Massimo De Grassi

 

 

"MOLTI DEI SUOI MODELLI SONO GITTATI DI METALLO PER SERVIGIO DI VARIJ PERSONAGGI":
ERCOLE E ANTEO DI STEFANO MADERNO

 

 

 

"Fino a questi giorni fu aperto codesto tesoro al maggior ingrandimento delle Belle Arti e con incessante concorso, oh Dio! Quale sia in presente il motivo ci è ignoto, che determinò il N.H. Antonio Farsetti fortunato erede e possessore d'una sì nobile e celebre collezione di far chiudere l'ingresso alla Statuaria, e con ciò impedire lo studio non solo, ma la veduta etiandio di sì pregevole e ricco Teatro.

Così, il tre maggio 1780, il presidente dell'Accademia di Belle Arti di Venezia pregava i Riformatori dello Studio di Padova di intervenire per far riaprire la celebre Galleria di Scultura di Filippo Farsetti, che fin dalla sua apertura al pubblico era stata meta imprescindibile per tutti gli allievi dell'Accademia veneziana. Proprio lì, inoltre, un giovanissimo Antonio Canova aveva avuto il suo primo contatto con l'antico, grazie a numerosissimi calchi in gesso dei più celebri esemplari di statuaria classica, ai quali Farsetti aveva accostato, sempre a fini educativi e didattici, un'altrettanto ricca raccolta di bozzetti e modelletti del barocco romano.

Alla morte del proprietario la collezione era finita per via ereditaria nelle mani di un nipote, Anton Francesco Farsetti, poco attento ai valori culturali e molto di più a quelli economici delle opere, che tenterà a più riprese di vendere, riuscendoci alla fine solo in parte. La supplica accademica del 1780 non ebbe altro esito se non quello di evitare l'alienazione degli oggetti, tuttavia le successive e tormentate vicende della Serenissima portarono infine alla dispersione di buona parte di quei preziosissimi materiali che finirono, per quanto riguarda le sculture, nelle collezioni dello zar Paolo I e quindi in quelle dell'Ermitage.

Fortunatamente non tutta la raccolta venne dispersa, molte terrecotte e quasi tutti i calchi in gesso rimasero infatti a Venezia per confluire, dopo varie peripezie, nelle raccolte dell'Accademia in seguito all'acquisto nell'agosto del 1805 delle "reliquie estreme del Museo Farsetti" da parte dell'imperatore Francesco I, che ne scongiurò così il rischio di una probabile ulteriore dispersione.

Scriveva a questo proposito Antonio Canova all'amico Antonio Selva il 12 gennaio 1805: "siccome sarebbe infinito il mio dolore se si avesse a perdere intieramente la Galleria Farsetti, tra le poche un tempo e forse singola in Italia. Io non so ricordarmi quanto veramente siasi cominciato a smembrarla delle forme, ma posso bene assicurarvi, che non saprei vedere senza il più vivo rammarico dell'anima mia il danno gravissimo che ne risulterebbe alla nostra accademia nel caso che il Sovrano non si volesse opporre validamente alla prossima intiera distruzione di codesta sceltissima e preziosa collezione di Gessi antichi. Tanto più che il male sarebbe appunto irreparabile ora che le migliori sculture sono a Parigi, senza speranza di poterne più avere gessi, e molto meno forme. Ma io voglio sperare che il nostro Savio Regio Governo non vorrà lasciarsi sfuggire sì bella occasione di dare un insigne monumento della sua benigna protezione e favore alle Belle Arti, o acquistando per esse codesti oggetti, che restano, o almeno inibendone espressamente l'estrazione da Venezia; giacché questi così possono fornire ampia materia, ed essere come base agli studj dÈ Professori e degli allievi. Ma oltre che dei gessi, lo stesso Canova si era avvalso anche dell'altra sezione della collezione di Farsetti, quella che raccoglieva opere del barocco romano. Ne è un esempio eloquente l'Apollino esemplato sull'Apollo e Dafne Borghese, che all'epoca gli era noto grazie alla piccola copia in gesso della Galleria e che era stata certo vieppiù stimolata dai numerosi modellini berniniani presenti nella Galleria sin dalla sua apertura.

Non sono note le dinamiche di acquisizione di questo materiale da parte di Filippo Farsetti, ma è tuttavia molto probabile che lo avesse acquistato sul mercato antiquario romano, dove agli inizi del Settecento doveva essere disponibile a prezzi più che accessibili. Secondo il primo catalogo della collezione, erano presenti 36 "Modelli di bassorilievi originali di creta cotta", 18 "Busti di creta cotta", 8 "Teste di creta cotta", 93 "Modelli originali di Figurine di creta cotta di tutto rilievo", per finire con 19 "Puttini originali di tutto rilievo di creta cotta": tutte opere sin da allora assegnate ai maggiori protagonisti del barocco romano, da Gian Lorenzo Bernini a François Duquesnoy, da Camillo Rusconi a Stefano Maderno. Il fondo relativo a quest'ultimo era poi uno dei più ricchi dell'intera collezione e contava una decina di pezzi, praticamente l'intera produzione superstite dello scultore in questo particolare settore della sua attività.

1 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Edinburgo, Royal Scottish Museum.

 

2 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Venezia, Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro.

 

Nelle recenti indagini sulla collezione sono venute alla luce opere autografe in precedenza prive di attribuzione, che hanno contribuito a creare un quadro quanto mai articolato della produzione di Maderno: si passa da esercitazioni sull'antico come il Laocoonte, l'Ercole e il piccolo Telefo, l'Ercole Farnese e il Neottolemo con il corpo di Astianatte, a copie da Michelangelo (Nicodemo con il corpo di Cristo), per finire con i lavori d'invenzione, incentrati sulla figura di Ercole, Ercole e il leone Nemeo, Ercole e Caco e le due redazioni (datate rispettivamente 1620 e 1622) dell'Ercole e Anteo (fig. 1-2), oggetto principale del presente studio e palesemente ispirato a fonti rinascimentali.

Come si evince da una bibliografa tutt'altro che copiosa e nient'affatto esaustiva, Maderno, secondo il primo biografo Giovanni Baglione, alternava l'attività di scultore "in grande" a quella di modellatore, spesso 'conto terzi', per opere destinate a una traduzione in bronzo o più raramente in marmo. Scriveva infatti Baglione: "Stefano Maderno Lombardo attendeva alla Scoltura, e da principio diedesi a restaurare le statue antiche; e faceva bene li modelli levati dalle più belle statue antiche, e moderne, che in Roma si trovassero. E molti dei suoi modelli sono gittati di metallo per servigio di varij personaggi, che di questa professione si dilettano, si per Roma, come per fuori, & a publico beneficio". Il biografo confermava, implicitamente, l'esistenza di numerosi bronzetti derivati da sue opere, ma anche, di un mercato riservato ai modelli finiti in terracotta, necessariamente più ridotto nel numero. Seguendo una tradizione tutt'altro che infeconda nel panorama romano di quegli anni, che distingueva in maniera piuttosto netta tra il materiale preparatorio e i lavori finiti.

Infatti, secondo una consuetudine centroitaliana trasmessa nella sua formulazione dal celebre trattato di Orfeo Boselli, il modello in argilla era elemento essenziale e imprescindibile nelle progettazione di un'opera: "non basta a lo scultore il disegnare semplicemente ma li conviene inoltrarsi in maggior fatica che è il modellare di terra i corpi in rilievo. E tanto più grande impresa questa di quella quanto è di più gloria vincere combattendo mille uomini che uno solo [...] Quando si fa manifesto che qualsiasi oggetto disegnando, una veduta sola siamo obbligati di esprimere, la dove modellando un corpo si fa mille vedute in un soggetto. Questa difficoltà avvantaggia il modello al disegno, il vero al finto. Quante volte lo scultore ha modellato una figura che la veduta principale è bona: ma quando si fa profili per vedere gli conviene mutare ogni cosa; quante volte un panno pare bello disegnato in carta che, posto nel rilievo, offende l'ignudo e sconvolge tutta la machina principale. Modellare non è altro che imitare il rilievo col rilievo"; e ancora Boselli affermava come la misura del modello "non deve essere meno di doi palmi, acciò che tutte le parti si possano conchiudere et terminare". Ne consegue che le terrecotte di Maderno, alte tutte più o meno il corrispondente di tre palmi, vadano considerate qualcosa di più di semplice materiale preparatorio e piuttosto alla stregua di opere autonome. Lo provano anche il grado sempre molto elevato di finitura e la patinatura molto accurata. Un'implicita conferma arriva anche dal fatto che si conoscono poche derivazioni da questi lavori in materiali 'nobili' come bronzo o marmo, derivazioni che si concentrano soprattutto intorno al citato Ercole e Anteo, ponendo come si vedrà non pochi problemi dal punto di vista interpretativo.

 

3 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Collezione privata.

 

4 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Collezione privata.

 

 

Il pretesto per una discussione in questo senso arriva dal rinvenimento, in una collezione privata, di un bronzo che raffigura appunto la lotta tra Ercole e il gigante figlio di Poseidone e di Gaia (figg. 3-4). L'opera, rivestita da una patina scura, è di qualità eccellente e versa in ottime condizioni di conservazione. Il basamento in marmo è stato applicato nel secolo scorso, come testimoniano i perni inseriti sotto la base in bronzo, che probabilmente è stata anch'essa modificata o sostituita in un momento successivo alla fusione.

Si tratta certamente di una derivazione da un modello dell'Ercole e Anteo maderniano, del quale, come si è accennato in precedenza, sono note due redazioni pressoché identiche. Entrambe sono realizzate in terracotta e hanno le stesse dimensioni: la prima, danneggiata e purtroppo frammentaria, è siglata e datata 1620 ed è attualmente conservata al Royal Scottish Museum di Edinburgo. In precedenza, nel 1738, era stata registrata nella collezione Clerk of Penicuik, a testimoniare la circolazione di questo tipo di opere fuori dal territorio italiano anche in date precoci. Una seconda redazione del gruppo, firmata e datata 1622, è invece esposta dal 1927 presso la Ca' d'Oro di Venezia dopo aver fatto parte della collezione Farsetti.

Dalle terrecotte citate e da quella di Venezia in particolare sono sicuramente derivati i due bronzi con Ercole e Anteo che attualmente si conoscono, caratterizzati dalla presenza della pelle di leone che supporta il gruppo al centro, secondo lo schema compositivo dettato dai modelli appena citati.

 

5 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Milano, Museo del Castello Sforzesco.

 

Il primo e più noto di questi bronzi è conservato al Museo del Castello Sforzesco di Milano (fig. 5), mentre un secondo è da poco approdato al Cincinnati Art Museum (USA, Ohio).

 

6 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Parigi, Collezione privata.

 

7 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Londra, Victoria & Albert Museum.

 

 

Derivano invece da rielaborazioni delle citate terrecotte le altre redazioni in bronzo dell'opera a tutt'oggi note. Una è riprodotta da Wilhelm Bode, e all'epoca apparteneva alla collezione parigina della contessa de Béarn (fig. 6): al centro presenta solo un frammento della pelle di leone che non tocca terra. Simile a quello parigino è il bronzetto di Dresda (fig. 7), dove la leontea invece è completamente sparita, come neI caso di un'ulteriore redazione di recente giunta nella collezioni della National Gallery di Londra.

 

8 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Londra, Victoria & Albert Museum.

 

Queste due ultime opere trovano riscontro in un'ulteriore redazione preparatoria, quella frammentaria del Victoria and Albert Museum di Londra (fig. 8), dove la leontea tra i due personaggi è scomparsa per lasciare posto a una sorta di tronco d'albero, e i capelli sono meno riccioluti e hanno un trattamento più raffinato, molto simile a quello dell'opera che qui si esamina. La difformità più evidente è la presenza di una grande foglia di fico che copre i genitali di Ercole, in luogo delle foglie più minute del bronzo presentato in questa sede. In conseguenza di ciò appare evidente che quest'ultima opera e gli altri bronzi di Dresda e della National Gallery di Londra non possano che essere derivazioni dal modello londinese tra loro indipendenti. Il modello è infatti realizzato in argilla dipinta ed è quindi facilmente ipotizzabile come che fosse destinato a supportare una fusione a cera persa.

Pope-Hennesy considera il gruppo eseguito direttamente da Stefano Maderno e ritiene "the group in clay and the versions in bronze should be regarded as derivatives from the Venice terracotta". In questo senso, anche alla luce dell'indubbia qualità esecutiva del modello londinese, paiono poco fondate le obiezioni di Bianca Candida, che vi vede "una stanca, impersonale, rozza ripetizione del gruppo che si trova alla Ca' d'Oro". Ancora diversa l'opinione di Antonia Nava Cellini che, non conoscendo la precedente terracotta di Edinburgo - comunque molto simile a quella di Venezia - rovescia e complica la cronologia affermando che "dell'Ercole e Anteo esiste una versione con varianti nel Victoria and Albert Museum di Londra, rispecchiata in un bronzo di Dresda che segna forse lo stadio iniziale di ricerca per l'ultima soluzione scattante e allungata, che vediamo nel bozzetto della Ca' d'Oro. Una constatazione che non trova riscontri all'esame delle opere.

 

9 - STEFANO MADERNO, Ercole e Anteo. Collezione privata.

In ogni caso, al di là di una seriazione cronologica comunque limitata ad un'arco di pochissimi anni, rimane evidente come il bronzo che si presenta in questa sede (fig. 9) sia certamente derivato da un modello di Maderno dell'inizio degli anni venti del Seicento. Più difficile datare la fusione, che tuttavia, per qualità complessiva e per la natura della patina - pur alterata da improvvide lucidature - non pare poter essere collocata oltre i primi decenni del Settecento.


 

 

Massimo De Grassi

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.

 

 

 

Arte in Friuli, Arte a Trieste  N°26                                                               © Edizioni della Laguna