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Arte a Trieste tra Otto e Novecento

 

 

Paolo Marini

 

 

 

Trieste, Canal Grande, "Isolato dei Berlam". Grattacielo di Arduino e Palazzo Gopcevic di Giovanni Andrea

 


Alla metà esatta del XIX secolo Giovanni Andrea Berlam fissa l'esordio dello storicismo eclettico in Trieste, elargendole il primo prospetto rinascimentale sul Canal Grande nel colorismo veneto del Palazzo Gopcevic. Radioso e conciliante, inaccessibile alla banalizzazione, sarà lo stimolo esemplare per gli architetti delle generazioni successive, almeno fino a quella del nipote Arduino, che un'ottantina d'anni più tardi salderà a questo fabbricato il fervore policromo del suo 'Grattacielo' sancendo un'ideale continuità di visione trascendente l'evolversi dei modi e delle mode. Che sono stati tanti.

 

Trieste, Chiesa Evangelica Augustana

 

Trieste, Tempio Serbo-ortodosso

 

 

Il revival del Gotico – ortodosso o composito – e la fascinazione per l'Oriente (testi essenziali: la Chiesa Evangelica Augustana, il Castello di Miramare e il tempio Serbo-ortodosso) preparano la strada al più coraggioso intervento monumentale nella città: il progetto della nuova Piazza Grande.

 

 

Trieste, Municipio

 

Trieste, Palazzo Modello

 

Così, nel 1875, Giuseppe Bruni, dopo il brillante assaggio angolare del Palazzo Modello, darà al Municipio il magnifico apparato di chiaroscuri e torre che resterà per sempre a sigillo della prosperità dell'emporio nel pieno della sua ascesa.

 

 

Trieste, Palazzo Lloyd Triestino

 

 

Trieste, Prefettura

 

 

Sulla platea, finalmente aperta al mare, ulteriori istanze stilistiche metteranno poi a confronto le sedi del Lloyd Triestino e della Luogotenenza; ma affinché questo accada si dovrà oltrepassare la soglia del nuovo secolo. Nel frattempo, Ruggero Berlam onora il padre dando corpo al sogno della renovatio urbis tra colpi di teatro (comunque perdonabili come peccati di generosità) e atti di autentica poesia architettonica. Nutrito dell'insegnamento neomedievalista di Camillo Boito all'Accademia di Brera, sarà ricordato dagli storici soprattutto come l'artefice del risarcimento italianizzante per una città che – come è noto – languiva nell'inazione mentre la civiltà dei Comuni stava fornendo al Paese il suo lineamento edilizio forse più genuino (quella che il Boito definiva la 'maniera municipale del '300'). Casa Leitenburg (1889) avrà in tal senso la forza di una dichiarazione d'intenti, oltre che di stile: lo si definisca fiorentino o centroitalico, resta in grado di operare una vera e propria sospensione d'incredulità, tanto più straniante quando se ne valuti l'impatto nella sua ubicazione assai lontana dal centro storico. Il merito specifico delle creazioni del Berlam risiede a ben guardare in questa loro singolarissima capacità di irradiante integrazione dialettica nell'assetto urbano. Progressivamente, e in una continua diversificazione delle proposte stilistiche che accetteranno via via il lessico rinascimentale, manierista e barocco, i suoi progetti tenderanno a conferire tono e atmosfera ai luoghi cittadini quasi a prescindere dal rispetto o dallo sprezzo delle preesistenze, e come se possedessero il dono d'improntare i rioni con risorse di gran lunga maggiori rispetto a quelle limitate nella mera dimensione catastale. Il fascino di questi progetti nasce dalla loro concezione intimamente medievaleggiante – apporti a una città da comporre, da dipingere pezzo per pezzo – e non da una verniciatura indistinta, o proditoria, di secondo livello.

 

Trieste, Case Aidinian, via Benedetto Marcello

 

La 'città della' Aidinian (cinque fabbriche sulla pendice occidentale del colle di san Vito culminanti in un blocco-fortezza munito di quattro inconfondibili torrette di spigolo),

 

Trieste, Palazzo Vianello

 

il palazzo Vianello con la sua cornucopia di applicazioni scultoree, la Scala dei Giganti modellata in una sorta di antropomorfismo presurreale, sono le tappe fondamentali di questo itinerario.

 

 

Trieste, Palazzo RAS

 

Trieste, Sinagoga

 

 

In seguito, nel periodo della piena maturità, il contributo del figlio Arduino sarà prezioso per l'elaborato più calibratamente spettacolare di organismi in cui la magniloquenza delle facciate varrà da preludio a una coltissima orchestrazione cromatica e ornamentale degli interni: il Tempio Israelitico (1912), dove la vena storicistica si avvale di sapienti recuperi archeologici, e la sede per la Riunione Adriatica di Sicurtà (1914), curata in ogni singolo dettaglio d'arredo, dai ferri battuti agli stucchi, dalla boiserie alla mobilia, per non parlare della formidabile fontana col Gladiatore realizzata in marmi assortiti dal fedele collaboratore Gianni Marin.

 

 

G. Marin, Fontana del Gladiatore
 


Forse anche in ragione di tale patronato ( Raimondo D'Aronco ebbe a definire i Berlam "padreterni dell'architettura") il gusto Art Nouveau s'inserì nella facies urbana con spirito più di protocollo burocratico che di effettivo ammodernamento, a meno che il demone dell'horror vacui non moltiplicasse i segni convenzionali dello stile in un parossismo decorativo abile a ritrovare proprio nell'eccesso una paradossale freschezza (Casa Smolars di Romeo Depaoli, 1907).

 

 

Trieste, Casa Smolars

 

Trieste, Narodni Dom

 

Ma le voci dei giovani forti di un bagaglio culturale aggiornato all'indirizzo viennese della Wagnerschule fanno da contraltare all'eclettismo in una maniera appena poco meno che sorprendente; ed ecco in Max Fabiani, Giorgio Zaninovich e Umberto Fonda la declinazione dello Jugendstil secondo cifre di volta in volta ascetiche (la Narodni Dom che porge la guancia al citato Palazzo Vianello;

 

Trieste, Casa Bartoli

 

Trieste, Casa Valdoni, particolare

 

Casa Bartoli che – perlomeno nell'aspetto odierno – si ricorda di essere floreale giusto nei festoni che scrosciano dalla cimasa), 'debussiane' (Casa Valdoni in via Commerciale, sognata con un piglio vagamente fantascientifico) oppure, ed è il meriggio più terso, di aurea prosodia

 

 

Trieste, Casa Fonda, angolo via Navali via Segantini

 

(case Fonda agli incroci Carpison/san Francesco, Testi/Galleria e soprattutto sull'angolo Navali/Segantini, baciato dall'ispirazione del capolavoro).

Come nell'architettura, così nella pittura. Smessa l'attrazione per la classicità, la nuova generazione, per un certo tempo non ancora incline a seguire percorsi di formazione alternativi al collaudato magistero delle accademie veneziana e viennese, attinge agli spunti trovati ora in un passato più recente e ricco di linfa coloristica, ora più semplicemente nella realtà, apprezzata in quanto tale e indagata con crescente amore della verosimiglianza ottica.

 

 

E. Scomparini, Il Genio incorona la Musica


Eugenio Scomparini (1845-1913) può considerarsi l'iniziatore di questa nouvelle vague; di fatto, sarà la figura dominante nell'ambiente artistico triestino, quella con cui, in un modo o nell'altro, si sarebbero dovuti fare i conti. Una pittura, la sua, che agli occhi della committenza altoborghese o istituzionale doveva apparire il non plus ultra del 'bel decoro', tra pompa e circostanza, sfondati tiepoleschi - opportunamente modernizzati con un pittoricismo dedotto dal Fortuny – e ritrattistica delle grandi occasioni.

 

E. Scomparini, Se mi vedesse

 

E. Scomparini, L'Odalisca

 

E. Scomparini, Ritratto di Margherita Gauthier

 

 

Malgrado la sua fama riposi in particolare sulle sgargianti icone femminili (sia pure per opposte ragioni, è difficile non cedere al fascino della Margherita Gauthier o della fraschetta che maliziosamente fantastica Se mi vedesse...) e i cicli allegorici di un Olimpo sempre piuttosto bene in carne, gli spiragli di maggior interesse sulla sua anima di pittore sono concessi dalle opere a dimensione di miniatura o poco più, dove la tecnica sempre squisita si rende traslucida a un soffio di poetica intimità (la Signora in abito bianco con cane, l' Odalisca).

 

 

G. Barison, Autoritratto


Meno sofisticato e più raffinato al tempo stesso si manifesta Giuseppe Barison (1853-1931), nei cui dipinti – essenzialmente ritratti, marine, scorci paesaggistici e d'interno – circola un lume adamantino che asseconda gli accordi di fragranti cromie, nella concentrazione di un silenzio da controra. Artista assennato per il quale l'insorgere dell'Impressionismo dovette apparire assolutamente logico e doveroso, piuttosto che scandaloso e inintelligibile.

 

 

G. Barison, Quasi oliva speciosa in campis (particolare)

 

L'occasionale frequentazione del soggetto sacro gli farà inoltre consegnare alla città (per una volta sia consentita l'iperbole) la più bella e intensa immagine devozionale dai tempi della vestizione musiva capitolina, quella Quasi oliva speciosa in campis esposta a Monaco nel 1899 e ivi acquistata dall'architetto Giacomo Zammattio.

 


G. Barison, Veduta di Pegli


Monaco, appunto. Agli inizi degli anni '80 alcuni ragazzi cui i consueti circuiti di apprendistato risultavano ormai troppo ristretti, compiono il gran salto e scelgono la capitale bavarese per il perfezionamento degli studi. Vi menano, com'è prevedibile, vita bohemienne e assorbono le suggestioni dell'Impressionismo attraverso la vulgata fattane da pittori quali Max Liebermann, oltre al richiamo courbetiano verso la raffigurazione del vero come recepito da un Wilhelm Leibl; né trascurano l'esempio degli illustri modelli seicenteschi, da Rubens a Velazquez a Rembrandt, interiorizzato oltre che per visione diretta anche grazie alle fiammeggianti revisioni del von Piloty o del Lenbach.

 

I. Gruenhut, Caricatura di Carlo Wostry

 


Tre sono i pittori che dal soggiorno monacense trarranno speciale partito: Carlo Wostry (1865-1943), Isidoro Gruenhut (1862-1896) e Umberto Veruda (1868-1904).

 

 

C. Wostry, Autoritratto

 


Figura quanto mai versatile, ricca di un talento che avrà modo di esprimere con la penna oltre che col pennello (sua la Storia del Circolo Artistico di Trieste), Wostry incontrerà tuttavia nel suo stesso eclettismo l'ostacolo principale a fissare un proprio canone d'individualità.

 

 

C. Wostry, Caricatura di Isidoro Gruenhut

 

C. Wostry, Caricatura di Marcello Dudovich

 

C. Wostry, Caricatura di Umberto Veruda

 

 

Per giunta, una disposizione conservatrice molto meno recondita di quel che potrebbe sembrare gli impedirà di mettere a frutto le ulteriori esperienze straniere (quella parigina in primo luogo), che non varranno a superare la qualità dei risultati raggiunti dalle opere compiute entro il penultimo decennio del secolo.

 

C. Wostry, Ritratto di Giuseppe Garzolini

 

C. Wostry, Ritratto di Pietro Sartorio

 

 

 

Licenziate nel 1887 le quattordici vaste tele della Via Crucis per Santa Maria Maggiore, invero degne di nota per il costruttivo svolgimento della materia chiaroscurale, stabilisce il suo primato in alcuni vigorosi ritratti 'larger than life' (Giuseppe Garzolini, buia sagoma ritagliata all'impiedi contro tenue fondale, Pietro Sartorio nerovestito, assiso fra un tripudio di tappeti e broccati) e sfiora il capolavoro nel modernissimo Autoritratto in controluce.

 

 

C. Wostry, Martirio di san Giusto

 

Da questo momento, sfrangia il percorso in un'esuberanza un poco fine a se stessa, per quanto non venga a mancare la possibilità di isolarvi attimi di indiscussa riuscita, come nel toccante Martirio di san Giusto, cui spetta l'onore dell'ostensione basilicale, o nella maliarda grazia neorococò della Scena boschereccia, o ancora nella calorosa istantanea del Quartetto triestino.

 

 

C. Wostry, Scena boschereccia

 

C. Wostry, Fede servita da Penitenza e Carità

 

 

Eccezioni a una torpida regola. Quando poteva già essere troppo tardi, eccolo però escogitare un riscatto retrospettivo quanto meno curioso. 1924, chiesa di San Vincenzo de' Paoli: se per l'anagrafe stilistica l'affresco della Fede servita da Penitenza e Carità non esce dalla tassonomia di un generico preraffaellismo all'italiana, la sincera contrizione d'una mano messa al cuore prima ancora che agli strumenti del mestiere compie il piccolo miracolo, arresta l'obsolescenza e accorda all'impresa la Salvezza di un equilibrio finalmente atemporale.
Tempra più coerente quella rivelata dal Gruenhut, morto a Firenze a soli trentadue anni, non prima, comunque, di aver profuse le sue doti eccezionali in pitture dove semplicità e pregnanza di visione concertano una sintesi altrove irreperibile nella pittura nostrana dell'epoca, e forse non solo.

 

I. Gruenhut, Ritratto di Umberto Veruda

 

 

I. Gruenhut, La bambola

 

 

Due sono sufficienti a definire la grandezza di questo artista che Wostry con ironico affetto soleva soprannominare 'il Gobbo': il Ritratto di Umberto Veruda, essenziale quanto erudito, omaggio tra i più spettabili mai tributati a Velazquez, e La bambola, il cui fatato stupore non sarebbe dispiaciuto, si può credere, al giovane Edvard Munch.

 

 

 

U. Veruda, Sii onesta!

 

U. Veruda, Terzetto

 


Vita breve e talentuosa, quasi atto di solidarietà col destino dell'amico Gruenhut, toccò pure al Veruda, salutato ai tempi come il più audace innovatore tra i locali. Sodale di Svevo, cui fungerà da modello per lo Stefano Balli di Senilità, dandy irrequieto, delizia dei caricaturisti, sarà in grado di destreggiarsi con slancio appassionato tra le sirene della mondanità (la perfetta fotografia belle époque del Terzetto, i fruscianti ritratti di dame e maggiorenti – servano a esempio quello di Nina Janesich Rusconi per le prime;

 

U. Veruda, Ritratto di Nina Janesich Rusconi

 

U. Veruda, Ritratto di Delfino Menotti

 

U. Veruda, Ritratto di Guido Grimani

 

del baritono Delfino Menotti per i secondi – oltre che di colleghi, tra i quali è doveroso ricordare la sopraffina effigie di Guido Grimani) e un patetismo 'larmoyant' sempre e comunque temperato dalle ragioni della pittura autentica: si apprezzino la sorprendente litote del Sii onesta!, acquistato con lungimiranza dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, e la bruna massiva partitura del De profundis.

 

 

U. Veruda, Fondamenta a Burano

 

U. Veruda, Nudo di schiena

 

Nelle ultime opere si accentua l'emancipazione del tocco: conquista ben visibile in modi virtuosistici nelle Fondamenta a Burano, ma affatto inediti nel frazionamento pulviscolare del Nudo di schiena, impegnativo ed enigmatico saggio di gusto addirittura sperimentale, quasi caleidoscopio postimpressionista, non a caso raccolto, alla morte dell'artista, dall'amico Italo Svevo.

 

A. Fittke, Fanciulla con bimbo


La scomparsa altrettanto prematura di Arturo Fittke (1873-1910) fu tragedia anche più dolorosa: incapace di pervenire a un armistizio con i suoi fantasmi, si diede la morte con un colpo di pistola. Schivo, modesto, rimase ignorato da quel successo di cui, in diversa misura, poterono invece beneficiare parecchi suoi colleghi; sfibrato dall'assillo di carpire alla natura i segreti della luce, circonfuse d'un alone tutto introspettivo la visione impressionista, appresa, come oramai era prassi, in quel di Monaco. Impressionismo sussurrato a fior di labbra, crepuscolare persino in pieno sole, e carico di trattenuta afflizione. Stringata la gamma dei soggetti: ritratti (per lo più teste, e in massima parte di bambini), cantucci fioriti, spicchi di paesaggio.

 

 

A. Fittke, Funerale del bambino (1909)

 

 

Se insorge la tentazione della 'scenetta', originalità compositiva unita a struggente lirismo di illuminazione scongiurano il rischio del disimpegno interlocutorio: il Funerale del bambino (1909), col suo taglio fotografico accarezzato di chiarore 'plein air', sta a provarlo in umile solennità.


"Aristocratico distacco" è formula nel complesso azzeccata per inquadrare la figura di Arturo Rietti (1863-1943), a patto che la si spogli di connotati snobistici e la si riconduca all'elezione di una nobiltà schiettamente sentita.

 

A. Rietti, Donna che legge

 

Pastellista provetto (poca pittura a olio nella sua produzione), attratto dalla Scapigliatura lombarda, trae da questo medium difficile ed elitario effetti di soggiogante ricercatezza, in una trama d'atmosfere prossime al versante più psichico e notturno del Simbolismo europeo: la Donna che legge ne sonda con scaltrita affabulazione gli esoterici territori.

 

 

A. Rietti, Dalla terrazza di Palazzo Carciotti

 

La concretezza tutelare dell'ammiratissimo Degas lo riaccompagna, talora, verso esiti meno capziosi. Come capitava agli stessi simbolisti, Rietti è poi anche in grado d'intuire l'avanguardia: un cosino di quadretto (parlando beninteso di dimensioni!) quale Dalla terrazza di Palazzo Carciotti, trattato a grossi fiotti di materia, proclama un abbandono pressoché astrattista;

 

 

A. Rietti, Veduta di Barcola

 

la Veduta di Barcola incorniciata entro il controluce d'una balaustra si approssima al Balla delle prove precedenti d'un millimetro la sintesi futurista. Coincidenze? Sicuro. Per singolare presa di posizione, il nostro si professa infatti ostile sia all'accademia sia agli "ismi" di rottura.

 

 

A. Rietti, Statuina giapponese inginocchiata

 

 

Non che ciò esaurisca le sorprese; la presenza della Statuina giapponese inginocchiata (culmine a un ciclo tardivo – siamo nel 1935 – di eterodosse nature morte) non può dirsi, a essere obiettivi, Metafisica in senso stretto, eppure non ci si troverebbe tanto facilmente a corto di prove se si volesse legittimare un qualche vincolo di parentela.
 

 

M. Dudovich, Fisso l'idea, 1899

 

 

M. Dudovich, Novità estive, 1908

 


Ad una generazione per la quale il mo(vi)mento Jugend rappresenta, ormai, soltanto una tappa giovanile appartiene Marcello Dudovich (1878-1962): a rigore, egli farà fruttare appieno le sue qualità di cartellonista negli anni '20. Nonostante questo, gli affiche che inventa, ad esempio, per la Federazione Italiana Chimico-industriale di Padova (Fisso l'idea, 1899) o per i Magazzini Mele & C. di Napoli (Novità estive, 1908) valgono come interpretazioni tra le più intelligenti di quella temperie; nella prima, segnatamente, agisce anzi una distillazione del messaggio pubblicitario che, pur accettandone in tutto la fisionomia – Beardsley è a un passo – travalica in ultima analisi le istanze dello specifico momento stilistico incarnando una modernità senza aggettivi.
 

 

Paolo Marini