Arte e Unità d'Italia

 

Giovanni Attinà

 

 

 

 

 

Ma che c’entra l’Arte con l’Unità d’Italia?

Dell’Unità se ne parla, poco, ma qualcuno se ne ricorda ogni tanto per i 150 anni trascorsi; e se ne parla  anche per le pulsioni secessionistiche e centrifughe di valligiani e campagnoli padani, e per le continue "battute" provocatorie di qualche loro leader, che ha dimenticato o probabilmente ignora che l’Unità è stata voluta e fatta, soprattutto dai suoi corregionali.

Per la mia generazione, nutrita a scuola, è l’epopea del risorgimento italiano e della liberazione dallo straniero, l’Unità dell’Italia rimane, invece,  una realtà storica consolidata, irrinunciabile e immodificabile.

E l’arte? A me sembra che l’Arte sia vissuta con la storia: scrittori, poeti, musicisti, scultori e pittori hanno raccontato e raffigurato personaggi e fatti storici da sempre, fin dai graffiti e dalle prime civiltà.

E, nell’800,  il Romanticismo ha influenzato tutti i settori dell’arte; e, in Italia,  furono gli intellettuali e gli artisti a far nascere perfino l’idea dell’unità, partecipando poi spesso personalmente alle battaglie per raggiungerla.

Tanto per far qualche nome: Verdi, Manzoni, Foscolo e D’Azeglio, che fu scrittore, uomo politico e pittore. E, per restare nell’ambito della pittura, furono tanti, che è difficile ricordarli tutti.

Giovanni Fattori (1825/1908), e Telemaco Signorini (1835/1901), toscani, che presero parte alla guerra del 1859;  il napoletano Michele Cammarano (1835/1920), che partecipò alla spedizione di Garibaldi nel 1860, i fratelli milanesi Domenico (1815/1878) e Girolamo Induno (1825/1890), i napoletani Domenico Morelli(1826/1901) e Francesco Saverio Altamura (1826/1897), insorti a Napoli nei moti del 1848, e al seguito di Garibaldi nel 60, Filippo Palizzi (1818/1899); Eleuterio Pagliano(1826/1903) di Casal Monferrato che troviamo a Milano durante le cinque giornate nel 1848 e poi alla difesa di Roma nel 49;  Silvestro Lega (1826/1895), di Forli, Carlo Bossoli di Lugano (1815/1884), Felice Cerruti Bauduc, ufficiale dell’esercito piemontese.

Quasi tutti diventarono soldati, tutti giovani presi dal fuoco romantico e avventuroso, narravano, ritraevano e raffiguravano la realtà che vedevano, soprattutto soggetti militari, battaglie di prima linea, retrovie, morti e feriti, protagonisti e sconosciuti soldati,  luoghi,  cavalli ecc.

Ne ho scelti tre, con tre dipinti a mio parere significativi, e che danno modo di parlare anche della situazione storico-politica del periodo.

 

Gerolamo Induno. Giuseppe Garibaldi sulle alture di Sant'Angelo a Capua, 1861. Milano, Museo del Risorgimento.

 

 

Il primo è il dipinto che ritrae Giuseppe Garibaldi al Volturno nel 1860, di Gerolamo Induno. Gerolamo Induno fu un vero e proprio soldato. Nato a Milano nel 1825, nel '49 si arruolò tra i volontari garibaldini alla difesa della Repubblica Romana, assediata dalle forze francesi di Napoleone III, per rimettere il Papa al suo posto; chissà cosa ne penserebbe oggi qualche moderno padano, di un milanese, peraltro ferito gravemente, alla difesa di Roma "ladrona".

Guarito dalle ferite, nel 1855 partecipò con l’esercito regolare sardo, alla spedizione in Crimea, voluta da Cavour, insieme agli eserciti inglesi e francesi, contro la Russia.

Nel 1860, seguì Garibaldi nella spedizione nel sud Italia, fino all’ultima battaglia sul Volturno.

Come soldato–pittore eseguì disegni e bozzetti dal vero,  ritratti, e successivamente anche dipinti celebrativi dell’epopea risorgimentale.

Non mi sembra, invece, celebrativo né agiografico, il dipinto che ritrae Giuseppe Garibaldi davanti a Capua e al Volturno: con il suo sigaro in mano e con quel suo singolare  cappellino sulla testa, egli è umano, osserva la pianura pensieroso, perplesso e preoccupato per la battaglia. Nel dipinto, Garibaldi  guarda la pianura, si vede il fiume che scorre lontano fino a Capua e oltre. Sulla sinistra in basso il complesso monastico di S. Angelo in Formis (vedi su questo stesso sito dello stesso autore). Lì, in un piccolo un cimitero, si ritrova, ancora oggi, un gruppo di tombe risorgimentali, dove giacciono i caduti della battaglia del Volturno: è un luogo quasi sconosciuto, che versa in completo stato di abbandono.

Tornando al dipinto, se non fosse per la sciabola al fianco, nessuno prenderebbe  quel personaggio scamiciato, per il generale comandante.

Quasi a rimarcare la differenza nell'abbigliamento e nello stile della persona, sulla destra alle spalle di Garibaldi, si intravedono cavalieri in perfetta uniforme, probabilmente dell’esercito sardo, venuti in aiuto dei garibaldini.

Perché questa aria pensierosa, visto che fino a quel momento tutti gli ostacoli sono stati superati?

" Tutto è filato liscio - egli sembra pensare - da quando siamo sbarcati a Marsala: abbiamo avuto ampia protezione internazionale, la propaganda antiborbonica ha fatto effetto e quel birbante di Cavour ci ha dato comunque una mano, i picciotti siciliani ci hanno aiutato, i soldati napoletani erano coraggiosi, ma comandati male da personaggi vecchi e incapaci, e sicuramente corrotti.

Abbiamo avuto qualche problema con i contadini, come a Bronte, ma ci ha pensato Bixio a sistemare le cose.

Fino a Napoli è stata una passeggiata, ma siamo stati fortunati perché se era ancora vivo il vecchio re Ferdinando, probabilmente saremmo stati già buttati a mare, altro che unità d’Italia!

Qui  però, la situazione è diversa e più difficile, qui ce la vediamo brutta, non sarà come a Calatafimi, dove quell'imbecille di Landi – il generale borbonico - se ne è scappato mentre poteva vincere facilmente. Siamo sì cresciuti, ma abbiamo davanti un esercito regolare di gente arrabbiata e pronta a tutto, e c’è questo giovanotto, il re, Franceschiello, che sembra si sia svegliato, non ci sono più quei comandanti che si sono arresi al primo sparo.

Qui  mi sa che mi fregano, i napoletani hanno fortificato e messo cannoni dappertutto. Mi sa che abbiamo bisogno dell’aiuto dei piemontesi" 

Questo pensava Garibaldi mentre studiava la pianura del Volturno e non aveva torto a essere preoccupato.

La battaglia, infatti, volgeva a favore dell'esercito borbonico e si narra che lo stesso Garibaldi stesse per finire prigioniero nella zona di S. Angelo, fino a quando non arrivarono sul campo le truppe piemontesi dal Nord, che decisero l’esito finale.

Appare evidente che, considerata la vittoria conseguita, la raffigurazione di Induno, può essere intesa anche come celebrativa: sicuramente egli ammirava il personaggio, e volle celebrare un Garibaldi, che seppe affrontare  una vera battaglia manovrata, con un esercito  contro un altro vero esercito.

 

L’altro artista che ho scelto è Giovanni Fattori:  egli nacque a Livorno nel 1825, da una famiglia modesta, il padre artigiano e la madre casalinga. Mostrò fin da piccolo la passione per il disegno tanto che i genitori lo iscrissero a una scuola d’arte e successivamente  all’accademia di Belle Arti di Firenze, dove poi fu chiamato ad insegnare.

La Toscana era, allora, un piccolo Granducato restituito, dopo l’epoca napoleonica, agli Asburgo-Lorena, un protettorato austriaco, ma tutto sommato, abbastanza tollerante.

Le idee sulla nazione italiana e la lotta allo straniero facevano presa anche lì, i giovani venivano conquistati dalle idee liberali circolanti, tant’è che volontari toscani parteciparono alle battaglie delle guerre di indipendenza.

Fattori collaborò, in questo periodo, con il partito d’azione con il compito, modesto ma pericoloso di "fattorino di corrispondenza”, che non ho ben capito cos’è, sembra un distributore di fogli patriottici, e si diede a illustrare, oltre ai paesaggi della sua terra, soggetti di carattere militare presi dal vivo.

Intorno alla metà dell’800, a Firenze, si era sviluppato il movimento pittorico dei Macchiaioli, detti cosi, anche un po' in senso dispregiativo, perché consisteva nel rendere le impressioni che si ricevevano dalla realtà, dai soggetti quotidiani, dal vivo, con macchie di colori, di chiari e di scuri.

Giovanni Fattori si interessò a questa movimento e ne è considerato uno dei massimi esponenti.

 

 

Giovanni Fattori. Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta, 1861. Firenze, Galleria d'Arte Moderna.

 

 

Il dipinto che ho scelto è quello che illustra il campo "italiano" alla battaglia di Magenta, che fu il primo di carattere militare che egli dipinse.

Egli non mostra battaglie, né cariche di cavalleria o cannonate, né  fasi eroiche della battaglia, ma solo quello che c’è dietro.    

Il dipinto è del 1861, due anni dopo l’avvenimento, quando era già stato proclamato il regno d’Italia.  Il bozzetto di questo quadro fu presentato a un concorso indetto dal barone Bettino Ricasoli, toscano, che all’epoca, alla morte di Cavour, era stato nominato primo ministro. Il disegno piacque e il Fattori vinse il concorso e gli fu commissionata l’opera.

Nel dipinto si mostrano le retrovie, i soldati che vanno e vengono, i feriti, i morti lungo la strada, un carro con le suore che si prendono cura di un nemico, un soldato ferito,  austriaco, lo si riconosce dalla giubba bianca. La battaglia, a guardar bene, è lontana, se ne scorge il fumo delle cannonate e la polvere.

Quella di Magenta, svoltasi ai primi di giugno del 1859, fu una delle più sanguinose battaglie della guerra tra i franco-piemontesi da un lato e gli austriaci dall’altra, nella seconda guerra di indipendenza, il capolavoro politico di Cavour.

Per essere precisi innanzitutto, devo chiarire che il Piemonte era solo una regione del regno di Sardegna, che comprendeva l’isola, il Piemonte e la Liguria fino a Nizza e la Savoia, perciò parlare sempre di piemontesi è sbagliato.

Il regno non era certamente quel modello di democrazia e di giustizia che si è voluto o si vorrebbe far credere da molti storici: basti pensare che avevano arrestato e condannato Giuseppe Garibaldi  e Giuseppe Mazzini, che era in galera ancora al momento della presa di Roma nel ‘70.

La differenza, con gli altri Stati della penisola, la fece lo Statuto, una concessione  di Carlo Alberto nel 1848, e successivamente la presenza di quel genio politico di Cavour.

Vittorio Emanuele II, succeduto al padre, avrebbe fatto volentieri a meno di entrambi: dietro la mistica risorgimentale e patriottica c'era un uomo comune, piuttosto ignorante e grezzo, cresciuto e educato in un ambiente rigido e pedante, amante della compagnia e di buonumore, che non parlava una parola di italiano, ma solo il dialetto,  e qualche volta in francese. Egli non sopportava limitazioni al potere regio, e secondo gli storici mantenne lo Statuto non certo perché democratico, ma per opportunità e convenienza politica.

Egli fu sempre in contrasto con il Cavour, al quale dovette comunque cedere, riconoscendone la superiorità intellettuale e finezza politica. 

Il Regno era diventato, malgrado la disastrosa fine della guerra contro l’Austria del '48/'49,  centro di raccolta e rifugio di tutti i fuoriusciti e esiliati da altri stati, anche non italiani, che cospiravano e organizzavano moti e insurrezioni, pochi parlavano di unità, si pensava più a una sorta di federazione di stati, e gli stessi Savoia e lo stesso Cavour, non la riteneva fattibile, o almeno non subito, ma tutti erano d’accordo sul fatto di doversi liberare della influenza austriaca nella penisola.

Come tutti ricordano, fu necessario l’aiuto di quel vecchio cospiratore carbonaro di Napoleone III, e Cavour usò tutti i mezzi possibili, assecondandone i desideri e le debolezze, accondiscendendo a tutte le richieste, pur di raggiungere il suo obiettivo.

Per farla breve, nel 1859, l’Austria dichiarò guerra al regno di Sardegna e scese in campo anche la Francia, ci si guadagnò la Lombardia che, in fin dei conti, era da secoli il sogno dei Savoia, iniziarono le annessioni di altre regioni e successivamente la conquista del sud.

 

 

Michele Cammarano. Carica dei bersaglieri a Porta Pia. Napoli, Museo di Capodimonte.

 

 

Il dipinto, che più celebrativo e commemorativo non si può, è la presa di Porta Pia e l’ingresso a passo di corsa, dei bersaglieri, di Michele Cammarano.

Michele Cammarano, 1835/1920, nacque a Napoli, in una famigli di artisti: il nonno Giuseppe, pittore, gli insegnò i primi rudimenti, il padre Salvatore, fu uomo di teatro, librettista di Giuseppe Verdi con il Trovatore, e di Gaetano Donizetti,  per la Lucia di Lammermour. Michele frequentò prima l’Accademia delle belle arti di Napoli e poi la scuola di Posillipo, con Nicola Palizzi, fratello del più famoso Filippo.

Ebbe contatti anche con la scuola dei macchiaioli, e in quel periodo si dedicò a soggetti di carattere sociale e naturalistico.

Liberale e perseguitato dalla polizia borbonica, si unì alla spedizione di Garibaldi nel ‘60, e si arruolò nella guardia nazionale per combattere il cosiddetto brigantaggio.

L’esperienza di guerra lo indusse a dipingere soprattutto soggetti militari, come la Battaglia di S. Martino del 1862/63, il Quadrato di Villafranca del 1876/1880,  e la famosa Carica dei bersaglieri a Porta Pia, dipinto del 1871, inizialmente intitolato "Savoia, Savoia", evidentemente per celebrare la casa regnante.

Nel 1899 fu nominato professore alle Belle arti di Napoli.

Porta Pia, in realtà, fu un episodio marginale e di nessun valore militare, ma di enorme valore politico e ideologico, poiché pose fine al millenario potere temporale del Papa.

Basato su un falso giuridico, – la cosiddetta donazione di Costantino -, lo Stato Pontificio comprendeva tutta l’Italia centrale ad esclusione della Toscana.

Conservatore, retrogrado, antiquato, c’era stata l’illusione di un cambiamento con la nomina del cardinale Mastai Ferretti, Pio IX, che fu considerato, all’inizio e a torto, un liberale solo perché aveva concesso una amnistia ai detenuti politici al momento della sua elezione.

Dopo la fine della Repubblica Romana nel ’49, il papa e lo stato si era rinchiuso su se stesso, ed era difeso soprattutto da una guarnigione francese di stanza a Roma, oltre a un piccolo esercito locale e alle solite guardie svizzere.

Nel 1860, aveva perso l’Emilia Romagna, le Marche e l’Umbria, invase dalle truppe savoiarde che correvano alla conquista del sud, e annesse al regno sardo.

I rapporti con il neo regno d’Italia non erano stati idilliaci, ben sapendo che esso mirava a Roma.

Ai primi di settembre del 1870, Napoleone III aveva richiesto l’aiuto e l’intervento italiano contro la Prussia, che stava invadendo la Francia, ma il governo dell’epoca, che aveva cambiato gli accordi internazionali, sordo ai ricordi dell’aiuto ricevuto nel ‘59 contro gli austriaci, rifiutò.

Napoleone III fu sconfitto a Sedan e preso prigioniero, Roma non era più difesa dalla guarnigione francese, fu inviato un ultimatum al Papa di cedere la città, al quale egli ovviamente rispose " non possumus ".

La resistenza romana fu solamente formale, furono sparati pochi colpi a scopo dimostrativo; il 20 settembre 1870, una cannonata fece breccia nelle mura Aureliane, vicino porta Pia, e cessò – ed era ora - il potere temporale dei Papi.

Nel 1872, Vittorio Emanuele II volle che fosse dipinto un quadro celebrativo dell’episodio: Cammarano ricevette l’incarico, dopo aver illustrato il bozzetto.

Nel dipinto, che una volta compariva in tutti i libri di storia,  non si vedono cannonate, non è  raffigurata una battaglia, né si vede la famosa breccia.

Attraverso la polvere, evidentemente sollevata dalle macerie e dalla carica, Cammarano ci mostra il gruppo di bersaglieri, in ordine chiuso, all’assalto alla baionetta, a passo di corsa, così come  è nell’epica di quel Corpo.

Il gruppo sembra uscire fuori dal dipinto e da l’impressione di andare addosso a chi guarda.

Non manca l’accenno alla morte, nella rappresentazione del trombettiere che cade e al berretto a terra, di un nemico vinto.

 

                           

 

 

Giovanni Attinà

 

 

    


P.S.: A conferma dell’interesse sull’argomento: “ arte e unità d’Italia “, segnalo che in questi giorni, a Roma, sono già in corso esposizioni e mostre - e altre saranno aperte nei prossimi giorni – sul Risorgimento e sui pittori, patrioti e patrioti-pittori e i pittori-soldati; tra questi meritano una segnalazione Gerolamo Induno e Michele Cammarano con la carica dei bersaglieri a Porta Pia.
Nominato anche il macchiaiolo Giovanni Fattori.
Le foto e le notizie sono tratte dal “ Venerdì “ di Repubblica del 1° ottobre 2010.

 

 

 

 

La mostra illustra, attraverso un’ampia selezione di dipinti e sculture provenienti dalle collezioni del Museo di Roma e da altre importanti raccolte pubbliche e private, gli eventi più significativi della Roma risorgimentale: dalla Repubblica Romana del 1849, alla sconfitta di Garibaldi a Mentana, fino al definitivo crollo del potere temporale della Chiesa con la presa della città da parte dei bersaglieri il 20 settembre 1870.

 

 

 

 

In occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, le Scuderie del Quirinale presentano una grande mostra di pittura per illustrare gli eventi che tra il 1859 e il 1861 portarono il nostro Paese all'unità nazionale.
In esposizione le opere dei maggiori artisti dell'epoca (
Domenico e Gerolamo Induno,  Giovanni Fattori, Silvestro Lega, Francesco Hayez, Giuseppe Molteni, Eleuterio Pagliano, Federico Faruffini,  Odoardo Borrani, Michele Cammarano). Vengono messi a confronto, per la prima volta, i dipinti di Giovanni Fattori e Gerolamo Induno, nelle rappresentazioni delle fondamentali battaglie per la conquista dell'Unità. Ed ancora, dipinti che celebrano le vicende più importanti della nostra storia, dai moti del 1848, alle vicende dal 1859 al 1861, l'epopea delle camice rosse e la figura di Garibaldi nelle opere di Fattori, Gerolamo Induno, Filippo Liardo e Umberto Coromaldi.