amori di Semeghini che vanno da Giotto a Masaccio, da Jacopo Bellini a Piero della Francesca e via via correndo fino a Renoir e a Cézanne. Semeghini fu uno dei pochi artisti capaci di realizzare lo splendido isolamento, negli anni in cui dominava lo spirito di associazione. Iniziò in pieno clima simbolista e secessionista, ma fu un introspettivo. Arrivò semplicemente alla poesia e la sua Casa Incantata conservata a Ca’ Pesaro, resta un autentico incunabolo della Scuola di Burano. E nel caso della pittura il suo solido fondamento è dovuto all’esperienza disegnativa che Semeghini ha intrapreso al principio del Novecento a Parigi. Fu pittore silenzioso: dipinse poco ma disegnò molto. Lacerò fogli infiniti: scoprì il nuovo volto pittorico di Venezia e soprattutto il segreto non tanto dei trionfi architettonici della città, quanto della luce vibrante e sottile. Cos’è infatti la pittura se non luce? Andò a dipingere a Burano di fronte alla laguna con calma sommessa. La scoperta di quella che si è chiamata tra i pittori che amano Venezia la pittura buranella è sua: ed è sua in linea generale la proclamazione della necessità di tornare alla luce, e quello che i lombardi chiamarono il chiarismo. Lo interessò fu l’essenziale. Vide e interpretò Burano nei suoi colori naturali e non come Gino Rossi, attraverso uno schermo culturale: e furono i verdini, i rosa tenui, i gialli canarino delle case dell’isola a trasferirsi sui cartoni appena toccati con levità della punta di pennello. Espose per la prima volta a Venezia nel 1926; cominciarono nei suoi confronti i primi segni d’attenzione, gli furono chieste alcune litografie di paesaggio. La vita pratica e il commercio non furono per lui e tra i miei amici pittori Vittorio Cossutta gli fu simile per bontà. Le più belle lagune di Semeghini, i suoi più bei orti di Burano e di Mazzorbo si dispersero nei momenti di più grave bisogno per poche pochissime e rare centinaia di lire. Semeghini fu un artista incapace di garantire ad un gallerista o ad un mercante una produzione regolare. La sua vita fu dimessa. Partecipò raramente alle mostre e dopo il 1932 si assentò anche dalle Biennali veneziane. La Seconda Guerra lo portò a Verona. Anni duri. Il 1946 segnò l’esordio del Premio Burano, il primo grande premio italiano di pittura del dopoguerra. Burano diventò per qualche settimana il centro delle polemiche sull’arte moderna. Prevalsero i tradizionalisti e il premio finì a Dalla Zorza. Ma i nuovi giovani dell’opposizione Vedova, Pizzinato, Santomaso e De Luigi non accettarono il verdetto. Vedova staccò il suo quadro dalla parete e gridò: “Basta con i paesaggetti! Dovete rendervi conto che il mondo cambia”. Ma in verità i tempi della Scuola di Burano erano già finiti…L’ultima personale di Semeghini fu l’anno successivo nella Galleria del Naviglio a Verona. Egli raggiunse la città coricato nel lettino di un’ambulanza. Causa una malattia il suo braccio pendeva inerte lungo un fianco. In seguito si riprese e ritornò nella sua Burano. Nel 1949 gli fu assegnato il Premio Ines Fila per la pittura. Nel 1951, 1953 e 1956 si susseguirono altri Premi Burano: furono l’estremo tentativo di far rinascere uno spirito che era già tramontato..
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