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Antonio Canova
Alessandra Doratti
Quand'era vivo parlavano male di lui solo i colleghi invidiosi: il resto
d'Europa lo osannava. La notorietà e il prestigio di Antonio Canova
erano immensi, l'attività instancabile: un continuo andare e venire da
una corte all'altra, ospite di papi, duchi, imperatori, a ricevere
commissioni, a discutere progetti, a studiare dal vero fisionomie che
poi avrebbe pazientemente, acutamente rielaborato, con un lavoro che
spesso durava alcuni anni, attraverso disegni e bozzetti prima di
tradurre l'opera nel marmo. Scultura idealizzata, composta, eppure
vibrante di luce e chiaroscuri.
Antonio Canova era allora considerato unico, era un angelo di Dio, era
il sommo. Un secolo dopo la sua morte, avvenuta nel 1822, sembrava,
invece, doveroso parlarne male: artista freddo, stentoreo, cimiteriale.
Forse la definizione più gentile era quella di "accademico". Succede.
Aveva saputo dare il proprio volto a un'intera epoca
Eppure, pur rispecchiando lo spirito e il gusto del suo tempo, che amava
attingere al classico, Canova aveva dato il proprio volto a tutta
un'epoca; un volta non certo accademico anche se di molte accademie fu
principe o docente o sostenitore, ma creato e plasmato secondo un suo
intimo ideale di bellezza. Crea per così dire, anche una moda nella
bellezza, tanto che per lodare una donna si poteva parlare di "beltà
canoviana". Quando Ugo Foscolo in una sua famosa ode volle internare il
fascino di una signora intensamente amata, la fissò in atteggiamenti
inconfondibili: ".. quando l'arpa adorni", ". quando balli disegni".
Molti di noi ricorderanno bene ciò che ci dissero gli insegnanti a
scuola commentando questo disegnare dame, adornare arpe nell'ode
"All'amica risanata". Ugo Foscolo, dicevamo, seguiva, anzi vagheggiava,
l'ideale greco creando immagini e atteggiamenti classici, anzi
neoclassici, meglio ancora "canoviani". Bene, questi atteggiamenti li
ritroviamo nelle tempere del Canova. Sono studi, meditazioni sul bello,
conservati nella gipsoteca di Possagno, in provincia di Treviso, il
paese nel quale lo scultore nacque nel 1757. Ninfe, danzatrici, dee:
calme, innocenti, incantevoli bellezze.
Un tempo aveva fortuna, nei libri scolastici delle prime letture, un
aneddoto grazioso. Era ambientato in una casa patrizia veneziana al
momento del pranzo: pranzo sontuoso per invitati di riguardo. Tra le
varie portate, a un certo punto fu messo in tavola un leone di burro,
così ben eseguito che il padrone di casa, sollecitato dall'ammirazione
dei convitati, fece chiamare il cuoco per sapere chi fosse l'autore di
tanto piacevole, sia pur deperibile scultura. Venne fuori il nome del
giovanissimo aiuto cuoco, el Tonin, un ragazzetto venuto dal contado ad
imparare un mestiere. Ma quale mestiere? Fu chiaro che cuoco il
ragazzino non sarebbe divenuto mai, artista sì. Anche se l'aneddoto non
è vero, a verosimile. Antonio Canova, Tonin, veniva dunque da Possagno.
Era rimasto orfano di padre a quattro anni e affidato al nonno, modesto
possidente e scalpellino. Nonno Pasino Canova capì subito che il bambino
prometteva bene o pensò semplicemente che a Venezia il nipote avrebbe
avuto una più vasta possibilità di scelta? Impossibile saperlo. Comunque
egli inviò il nipote presso il nobile Giovanni Falier, il signore cui si
riferisce l'aneddoto che si rese conto delle attitudini artistiche del
ragazzo, l'allora piccolo Antonio. Lo mise a bottega presso uno scultore
e diede così l'inizio alla inarrestabile carriera del suo protetto.
I denari del nonno
per poter dedicarsi all'attivita preferita
Venezia era gaia e stimolante e viveva gli ultimi anni del suo fastoso,
decantato Settecento: i caffè, proprio allora di moda, ospitavano le
discussioni di artisti e letterati, pittori e vedutisti erano richiesti
e onorati, il teatro era motivo di commozioni e di baruffe, i filosofi
divulgavano anche per le dame le nuove figure illuministiche. Francesco
Guardi stava per essere ammesso all'Accademia e il Tiepolo, andandosene
alla corte di Madrid, aveva lasciato ai veneziani il godimento di tutti
i suoi capolavori.
Antonio Canova lavorava e studiava. Studiava alla Ca' Farsetti di Rialto
i calchi delle antiche sculture, studiava la sera all'Accademia e
lavorava sodo come garzone. Troppo, secondo il nonno che, al paese,
vendette un campo e gli mandò i soldi perché gli avanzasse qualche
giornata libera da dedicare agli studi prediletti.
Al Museo Correr di Venezia si possono ammirare due canestri di frutta in
marmo che costituiscono la prima opera commissionata al giovane Canova.
Il committente è ancora l'ottimo senatore Falier, che sicuramente nutre
fiducia incrollabile nel suo protetto. Ed ha ragione. Canova comincia ad
esportare le sue opere in piazza San Marco, all'Accademia alla
tradizionale festa dell'Ascensione. Ogni volta si rinnova il successo ed
ogni volta si infittiscono le richieste di lavori. Tutti lo vogliono.
Canova ha presto uno studio per sè, bello e grande, nel pittoresco Campo
S. Maurizio. Di qui l'ascesa è rapida: a ventidue anni è professore, è
stimato e protetto dai notabili. Va a Roma, ospite dell'ambasciatore
veneziano, incontra personaggi interessanti, importanti.
L'intellighenzia romana non fa che parlare delle recenti scoperte
archeologiche del tedesco Johann Joachim Winckelmann, e delle teorie di
un altro tedesco Gotthold Ephraim Lessing, sulla bellezza classica
ideale. Canova visita scrupolosamente i nuovi sacrari: Pompei, Ercolano,
Paestum e ne rimane scosso. La pittura pompeiana, poi, lo affascina:
colta, raffinata. Anche lui, Canova, è colto: legge molto, si fa leggere
i libri anche mentre lavora, studia il francese, l'inglese.
Come abbandonò le prospettive di matrimonio
A Roma gli dicono: sei bravo, hai stoffa, fermati qui. Potrai studiare
le opere antiche, allargare la tua fama e i tuoi interessi. Lui ci pensa
e intanto torna a Venezia. È difficile decidere di lasciare Venezia,
gli amici di gioventù, i mecenati affabili, i colori della laguna, le
piazzette. Venezia è uno stile di vita, è una culla. Ci sono stati già
distacchi dolorosi nella sua esistenza: la madre lo ha lasciato anche
lei a quattro anni, quando ha ripreso marito si è trasferita altrove;
non è stato semplice neanche lasciare il nonno, così presto. Ora, poi,
c'è una ragazza a Possagno. Si chiama Laura ed è la sua fidanzata.
Nel 1781 fa il gran salto. Abbandona Venezia e si trasferisce a Roma, ma
non vuole impegnare Laura. Addio Laura. Avrà subito dopo un'altra
fidanzata, a Roma, che si chiama, meno poeticamente, Domenica. Non
sposerà neppure lei. Si è accorto che le piace un altro e la lascia
libera. O forse ha paura di lottare in questo campo? Forse soffre di un
eccesso di responsabilità? I forse sono troppi. Canova non affronterà
mai più l'argomento matrimonio, e si terrà lontano anche dall'argomento
donna. Intanto la sua fama dilaga, le sue opere sono sempre più
richieste. Se nei primi anni di residenza a Roma il Senato veneziano lo
aveva aiutato fissandogli un appannaggio di 25 ducati d'argento, ora la
gran mole di lavoro oltre a dargli onori gli procurava notevole
ricchezza. I suoi protettori e i committenti più illustri sono i vari
papi che si susseguono, ma lo chiamano anche i senatori, gli ammiragli,
lo cercano i nobili russi, inglesi e polacchi. Ed è anche un bravo
pittore, anche se i maligni affermano che si indispettisce quando i suoi
quadri non vengono apprezzati allo stesso modo delle sculture. Nei suoi
ritratti a olio sa cogliere con molta finezza la psicologia dei
personaggi. I disegni sono impeccabili. Alcune opere stanno a metà tra
il disegno e la pittura: sono le tempere, dedicate a soggetti
mitologici. Le ninfe, appunto, le danzatrici, le Muse. Sono studi da cui
nasceranno, col tempo, alcune delle sue sculture più note e preziose,
come la Danzatrice col dito al mento, quella con i cembali, il gruppo
celeberrimo delle Grazie.
Nel 1789 Canova aveva passato la quarantina e si era ritirato per un
paio d'anni a Possagno. Desiderava dipingere, vale a dire che desiderava
stare in pace con se stesso a meditare. Napoleone era passato come un
tornado, molti avevano sperato in lui. Ma l'anno precedente egli aveva
ceduto Venezia all'Austria, tradendo le speranze di tanti patrioti
veneti. Fu una delusione, fu un dolore che l'artista non dimenticò. Di
Napoleone, comunque, fu ospite in seguito alla corte di Francia e ne
ebbe onori, incarichi innumerevoli per opere ben note. Ma passò
anche la meteora di Napoleone, e Canova, nel 1815, fu inviato in Francia
con lo speciale incarico di riportare a Roma i tesori d'arte confiscati
al Vaticano. Assolse bene il suo compito e si guadagnò dal Papa la
nomina di marchese di Ischia.
Tenuto d'occhio dagli
austriaci "È un sovversivo"
L' Europa intanto stava organizzando la Restaurazione: i plenipotenziari
dei vari Stati si riunivano a Vienna per quel Congresso che si proponeva
di far tornare le cose come se la rivoluzione francese e Napoleone non
fossero mai esistiti. Tutto doveva tornare come prima. Ma tutti sapevano
che tutto ormai sarebbe stato diverso. Anche Canova lo sapeva, e lo
voleva, se è vero che negli ultimi anni della sua vita egli era tenuto
d'occhio dagli austriaci come uno spirito rivoluzionario.
Nello stesso anno, il 1815, Canova si reca a Londra ad ammirare i famosi
marmi del Partenone che Lord Elgin aveva fatto trasportare da Atene.
L'incontro con l'arte immortale di Fidia fu sconvolgente e lo scultore
possagnese ne fu travolto, incantato. C'è chi è rimasto scettico su
questo incontro ideale tra il grande spirito classico e il grande
neoclassico ed alcun cinici sostengono che, quando Canova vide i marmi
del Partenone, si accorse di essersi sempre ispirato, non all'antichità
classica, ma alla copia che di essa era stata fatta nei secoli.
Ma Canova sicuramente non merita quest'ultima, compassionevole
cattiveria. Aveva sempre espresso se stesso nella copia ispirata
all'antico. Non aveva seguito una teoria alla moda per accontentare il
gusto dei potenti, ma aveva convertito i potenti al proprio gusto. Ne
aveva ricavato onori e ricchezze, ma con la ricchezza era stato
generoso. Aveva aiutato molti studenti squattrinati, molti artisti
poveri, aveva fatto la dote, per lascito, a ragazze da marito e senza
mezzi, aveva istituito scuole a Possagno e dintorni perché gli
analfabeti non fossero umiliati dalla propria ignoranza. Morì a 65 anni
nella sua cara Venezia, dalla quale aveva tanto ricevuto, ma che aveva
anche largamente ripagato.
Alessandra Doratti