Carlo Carrà

 

(Quargnento, Alessandria, 1881 – Milano, 1966)

 

Paolo Marini

 

 

 

La silenziosa e quieta indagine della realtà che l’artista ha condotta nell’ultima quarantina d’anni del suo percorso è in effetti l’assestamento d’una vocazione sperimentale e appropriativa che nel primo ventennio del ‘900 ha avuto modo di confrontarsi con le principali istanze del rinnovamento nella pittura italiana. Afferrato così il già declinante Divisionismo, ne coglie le potenzialità cinetiche ponendole al servizio della messa in moto di tumultuosi stati d’animo (La Stazione di Milano, I funerali dell’anarchico Galli) superati poi per razionalizzazione formale, e al contempo per precipitazione di parossismo emotivo, nel periodo della militanza Futurista (Nuotatrici, Sobbalzi del fiacre), raffinata quindi dal contatto parigino col Cubismo (siamo nel 1912) quale veicolo di assolutezza planimetrica e compositiva. Una svolta ulteriore: nel 1915 il collage della Manifestazione interventista attesta il non-ritorno nella resa dell’invisibile (azione delle ‘forze’ in generale nella totalità dell’esperienza), mentre Il fiasco risarcisce l’oggetto cubista dall’ingaggio nella Rivoluzione percettiva. Col ritorno alla tradizione (nel 1916 pubblica gli storici studi su Giotto e Paolo Uccello), Carrà approda a una costellazione di ‘essenziali’ che imprimono l’espansione plastica nella neutralità incandescente della sospensione atemporale; così, se da una parte i Ricordi d’infanzia attuano il transfert con le colorate metafore molecolari di un Klee, dall’altra l’impressionante Antigrazioso apre la via di tutta l’art brut a venire. Meraviglioso misteriosissimo rovello in solitaria che si riaccomoda in un circuito culturale aperto grazie alla vicinanza di de Chirico (nel 1917, a Ferrara): la pittura di Carrà diventa ora metafisica. L’angst del collega è qui tutta decantata in una smemorante collezione allegorica che non esclude l’affermazione di una riposta autocoscienza spiritualizzata (L’idolo ermafrodito), se non volta a una parodia ‘celibataria’ vagamente duchampiana (Madre e figlio). Ma i feticci e i fantocci, tutto sommato solamente orecchianti le creature artificiali del ‘Grande metafisico’, non tardano a convertirsi negli emblemi più toccanti di un vagheggiamento di Rinascita, temperato ora nella cristallizzazione della ‘magia’ d’una più affabile accettazione spazio-atmosferica: è il momento del ‘realismo mitico’ (Il mulino di Sant’Anna, Il pino sul mare – che tanto piacque a Worringer - , La casa dell’amore, tra 1921 e 1922). Pochi anni più tardi, i soggiorni nella luce della Val Sesia e della Garfagnana, nonché la meditazione sull’opera di Cézanne, condurranno il nostro a una nuova e finalmente duratura stagione espressiva. Il dilatato, solenne crepuscolo della sua parabola attua così le più intime modulazioni della sintesi tra ragione costruttiva e afflato liricizzante. E il valore di questa fase, ormai priva di effetti stilistici marcati, risiede proprio nella dimostrazione di come il ‘vero’ vada considerato alla stregua di un’acquisizione relativa – dopo il sondaggio di tante altre dimensioni della realtà – pur rimanendo, al fondo, una sollecitazione irrinunciabile per l’artista portato a ‘dire’ lo spazio del tempo e della vita.

 

 

Paolo Marini

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

Roberto Longhi, Carlo Carrà, Milano, 1945

Massimo Carrà, Carrà. Tutta l’opera pittorica, Milano, 1967-68, 3 voll.

Carlo Carrà, 1881 – 1966, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dicembre 1994 - febbraio 1995, catalogo Electa