Arturo Fittke (Trieste 1873 – Divaccia/Slovenia 1910)

 

Il fobico impiegato delle poste imperial regie lettore di Shopenhauer e amico d’Italo Svevo

 

 

Walter Abrami

 

 

 

 

La compassione delle sofferenze altrui e la piena identificazione della sua sorte con loro, meditava e dipingeva (principalmente nei ritratti dei bambini, ma non solamente in quelli!), il Fittke.

Chissà quante volte nelle sue solitarie, labili domeniche, fino a quella fatale del 24 aprile del 1910 che lo colse suicida in un vagone ferroviario a Divaccia, si sarà chiesto: “ L’esistenza come Arte e l’ascesa ai puri archetipi ideali può “sospendere” il duro meccanismo della necessità, il quotidiano dispendio d’energie, la pressione della vita, le malinconie latenti e offrire una consolazione, un sollievo almeno, al dolore?”

Guardando il “vuoto” paesaggio carsico che ormai più gli interessava attraverso gli opachi finestrini della carrozza che lo riportava a Trieste da Graz, dopo una visita medica, Fitte prese la sua ultima decisione.

Stressato anche da quei monotoni, logoranti, ‘eterni’ binari!

“Vinto” da quella mania di persecuzione che soprattutto negli ultimi mesi di vita gli suggeriva di non fidarsi di nessuno, di schivare i passanti, di sfuggire “pericolose” occhiate e di tenere con sé un’arma (girava con un coltello in tasca!), il pittore si liberò improvvisamente del male, della Volontà di vivere: sciacallo della sua meschina esistenza!

Per uscire dal tumulto del mondo rinnegando la pace immutabile della “noluntas” schopenhaueriana alla quale mai volle o seppe ambire, strinse fulmineo il grilletto di una pistola.

Per la "volontà" di Schopenhauer infatti, anche il suicidio era da escludere almeno perché è ancora frutto di una decisione, di un volere attivo.

Se non dalla fede, da giovane Fitte era stato sorretto dal grande amore per la pittura e aveva fermamente creduto nell’assoluta estraneità dei pennelli e dei colori, al male di vivere.

Quando poi i pigmenti, i solventi e le vernici dovettero lasciare tempo e spazio ai timbri, alla corrispondenza e alle cartacce d’ufficio, la sua vita divenne assai meno consolatoria.

N’aveva discusso tante volte con Italo Svevo che era stato suo insegnante di corrispondenza commerciale all’Istituto Superiore di Commercio e che Umberto Veruda gli aveva fatto conoscere sotto altro aspetto.

In casa dello scrittore, che divenne suo paziente amico, uno degli argomenti preferiti di conversazione, come ci testimonia Livia Veneziani, furono i filosofi tedeschi che entrambi conobbero attraverso numerose letture.

In particolare, essi furono interessati al pensiero di Schopenhauer; ma se il filosofo di Danzica suggerì a Fittke che la prima forma o momento del processo di liberazione spirituale consiste nell’attività artistica, a trentasette anni egli, esausto, finì per non crederci.

Aveva capito che l’occhio del pittore sa liberare le cose dalla furia inarrestabile del divenire; sapeva pure che, attraverso la sua sensibilità era riuscito a scoprire anche nella parte più piccola e indefinibile della realtà, il riflesso di un sentimento, la sua ineluttabile presenza; aveva infine contemplato i suoi vari soggetti dopo averli a lungo studiati, disegnati e dipinti li aveva persino amati, ma smarrì la sua e la loro “coscienza” senza sottrarsi al dominio di una “Volontà” ormai stretta alle corde.

Gli divenne così intollerabile anche la loro contemplazione a distanza (n’aveva venduto un certo numero ad amici e collezionisti che avevano creduto in lui, primi fra tutti il dottor Piperita e Svevo!), lo schema spazio-temporale che in loro aveva cercato, l’isolamento di quei soggetti fissati dal perenne fluire del tempo e la loro immobilità.

Si pensi a Viale in autunno del 1903 e agli autoritratti di gran resa psicologico-espressiva.

Ma la limpida sfera estetica entro la quale mi sembra di poter collocare alcuni stupefacenti quadri di Fittke e su tutti la Bambina e il Mercato non sono poi tanti: la sua produzione, infatti, spesso costellata da fallimenti morali, non solo fu limitata, ma lo condusse continuamente a rimettere in discussione il proprio operare sempre alla ricerca di uno stile che, anche a mio avviso, mai conquistò completamente.

Fu osservato che non fu realista né impressionista, ma ciò conta poco: fisicamente debole, pessimo venditore di se stesso, fu costretto a lavorare per mantenersi e dopo gli illusori anni di Monaco che ricordava come i più felici della propria vita, non fu, se non per un breve periodo, pittore a tempo pieno.

Com’ebbe a scrivere di lui l’esimio professor Gioseffi, da Fritz von Unde egli improntò la sua particolare materia pittorica, ma poiché più sensibile, più femmineo, più delicato del Veruda, risalì fino al realismo luminoso d’Adolfo Menzel.

Ne “Il Piccolo” del 3 maggio 1955 apparve l’articolo di Gioseffi “Fittke pittore domenicale”; a distanza d’anni è ancora opportuno ricordare queste efficace osservazioni: “Si può accusare Fitte di non aver raggiunto un’unicità di forma espressiva, una maniera, uno stile definitivo.

In “arte” non vi è nulla di definitivo, se non la ripetizione accademica di forme cristallizzate. Egli ci appare come un artista che cerca la sua via, che sperimenta, che studia. Ed è da questo travaglio, che è vita, che un vero artista trae talora, quando le circostanze sono favorevoli, l’opera memorabile”.

L’olio su cartone dipinto nel 1909 intitolato Funerale di un bambino, proprietà del Civico Museo Revoltella pur essendo copia d’analogo soggetto, è appunto una di queste, così come Portici di Chiozza antecedente di qualche anno (1904).

 

 

La vita e le testimonianze

 

Arturo Fitte nasce a Trieste il 16 dicembre 1873 da Augusto, macchinista del Lloyd Austriaco e da Guglielmina Sahr, originari di Bredow, presso Stettino.

Dal 1891 al 1893, dopo aver frequentato l’Accademia di Commercio, s’iscrive al Biennio della Scuola Superiore di Commercio. Contemporaneamente segue le lezioni dello Scomparini presso la locale Scuola Industriale. Convince la famiglia che la sua strada è la pittura e va a Monaco dove, per cinque semestri, frequenta l’Accademia. Suoi maestri sono J. C. Herterich, R. V. Seiz, G. V. Hackl. Nel luglio del 1895 vince un premio all’Esposizione Accademica; per la prima volta presenta alla Borsa a Trieste alcuni quadri. Accanto ai lavori di Fitte, vi sono quelli di Bruno Croatto (Trieste 1875 – Roma 1948) che egli aveva conosciuto in Baviera e in compagnia del quale si recò più volte a dipingere.

Colà aveva pure frequentato Ruggero Rovan (Trieste 1877 – Trieste 1965) lo scultore cui fu sempre legato da profonda amicizia e con il quale ebbe un interessante carteggio. A Monaco la sua pennellata è già sensibile alla luce, ma quello che più conta è che egli s’innamora dei verdi acerbi, colori assai difficili nell’uso di qualsivoglia pittore, che non abbandonerà mai e che caratterizzano molti suoi dipinti.

In questi anni monacansi i paesaggi sono tra i temi preferiti di Fittke. Nel 1896 muore suo padre ed egli deve interromper gli studi: giunto a Trieste conosce Umberto Veruda e, per alcuni mesi, divide con lui uno studio. Frequenta l’ambiente intellettuale cittadino ed espone nella mitica “bottega” di Shollian senza ottenere consensi rilevanti. L’anno seguente, dopo la sfortunata partecipazione al concorso Rittmeyer con il quadro Inquietudine Umana per una borsa di studio triennale a Roma, entra come impiegato nelle poste e, simile a personaggio pirandelliano, comprende di impersonare una realtà sfuggente, d’essere vulnerabile. Il lavoro lo intristisce perché non gli consente di applicarsi nella sola attività che gli interessa veramente, la pittura. “Come si può dipingere esclusivamente di sera?”

Gli rimanevano le ineffabili, brevi intense giornate festive che spesso trascorreva nell’immediata periferia della città in cerca di un soggetto adatto, di un’atmosfera. Nell’agosto del 1898 è sicuramente a Venezia e l’anno successivo segue il corso di Nudo del Circolo Artistico. Continua a dipingere in silenzio per se stesso e quando sporadicamente espone (1900, 1901, 1904), non gli sono riconosciuti i giusti meriti. Finalmente alla prima esposizione del Circolo Artistico nella nuova sala “Permanente” a Palazzo Modello, ottiene buone critiche ed è notato da Adolfo Venturi. Nel 1907 partecipa alla VII Esposizione Internazionale di Venezia con l’opera intitolata Merlettaie di Burano e suggestionato dall’ambiente lagunare, probabilmente vi ritorna pochi mesi dopo. A Burano interpreta liricamente i paesaggi, ma senza badare ai classici elementi che resero celebri il Ciardi, il Fragiacomo e altri marinisti dell’Ottocento. La sua salute peggiora di giorno in giorno e la mente s’incrina; tuttavia negli anni 1908 e 1909 dipinge quadri assai importanti come La pergola di glicine, La processione del Corpus Domini, Viale Sant’Andrea al tramonto, Albero di Giuda, Fioraie in Piazza Ponterosso e Il giardino pubblico.

Subito dopo la sua morte di cui si è detto, nel giugno del 1910 a solo tre mesi dalla scomparsa una Mostra Commemorativa lo ricordò alla “Permanente”. Le testimonianze dirette che abbiamo su Fittke sono attendibili e numerose; nella Storia del Circolo Artistico di Trieste Carlo Wostry così lo descrive:

Sulla sua faccia che rassomigliava a quella di Cristo, gravava un’infinita malinconia che traspariva dai suoi occhi azzurri pieni d’affetto e di bontà per tutti. Come il Cristo gli piaceva armonizzare coi bambini e ne faceva soggetto dei suoi quadri. Schivo di tutto ciò che era profano, la sua arte era divenuta simbolo di religione, di bellezza, di castità.

Se ne discorreva, lo faceva con quella commozione con cui si parla delle cose sacre…

Ma il suo sogno ideale non poteva trovare corrispondenza nella vita vissuta. Era taciturno e talora ispirava pietà. S’indovinava la sua lotta interna, schiva di cercare lo sfogo che libera e rianima. Voleva il suo male solo per se, la nevrastenia lo vinse”.

Altri amici (Michele Moravez, Emerico Schiffrer), colleghi (Tullio Silvestri, Piero Lucano), critici (Silvio Benco), lo ricordano come uomo cólto, intelligente, in apparenza misantropo, sparuto, segnato dalla timidezza e dalla miseria. Giuseppe Garzolini ci suggerisce che la sua ipocondria lo aveva costretto a guardare il vero assolutamente attraverso il prisma del suo stato psichico.

“L’ultima volta che lo vidi, poco prima che si uccidesse, scrive fu in Piazza Mercato Vecchio e guardavamo il cielo.

Io gli facevo notare l’errore comune a tanti pittori, i quali, nel fare l’aria, alterano le leggi dello spettro solare, mettendo al posto del blu cobalto il blu minerale e viceversa. Egli mi ascoltava attentissimo. Poi come rapito da più alta preoccupazione, disse con voce più flebile dell’usato: “Non ci avevo mai pensato: ne prendo nota. Da ora in poi voglio guardar meglio”.

Nel 1951 per le edizioni dello Zibaldone uscì la pubblicazione (scritta molto tempo prima) di E.Schiffrer “Arturo Fittke, con lettere giovanili di Fittke e Rovan”; due anni dopo Eugenio Montale parlò di lui in un articolo apparso su “Il Corriere della Sera” e finalmente, nel 1955 il Comune di Trieste gli dedicò una mostra retrospettiva comprendente 33 opere nella Sala di Piazza Unità.

Riapparve così al pubblico, dopo un lungo oblio, un nucleo consistente di quadri che il dottor Giuseppe Piperita aveva acquistati con felice intuito di collezionista negli anni Venti e portati nella casa di Lussino. A sua nipote, professoressa Carlotta Ribecchi Piperita va il plauso sincero per aver contribuito all’approfondimento della ricerca storiografica sia attraverso i personali interventi critici, sia rendendo note testimonianze, documenti e opere facenti ormai parte di una collezione privata assai interessante e preziosa.

Ma destino volle che il timido impiegato pittore-dilettante, com’è stato definito, destasse maggior curiosità rispetto ad altri artisti della sua epoca: in ambito strettamente locale, s’intende, ma le opere di Fittke sono ormai pienamente rivalutate dalla critica e ricercate dai collezionisti anche se non è poi così facile trovarle dagli antiquari.

Se la sua pittura da un punto di vista squisitamente tecnico è talora “sporca”, essa gli consentì tuttavia, di raggiungere un’assoluta felicità creativa! Lo ha dimostrato in modo inequivocabile la dottoressa Renata da Nova nella bella ed esauriente monografia “Arturo Fittke” pubblicata nel 1979 per le edizioni Lint di Trieste. La ricerca, che risponde ad un preciso criterio metodologico, costituisce senz’ombra di dubbio, lo studio più accurato e preciso svolto sull’artista che, più di altri, fu incerto funambolo in vita.

 

 

Da Monaco a Burano: un itinerario di colori chiamato umiltà

 

In Baviera Fittke approfondì lo studio della figura e della composizione e disegnò molto all’aperto studiando la luce.

In una lettera scritta a Rovan il 15 settembre 1900, ricorda la commozione provata a Monaco nell’osservare una natura ricca di consonanze coloristiche, soprattutto d’autunno.

I colori prediletti da Fittke sono principalmente i bruni che per la loro tinta tranquilla, a seconda della loro intonazione tendente al giallo, al rosso o al nero, armonizzano o contrastano; il pittore usò la terra d’ombra naturale più di quella bruciata, il bruno di Marte che è colore solidissimo, il bruno Van Dyck e la terra di Siena naturale che si mescola bene con tutti i bianchi e con i colori fissi.

Li sperimentò con gran modestia e altrettanto fece con le velature. Inoltre, come si è detto, s’impadronì a poco a poco con decisione dei verdi, colori secondari composti di giallo e azzurro che contrastano con il rosso. Essi gli consentirono una ricchezza considerevole di tinte che non disdegnò impiegare pure nei ritratti! I verdi diventano infatti più o meno caldi d’intonazione in proporzione del rosso e del giallo che vi si aggiunge e il pittore smaliziato sa dosarli e renderli assai efficaci anche nel tratteggio coloristico di un volto. Solo dopo un lungo e accurato studio dal vero.

Fittke imitò la loro finezza e spesso gli riuscì di rappresentare in alcuni paesaggi, le infinite gradazioni date dalla natura. Si veda per esempio la Strada tra i campi, il bellissimo Cortile con figura del 1897-1898 e lo Studio di verde con vaso del 1907. Egli cercò di ottenere il massimo risultato visivo senza sprechi né di colore né di pennellate e dipinse assai spesso su cartoni preparati “a colletta”, poco ingombranti, nemmeno pesanti, soprattutto economicamente economici e di dimensioni piuttosto contenute.

Così scrive la dottoressa Da Nova: “Tutte le opere della fine degli anni Novanta si collocano ancora nell’ambito del realismo monacense (…) non senza però rifarsi per qualche aspetto, nel paesaggio, alla pittura dei maestri veneti del tempo, quale ad esempio Guglielmo Ciardi, proprio perché andavano incontro alla sua sensibilità, educata in ambiente tedesco”.

Sono riconducibili a questo periodo opere come Ciuffo d’albero, Dopo la pioggia; passato il secolo, la sua evoluzione coloristica è più decisa; oltre ai toni di rosa e azzurri diluiti con il petrolio, usa il rosso che spicca fortemente. Ciò si può vedere nei quadri Giovinetta con bimba nel prato del 1906, ne La pergola rossa e nella Processione ambedue del 1908. Ma le macchie di rosso brillante più azzeccate e coraggiose di Fittke (perché osare nella pittura ad olio è assai rischioso, ma lecito poiché si può correggere!), sono quelle delle mantelle delle “venderigole” nel Mercato del 1903.

Da non dimenticare infine che Fittke fu ritratto da Umberto Veruda; questo bel dipinto di cm 54,5 x 39,5 appartiene al Civico Museo Revoltella.

 

 

Walter Abrami