Storia totalizzante del territorio

 

 

Lorenzo Braccesi
 

 

 


Frammento di lékytos a figure nere, prima metà del V secolo a.C., da San Giacomo in Paludo. Soprintendenza Archeologica del Veneto.

 

 

Ci sono due modi di fare storia locale: o come ricerca concreta, in ambiti delimitati, su grandi temi riguardanti la storia generale, oppure come indagine di storia totale interessata a un determinato territorio. Quella di Dorigo, quella che rivela Venezie sepolte nella terra del Piave, è storia totale; anzi, storia 'totalizzante' del territorio nel senso più pieno. Sia sotto il profilo dell'indagine interdisciplinare, e quindi dell'integrazione di metodologie di ricerca; sia sotto il profilo della diacronia storica, che investe il campo d'indagine lungo l'arco di duemila anni.
Il campo d'indagine interessa il territorio della laguna settentrionale compreso fra il basso corso della Livenza e il basso corso del Piave, e quindi interessato, soprattutto, all'area dei comuni di Jesolo, Eraclea e Ceggia. Sotto il profilo dell'indagine interdisciplinare, Dorigo e la sua équipe hanno utilizzato non solo testimonianze offerte dall'archeologia, dalla storia dell'arte, dalla paleografia e dall'archivistica, ma anche risultanze fornite dall'elettromagnetica, dalla geologia, dalla oceanologia e dalla malacologia. Sotto il profilo della diacronia storica Dorigo e la sua équipe hanno interrogato il territorio dalle labili tracce della sua più antica centuriazione in età romana ai segni - e talora alle offese - delle politiche di bonifica dell'Italia unita: lungo l'arco, appunto, di duemila anni. Un arco che ingloba - in età medievale e moderna - la storia della Repubblica di Venezia, ma che, cronologicamente, non coincide con la sua vicenda storica.
Ne risulta, a livello operativo, un modello di ricerca esemplare. Il territorio - oggetto di indagine - è scrutato attraverso un microscopio, le cui lenti, col progredire dell'indagine, acquistano sempre più in potenza, focalizzando dati sempre più essenziali: quali la trasformazione del paesaggio, l'antropizzazione del territorio, la densità demografica, la commistione degli ethné. Dati che anche la buona storiografia locale mai riesce a cogliere, né tantomeno a organizzare, in forma sistematica, entro solide griglie metodologiche.
Le novità sono grandi, soprattutto per - quella che io chiamo - la storia di Venezia prima di Venezia. Novità quindi relative alla periodizzazione più antica degli insediamenti lagunari, dall'età della romanizzazione fino a epoca bassomedievale; insediamenti che, lungo un arco cronologico di oltre mezzo millennio, si ricompongono finalmente in un quadro organico. Il quale è profondamente unitario in tutte le sue componenti perché indagato - come scrive Dorigo - "nei movimenti della terra, del mare, dei fiumi e degli uomini". Ciò che consente di dissotterrare le Venezie sepolte nella terra del Piave; ma che consente altresì di aprire nuovi orizzonti anche per un riesame di tutti i materiali pertinenti le età più recenti della storia degli insediamenti nordlagunari.
Questo modello di ricerca mi ha affascinato; e poche volte, come in questo caso, la lettura è diventata stimolo continuo per sistemare in forma armonica dati che prima fluttuavano molto scompostamente nella mia mente. Ma non sono un tuttologo, e mi limiterò quindi a una considerazione di metodo, su un punto che è chiave di volta del libro e che può guidarci a riscoprire realtà ancora più antiche di quelle qui indagate. Realtà cui mi sento più vicino, quali quelle relative al paesaggio rimodellato dall'uomo già in età preromana.
Scrive Dorigo: "Il ruolo e gli insediamenti che il territorio fra Sile e Livenza ebbero nell'antichità sono stati sistematicamente ignorati (...) dalla storiografia moderna (...) succube del tópos della mitografia tradizionale veneta circa l'origine tarda degli insediamenti nelle isole della laguna". Il che - sempre a dire di Dorigo - ha portato all'elaborazione dello "schema dell'insularità come struttura difensiva rispetto ai barbari più volte invasori, sì che altrettanto necessario doveva risultare il corollario - che è stato anche chiamato 'delle origini selvagge' - per tutte le età precedenti".
Su questo punto vorrei richiamare l'attenzione. Proprio il rifiuto, salutare, della tesi dell'origine tarda degli insediamenti lagunari porta Dorigo a sottotitolare il volume "duemila anni fra il dolce e il salso". Dunque duemila anni di storia di Venezia! Dorigo è controcorrente (ed è per questo che le sue tesi mai sono piaciute ai benpensanti), ma, provocatoriamente, vorrei essere ancora più controcorrente di lui.
Quando inizia la storia di Venezia? La risposta è duplice. Inizia o quando il suo mare - l'altoadriatico - è stato interessato ad arcaicissimi contatti con il mondo egeo, ovvero quando Venezia nasce come città. Il divario cronologico è immenso: di oltre un millennio. Soffermiamoci sul primo aspetto del problema. Quale il mare di Venezia e in che rapporto si pone con il mondo egeo? Per i Greci - che qui si spingono a commerciare dalla remotissima area egea - l'altoadriatico è tout-court l'Adriatico. Il mare che prende nome da Adria e che, delimitato dal Po e dal Timavo, lambisce la frangia lagunare veneta - quella che, a mio avviso, è esattamente la Venetia di Plinio -. Il mare che il mito greco vuole percorso da eroi senza ritorno, fondatori di città, come Antenore e Diomede, oppure navigato dagli argonauti, ovvero sorvolato da Fetonte. Venezia è al centro di questo piccolo mare, ma, al navigante greco, il suo territorio e il suo spazio lagunare si presentavano certo molto, molto diversi dalla realtà di oggi. Ci è però impossibile precisare la misura di tale diversità. Se prestiamo fede ai geografi antichi, che favoleggiano dell'esistenza di misteriose isole Elettridi o Cassiteridi presso il litorale padano, possiamo supporre che essi abbiano in qualche modo potuto vedere, e 'fotografare', un paesaggio lagunare in qualche modo simile al nostro. Se poi riandiamo alla descrizione liviana della navigazione adriatica di Cleonimo, possiamo anche pensare che il navigante greco fosse a conoscenza di una rotta diretta che puntava sulla laguna di Venezia in corrispondenza della bocca di Malamocco.
In ogni caso, tanto le isole dell'ambra (Elettridi) o dello stagno (Cassiteridi) quanto la navigazione di Cleonimo mostrano come la frangia lagunare veneta non fosse ignota ai Greci: sia che in età arcaica vi venissero a importare materie prime provenienti dal nord Europa, sia che in età tarda - come il principe spartano - vi venissero animati da spirito di conquista. Certo, se l'area dove sorgerà Venezia è stata frequentata da Greci, ciò fu per riflesso dei loro intensi commerci nei limitrofi empori internazionali di Adria e di Spina. Ma una tale frequentazione non si può più negare, poiché oggi ceramica attica è stata restituita, in contesti databili, da Altino, da San Giacomo de Paludo e altri siti dell'area lagunare.
Già prima che Venezia si proietti sul Levante, il Levante si era proiettato su Venezia! Stando così le cose, si può essere ancora più controcorrente di Dorigo nel ricostruire la storia di Venezia prima di Venezia, e - vorrei sottolineare - con un riverbero costruttivo anche per quanto concerne alcuni dei grandi temi indagati.

 

 

Reperti della stazione archeologica di San Leonardo in Fossa Mala, seconda metà del V secolo a.C. Soprintendenza Archeologica del Veneto.
 

 

 


Basti un solo esempio. Dorigo scrive cose davvero innovative sulla viabilità lagunare in età romana, con particolare riferimento ai canali che consentivano una navigazione 'endolagunare' fra Ravenna e Altino, con successiva prosecuzione fino ad Aquileia. In particolare si domanda "se la via d'acqua già nota a Plinio, mediante flumina et fossas inter Ravennam Altinumque (...), ma attestata più tardi fino ad Aquileia (...), sia stata aperta in età preromana, o repubblicana, o all'inizio dell'età imperiale". Per poi concludere che questa via d'acqua è di età romano-repubblicana ed è stata aperta dal console Publio Popillio Lenate nel 132, con collegamento di tratti fluviali tramite brevi fossae attraversanti le paludi retrostanti i dossi litoranei. Ne sarebbe relitto il toponimo Poveglia, relativo alla statio di una presunta fossa Popilia che avrebbe unito fra loro Chioggia e Altino (per poi proseguire in direzione di Aquileia come fossa Popilliola).
Dorigo ha pienamente ragione perché, a mio avviso, si può dimostrare che tale ipotizzata fossa Popilia è stata a sua volta preceduta da una più antica fossa, scavata, più di due secoli innanzi, dai Greci di Siracusa che colonizzarono Adria nell'età di Dionigi il Vecchio. Ma procediamo con ordine! La fossa Popilia, ipotizzata da Dorigo, prosegue il percorso della fossa che poi, ampliata dall'imperatore Claudio, prenderà nome di fossa Clodia. Ma come si chiamava in età precedente, e probabilmente ancora nell'età del console Popilio? Si chiamava fossa Philistina, e univa - come la fossa Clodia - Adria con Chioggia e prendeva anch'essa nome - come la fossa Clodia - da chi ne era stato il promotore. In questo caso non un imperatore di Roma, ma un ammiraglio di Siracusa: Filisto, consigliere e storico di Dionigi il Vecchio.
Ma abbiamo elementi per affermare che la fossa Filastina si addentrasse in laguna, oltre Chioggia, anticipando così il medesimo percorso viario della futura fossa Popilia? La risposta non può essere che affermativa se è vero - come sostengono i linguisti - che Pellestrina prenda nome da Philistina così come Chioggia trae nome da Clodia.
Ovviamente, se l'isola di Pellestrina prende nome da Philistina, ciò comporta che essa fosse lambita, sul fronte della laguna, dal medesimo canale navigabile siracusano che già univa Adria con Chioggia per poi proseguire verso settentrione. Un canale che, correndo parallelo a Pellestrina, metteva in connessione Adria siracusana con il mare aperto, non solo alla bocca di Chioggia, ma anche a quella di Malamocco. Cioè al trivio posto presso l'antico approdo del Medoakòs, donde si dipartono anche le vie fluviali o endolagunari che portano a Padova o ad Altino. Qui ormeggia la sua flotta da guerra lo spartano Cleonimo nel 302 a.C., e qui erano approdati, molti secoli innanzi i più antichi portatori della leggenda di Antenore.
L'ipotesi - avanzata da Dorigo - dell'esistenza in laguna di una fossa romana di età repubblicana, quale la fossa Popilia, appare tanto più probabile se essa, già a sua volta, ribatteva il tracciato di un'altra fossa scavata dai Siracusani. I Romani, al tempo di Popillio Lenate, di fatto non fanno altro che riattare la funzionalità di un canale già operante da secoli, consolidandone, con un nuovo scavo, la viabilità e munendolo di stationes. Esattamente come faranno in età imperiale con la fossa Flavia, che ribatte il tracciato di un precedente canale etrusco che collegava Spina con Adria. "Fossa" come scrive Plinio "quam primi ( ..) fecere Tusci egesto amnis impetu per transversum in Atrianorum paludes".
Né peraltro gli ingegneri di Siracusa erano secondi a quelli di Roma nella realizzazione di fossae lagunari, se la tradizione conserva memoria proprio di immani opere di costruzioni di canali progettate o realizzate per iniziativa di Dionigi il Vecchio: a Siracusa (lungo le mura urbiche), in Magna Grecia (attraverso l'istmo lametico-scilletico) e nel Gargano (in prossimità delle paludi sipontine).
Sono consapevole di avere indugiato oltre il dovuto solo su un singolo punto della ricerca, davvero monumentale, condotta da Dorigo, e me ne scuso. Ma avevo detto "ab uno disce omnes". Spero quindi che sia risultato chiaro che quanto ho detto non era per indugiare - sia pure nell'assenso - su un singolo problema affrontato da Dorigo, ma per mostrare la mia adesione al presupposto metodologico che informa tutta la ricerca: quella di reagire al tópos storiografico dell'origine tarda degli insediamenti lagunari, e quindi al dogma dell'insularità quale struttura difensiva.
Dopo Venezia origini e dopo le Venezie sepolte nella terra del Piave si respira, negli studi, un'aria più salutare. E' merito di Dorigo! A lui dobbiamo - e dovremo sempre - essere grati.

 

 

 

ARTE Documento N°9                                                               © Edizioni della Laguna