Enrico Maria Dal Pozzolo

Un Cristo passo di Antonio Vivarini

 

 

 

 

La focalizzazione della figura di Antonio Vivarini è merito, come è noto, di Rodolfo Pallucchini, che entro la monografia dedicata ai tre familiari nel 1962 riuscì a delineare con grande sensibilità il ruolo fondamentale che il maestro muranese ebbe nella fase di transizione tra tardogotico e rinascimento a Venezia, mettendone in luce il particolare punto di tensione tra aperture a spunti continentali, specie toscani, e aderenze alla tradizione locale. Il catalogo prodotto e ragionato – tranne alcune rettifiche – è quello ancora oggi a nostra disposizione, con poche aggiunte successive dovute allo stesso Pallucchini, a Gamulin e a Zeri.

 

1. Antonio (e Bartolomeo?) Vivarini, Cristo passo. Bergamo, collezione privata.

 

 

2. Antonio e Bartolomeo Vivarini, Polittico della Certosa, particolare. Bologna, Pinacoteca Nazionale.

 

 

Può esser utile integrarlo con un numero di autografia certa e di indubbia qualità, finora –, a quanto mi consta – inedito (fig. 1). È un piccolo Cristo passo di collezione privata bergamasca (tavola, cm 30 x 23) che illustra il tema nella più arcaica delle iconografie adottate dal maestro muranese: quella che torna, a esempio, nei polittici di Bologna (1450) (fig. 2), di Osimo e della Vaticana (1464), e che dipende da un prototipo orientale diffuso in particolare grazie all'icona musiva in Santa Croce in Gerusalemme a Roma (del 1300, ma ritenuta originale e miracolosa). Essa fu reiterata dal fratello Bartolomeo e dal figlio Alvise, per giungere nel Cinquecento all'umanissima ritrascrizione nella tela della Scuola di San Rocco a Venezia, già ascritta a Giovanni Bellini e ora rivelatasi del suo fedele collaboratore Vittore Belliniano.

 

3. Bottega (?) di Antonio Vivarini, Cristo passo. Praga, Galleria Nazionale.

 

 

La postura del Cristo con le mani sovrapposte si differenzia da quella che prevedeva l'apertura delle braccia con l'ostensione delle stigmate allo spettatore, impiegata da Antonio nella sua prima opera datata (il polittico di Parenzo del 1440), in una cuspide a Praga (fig. 3) e da Bartolomeo in un paio di casi. Mediante l'impostazione frontale e simmetrica in entrambe si svolge il tema in termini di rigorosa atemporalità, al contrario di quanto avviene nel pannello centrale del polittico di Praglia ora a Brera (1448) o nell'esemplare della Pinacoteca di Bologna, laddove la tensione verso una diversa forma di naturalismo e di narratività produce composizioni più articolate e mosse, con nel secondo caso l'inserzione di un dettagliatissimo paesaggio. La sagomatura e l'incastro inferiore garantiscono l'appartenenza a un polittico, in posizione centrale del registro superiore (come nei casi del 1450 a Bologna e del 1464 alla Vaticana) o – preferibilmente, considerando le dimensioni ridotte – quale coronamento ultimo in forma di pinnacolo, con tanto di cornice fiammeggiante perduta. Stilisticamente il dipinto si pone nella fase centrale della carriera di Antonio, tra lo scadere del quinto decennio e i primi anni del successivo. Se infatti la tipologia e il disegno di ogni dettaglio sono quelli consueti negli anni Quaranta, nell'irrobustimento plastico e nell'accentuazione chiaroscurale si coglie l'eco del viraggio in senso patavino che — a seguito delle presenze della bottega in città tra il 1447 e il 1451 — si ebbe nel fratello Bartolomeo, nel 1450 succeduto al defunto Giovanni d'Alemagna quale collaboratore di Antonio.

Questi dati lasciano spazio, com'è ovvio, alla formulazione di più ipotesi, ma una in particolare merita di essere ragionata: quella relativa al polittico eseguito nel 1451 da Antonio e Bartolomeo per l'altar maggiore della chiesa di San Francesco a Padova, smembrato tra Settecento e Ottocento ma menzionato da varie fonti, a partire da Marcantonio Michiel. Da esse si ricava che l'opera era impostata su due ordini: in quello inferiore stavano a piena figura i santi Antonio da Padova, Pietro, Francesco, Paolo e Ludovico, in quello superiore altri quattro a mezza figura attorniavano la Madonna col Bambino, a sua volta sormontata da un Cristo morto. In un denso saggio del 1975 Federico Zeri tentò una ricostruzione del polittico, individuando Antonio e Ludovico in una vendita Dorotheum a Vienna (1974), Pietro e Paolo nella Galleria Nazionale di Praga, i due pannelli in alto a sinistra nei santi Chiara e Giovanni Battista del Kunsthistorisches Museum di Vienna, la Madonna col Bambino nell'esemplare dell'Art Museum di Worcester e l'Imago pietatis nella tavola cuspidata di Praga (fig. 3): ignoti gli risultavano il San Francesco centrale e i due pannelli superiori di destra.

Uno di questi, raffigurante San Bernardino da Siena, fu recuperato da Vavra sempre nella Galleria Nazionale di Praga, laddove nel 1991 la Hlavácková riconobbe una Madonna col Bambino di Antonio assai simile a quella di Worcester, ma cuspidata (come attestato dalle fonti patavine) e di dimensioni più congrue. Così integrata ed emendata, la ricomposizione di Zeri va rimessa in discussione pure per quel che riguarda il Cristo morto, per motivi che lo stesso studioso non si nascondeva. Egli lo accostava agli altri numeri per due ragioni: la provenienza dei dipinti di Praga dalle collezioni di Tommaso degli Obizi al Catajo (cui dovette pervenire il polittico o parte di esso dopo l'alienazione da San Francesco) e l'ipotesi che un simile, ancorché più tardo, Cristo morto di Bartolomeo già nella raccolta Lazzaroni a Roma — che connetteva a un San Francesco orante a piena figura dello stesso Bartolomeo a Bari — riproducesse per l'appunto il modulo figurativo adottato nel 1451 dai due fratelli.
Non mancava tuttavia di ammettere che mentre tutti gli altri pannelli sono accomunati da un sostenuto grado qualitativo, da analoghe punzonature e da un'inestricabile collaborazione tra Antonio e Bartolomeo, in questo a Praga «la fattura ne è assai sommaria, e nei nimbi gli ornati più andanti e meno ricchi che non negli altri pezzi qui considerati» ascrivendolo quindi, genericamente, alla bottega di Antonio Vivarini. In effetti la proposta — anche alla luce del Cristo riemerso — sembra da rivedere. Anzitutto la tavola ceca risulta, come già indicato da Pallucchini, un prodotto più antico del 1451, verosimilmente della metà degli anni Quaranta (e non per nulla Zeri l'assegnava alla bottega del solo Antonio, anziché a quella in comune con Bartolomeo come per tutti gli altri pezzi). In secondo luogo va riconosciuto che il nuovo pezzo appare più confacente alla Madonna
col Bambino sia sul piano stilistico che su quello compositivo. Ma soprattutto va rilevato che in esso compare quel dato tecnico che aveva consentito di rilegare gli elementi dell'insieme, ossia la fattura degli ornati dei nimbi: Zeri riscontrava che «nei pannelli in questione i fregi eseguiti a stampo sono arricchiti da motivi a mano libera, incisi nell'oro, sia all'interno dei cerchi concentrici che all'esterno, subito oltre il giro più ampio», e portava a esempio un dettaglio del Sant'Antonio che «mostra assai chiaramente questo particolare, assai raro anche per un catalogo così esteso come è quello di Antonio», e che riproduco a mia volta (fig. 4).

 

4. Antonio e Bartolomeo Vivarini, Sant'Antonio di Padova, particolare. Vienna, mercato antiquario (già).

 

 

5. Antonio (e Bartolomeo?) Vivarini, Cristo passo, particolare. Bergamo, collezione privata.

 

 

Come si vede, la somiglianza con l'ornato del Cristo bergamasco (fig. 5) è notevolissima, e le minime differenze dovrebbero spiegarsi con le dimensioni del nuovo esemplare, inferiori a quelle degli altri pannelli. E possibile che esse dipendano dal fatto che la maggiore altezza del San Francesco centrale sospingeva verso l'alto anche la Madonna col Bambino, con la conseguente necessità di calibrare l'effetto complessivo mediante un coronamento di piccolo formato. Che si trattasse di una figurazione in qualche modo 'accessoria' sembra peraltro desumibile dal silenzio di Michiel nella sua pur ampia menzione mentre andrà notato che Giovanni Maria Sasso — la fonte più accurata nel descrivere l'insieme — precisava che il Cristo stava in una nicchia «che serve di cimiero» (il che induce a pensare, appunto, a una differenziazione di misure).

In ogni modo va ribadito come pure in questo pezzo si riproponga il problema dell'interazione tra Antonio e Bartolomeo. È difficile dubitare che l'impostazione generale spetti al più anziano dei due, per quanto in certo grafismo tagliente si percepisca l'inclinazione squarcionesca del secondo. Si tratta tuttavia di un quesito di difficile soluzione, come già ammetteva Longhi in una nota del 1960 dedicata a un tentativo di dicotomia tra le due mani nel corpus di questi anni, allorché, a esempio, rilevava come nell'altare del 1450 (pure eseguito in concomitanza, con zone variabilmente attribuite ora all'uno e ora all'altro) «la parte di Antonio si riduce a ben poco: il Bambin Gesù, i due angioli nell'ordine superiore ai lati del 'Cristo di Pietà' e quasi niente altro». Il quadretto bergamasco serve così anche per il confronto con il similissimo Cristo bolognese, che si conferma in effetti eseguito da Bartolomeo su un modello di Antonio (fig. 2): basti osservare come le mani esili nell'inedito (tipiche del maggiore dei fratelli) si mutino nel polittico in quelle ben più strutturate del 'patavino' Bartolomeo, che staglia sulla lastra tombale un drappo d'intaglio mantegnesco che — in quella che fu la sua prima opera pubblica — suona come una inequivocabile dichiarazione di intenti.

 

 

 

Enrico Maria Dal Pozzolo

 

 

 

 

P.S.: Nel testo corrente sono state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.

 

 

 

 

ARTE Documento  N°14                                                                 © Edizioni della Laguna