La Disputa di Paolo
Veronese.
Un'opera "singolare",
una storia "singolare"
Orietta Pinessi
1. Paolo
Veronese,
Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio.
1562 ca. Madrid, Museo Nacional del Prado.
«Che resta ancora da
dire di Paolo? Crediamo più di qualche cosa» scriveva, nell'ormai
lontano 1962, Remigio Marini1
ed è singolare come, per molte opere del Caliari, ancora oggi, a oltre
quarant'anni da quella annotazione, la risposta non possa che essere la
stessa. Ne è chiaro esempio una tra le tele più rappresentative del
Veronese che continua a presentare quesiti irrisolti dando nel contempo
per acquisite notizie affatto verificate: definita da Pignatti2
«uno dei più difficili problemi della filologia paolesca» è la
Disputa di Gesù fra i dottori del tempio del Museo del Prado3.
Dipinta, come scriveva Venturi4,
«in un'atmosfera trasparente verde-oro, in una mite luce d'acquario» la
scena si presenta soffusa di grazia, ma non priva di maestà e decoro.
L'atrio del tempio di Gerusalemme che, dalla collina orientale dominava
la città, costituiva il gran luogo di convegno dei pagani che trattavano
là i loro affari, dei Giudei che vi si recavano per attingere le più
varie notizie o per ascoltare le dispute dei dottori della legge;
Veronese lo trasforma in un sontuoso ambiente adorno di pilastri e
statue. Raccogliendo uno spunto acutissimo di Licisco Magagnato5
Marinelli annota che l'impianto dell'opera: «ci riporta con una
puntualità impressionante in un ambiente architettonico proporzionato e
preciso che coincide con la restituzione in alzato della Basilica Romana
quale pubblicherà Barbaro su disegno di Palladio nel 1556»6.
In realtà già la Brizio7
aveva notato analogie tra il motivo architettonico adottato da Veronese
e la tavola con lo spaccato di un teatro romano pubblicato a p. 151 dei
Dieci Libri di Vitruvio tradotti e commentati dal Barbaro e
illustrati da Palladio, editi a Venezia nel 1556. «Ma», annota Lionello
Puppi8,
«con forte anticipo sul momento ragionevolmente ipotizzabile del primo
incontro col Palladio nonché con Daniele (Barbaro, n.d.r.) e su quello
della confezione delle tavole illustrative del Vitruvio9».
Perché Puppi parla di "forte anticipo"? La risposta finisce con l'essere
inevitabilmente articolata: da una parte Puppi accetta il 1548 come data
di esecuzione della Disputa, dall'altra è convinto che il primo
incontro di Veronese con Palladio sia da collocare non prima dei 1552.
Andiamo con ordine e partiamo da quel "1548", la "strana data" che
Michael Levey ha scoperto nel Gesù tra i dottori del Prado e
illustrato nel 1960 in "Burlington Magazine"10.
Levey ha trovato (e l'evidenza non dà adito a dubbi) che sul taglio del
libro in mano a uno dei dottori seduti sotto la colonna centrale è
segnata in cifre romane la data MDXLVIII, 1548.
Convinto che quella data sia da riferirsi all'anno di esecuzione del
dipinto, che risulterebbe perciò coevo alla giovanile pala Bevilacqua
Lazise di Verona", il Levey tenta in tutti i modi di dimostrare che
l'opera del Prado non è poi una gran cosa e che la pala Bevilacqua e i
dipinti coevi non gli sono affatto inferiori. A tali inaccettabili
affermazioni12
lo studioso giunge perché, «accecato», come scrive il Marini13,
«dalla fede idolatrica nel documento», non giunge nemmeno a considerare
come ipotesi che quel 1548 nulla abbia a che fare con la data di
esecuzione del dipinto.
È del resto innegabile, per chi appena conosce l'evoluzione pittorica
del Caliari, la difficoltà di collocare nello stesso periodo l'opera del
Prado e la Bevilacqua Lazise, la prima opera documentata di Paolo.
Eppure molto incerta era stata la critica in merito alla datazione
dell'opera, e questo anche prima della scoperta del Levey: sulla base di
criteri stilistici al 1574 la riferisce Caliari14,
al 1570 Osmond15,
vicino alle tele Cuccina (e quindi intorno al 1571, n.d.r.) Coletti16
e Pallucchini17,
mentre Berenson18
la colloca al 1565.
Nel 1963 Rodolfo Pallucchini19,
ribadendo l'impossibilità di una datazione comune alla pala Bevilacqua
Lazise, la data alla seconda metà del sesto decennio. Terisio Pignatti20,
accettata in un primo tempo la data del 154821,
ritorna in seguito sull'argomento ammettendo che non si può ignorare «il
carattere delle figure della Disputa e gli stessi colori velati e
morbidi che fanno soprattutto pensare agli affreschi di San Sebastiano
del 1558».
Ma tali considerazioni squisitamente stilistiche, che porterebbero ad
assegnare l'opera alla maturità di Paolo, non sono unanimemente
condivise, se anche Giuseppe Fiocco, cui si deve la particolare ripresa
degli studi sull'artista veronese nel 192822,
assolutamente ignaro di quel "1548", assegna la Disputa al
periodo giovanile. Più tardi, ugualmente, Marini23
notando come il dipinto sia una libera copia dell'analoga tela di Jacopo
Bassano nella Collezione Cure di Londra afferma che «non è da escludere
che il Veronese ventenne traendo dal Bassano sia il modello, sia
l'impostazione, e conferendovi il proprio ritmo e il proprio splendente
cromatismo» avesse raggiunto risultati artistici di eccezionale maturità24.
Senza giungere agli eccessi del Levey, cui abbiamo sopra accennato25,
crediamo sia corretto considerare come l'opera del Prado presenti
qualche incertezza compositiva che, se non voluta, la collocherebbe in
una fase relativamente giovanile: la nostra attenzione è dapprima
richiamata sulla sinistra e poi sulla destra, Cristo si rivolge al
gruppo di dottori alla sua destra ma, dal lato opposto, emerge un
personaggio quasi altrettanto importante.
Ma... il discorso rischierebbe di diventare ozioso se non affrontassimo
quel 1548 da un altro punto di vista.
Per far questo riandiamo per un attimo alla prima citazione dell'opera è
il Ridolfi26
che nel fornire il primo ampio catalogo delle pitture del Veronese
scrive: «[...] ma rivolgiamo il passo verso Padova [...] Erano ancora in
quella città in Casa Contarina otto quadri di Sacre Historie di figure
intorno al naturale, in uno entrava nostra Signora con più Santi, in
altri Cristo tra Dottori [...]».
Più di un critico ha parlato di una «non meglio precisata casa Contarini»
e qualcuno, con poca convinzione in verità, ha ipotizzato che si
trattasse del palazzo Contarini di via San Massimo27.
Possiamo senza ombra di dubbio affermare che la "casa Contarini" a
Padova esisteva ed era poco distante da Duomo: la prova ci viene da
un'antica pubblicazione del tutto ignorata sino a oggi28».
Si tratta della Descrizione del viaggio fatto da Venezia a Verona da
Paolo Contarini eletto Podestà di Verona e del suo solenne ingresso in
quella città nel giugno 156229,
l'autore è un compagno di viaggio del podestà e ci offre un saggio del
modo sontuoso e principesco con cui i patrizi viaggiavano ed entravano
nelle città che erano destinati a reggere. Il primo giorno dopo la
partenza il futuro podestà giunge a Padova (dove si tratterrà per la
notte): «Quivi fermò Sua Magnificentia et li vennero incontro messer
Francesco [...] Messer Marco e Messer Filippo suoi figliuoli che stavano
a Padova per causa di studio [...] li quali [...] lo condussero al Duomo
nella sua casa». A ulteriore conferma dell'esistenza di questa "casa
Contarini" nelle vicinanze del Duomo di Padova la descrizione che il
sacerdote Vincenzo Devit, nella seconda metà dell'Ottocento, ci fornisce
delle «Antiche lapidi romane della Provincia del Polesine»30,
alla p.43 egli cita espressamente, parlando di due antiche lapidi
perdute: «[...] la seconda in Padova in casa Contarini presso la Chiesa
Cattedrale».
Casa Contarini, che si trovava dunque in piazza delle Erbe, non va certo
confusa col palazzo Contarini di via San Massimo, nella zona est della
città, fatto costruire da Marcantonio Contarini (che muore a Candia nel
1546) di un ramo che nulla ha a che vedere col nostro.
E sia "casa Contarini" sia Paolo Contarini che in quella casa, di sua
proprietà, sosta per la notte nel 1562 ci rimandano inevitabilmente alla
ben più famosa villa Contarini di Piazzola sul Brenta.
Piazzola sorge nell'Alto Padovano, a pochi chilometri a nord ovest della
città; i Carraresi, signori di Padova, tennero Piazzola come feudo di
famiglia fino al 1413, anno in cui un principe di questa famiglia,
Jacopo, lasciò in eredità tutti i beni di Piazzola alla figlia Maria
Carrara andata in sposa a Nicolò Contarini31.
Per chi giunge da Padova, villa Contarini si presenta all'orizzonte con
un'ampiezza che sfiora i 180 metri, ma la magniloquente apparenza
barocca con cui si presenta oggi è il risultato della trasformazione
secentesca, voluta da Marcantonio Contarini procuratore della
Serenissima, del primo nucleo che alla metà del Cinquecento, e
precisamente nel 1546, fecero edificare i fratelli Paolo e Francesco
Contarini. Per tale nucleo centrale, poi completamente inglobato nel
grandioso ampliamento successivo, gli studiosi sono ormai pressoché
concordi nell'indicare il nome di Andrea Palladio. Dunque, sia il
Veronese sia il Palladio ci rimandano ai Contarini; e Paolo (e
Francesco) Contarini sarebbero quindi il primo caso di quel patriziato
colto che si servì del pittore e dell'architetto anticipando nel tempo
Giuseppe Porto, Francesco Pisani e Daniele Barbaro.
Una prima precisazione diviene a questo punto imprescindibile: grazie ai
Contarini i contatti tra Veronese e Palladio sono dunque precedenti a
quel 1552, anno in cui «messer Paulo Veronese pittore eccellentissimo»
era già in cordiale rapporto con l'architetto se poteva intervenire
nella decorazione a fresco degli spazi di palazzo Chiericati a Vicenza32.
Il ramo dei Contarini cui facciamo riferimento era uno dei più ricchi e
potenti dei numerosi (diciotto) in cui si articolava la famiglia:
risiedeva a Venezia in San Trovaso, nel sestiere di Dorsoduro ed era
detto "Degli Scrigni". Base della sua fama era proprio la proprietà di
Piazzola. Pur non essendo feudo pieno iure la località godeva
dell'esenzione da ogni dazio e i Contarini erano pure titolari del
giuspatronato della chiesa, del diritto di mercato, pascolo, mulino e
guardia armata.
Francesco e Paolo erano due dei dieci figli di Zaccaria Contarini el
Cavalier (di Francesco di Nicolò e Contarina Contarini di Giovanni,
1452-1513) e Alba Donà di Antonio "Dalle Rose". Di Zaccaria è nota
l'attività diplomatica nella quale giunse a ricoprire le maggiori
cariche dello stato e a sostenere numerose ambascerie all'estero. Nel
1490 fu ambasciatore a Mantova in occasione del matrimonio di Francesco
Gonzaga con Isabella d'Este e, nel '91, svolgerà un analogo incarico
presso Ercole d'Este in occasione delle nozze di Beatrice d'Este con
Ludovico il Moro. Nel '92 rappresenta la Signoria alle nozze di Carlo
VIII con Anna di Bretagna, il re gli appare sgradevole di persona e al
suo ritorno riferisce in Senato, nel settembre del '92, che era «tardus
in locuzione». Non diverso il giudizio sulla regina di soli diciassette
anni e zoppa ma «astutissima di sorte che quello che si mette in animo o
con risi o con pianti omnino lo vuole ottenere»33.
Di nuovo ambasciatore presso il Moro nel '93, nel 1494 riparte per la
Germania per ratificare la lega conclusa con il Pontefice, il re
cattolico e Ludovico il Moro. La missione ebbe inizio il 4 maggio 1495 e
si concluse positivamente qualche mese più tardi dopo che l'esercito
francese era stato sconfitto a Fornovo.
2. Paolo Veronese,
Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio, 1562 ca., particolare. Madrid, Museo Nacional del Prado.
3. Paolo Veronese,
Gesù e il centurione, 1570-1571. Madrid, Museo Nacional del Prado.
Il gradimento dell'imperatore si tradusse col conferimento al Contarini delle
insegne di Cavaliere34.
Nel luglio del '96 è di nuovo a Venezia ove poté godere di tre anni di
relativa tranquillità in cui ebbe modo di dedicarsi ai suoi dieci figli
e all'amministrazione dei suoi beni cui aggiunse, nel 1498, uno
splendido palazzo sul canal Grande a San Trovaso che da allora sarebbe
diventata l'abitazione della famiglia. Ricoprì ancora numerosi incarichi
ma, fatale, fu l'ultimo: nel 1508 parte per Cremona dove era stato
eletto capitano35,
il 14 maggio ad Agnadello la potenza veneziana crollò, il Contarini si
rinchiuse nel castello di Cremona, ma il tradimento delle truppe
lombarde ne provocò la consegna ai Francesi. Fu portato a Milano, quindi
a Parigi36.
Invano l'Imperatore cercò di ottenerne la consegna, come ugualmente
inutili furono i tentativi messi in atto dai figli per liberarlo dietro
pagamento di riscatto. La prigionia durò circa quattro anni e quando
ormai la liberazione sembrava imminente si ammalò. Annota il Sanuto,
l'11 aprile 1513, che certamente era giunta la notizia della sua morte
perché «a caxa sua tutti pianzevano»37.
Dei figli, Francesco (1477-1558), il secondogenito (che con Paolo
avrebbe fatto edificare il primo nucleo della villa di Piazzola), fu
colui che più si prodigò per la liberazione del padre: «el qual fa il
tutto per il riscato di suo padre». Anche Francesco ebbe una intensa
vita politica cominciata comperando con 2.000 ducati l'ingresso in
Senato38.
Divenne uno dei più autorevoli esponenti della oligarchia senatoriale e
tra il '53 e il '56 fu tra gli elettori dei dogi Marcantonio Trevisan e
Lorenzo Priuli. E tuttavia Paolo (con Pietro), ultimogenito di Zaccaria
el Cavalier, il personaggio su cui conviene soffermarsi
maggiormente.
Erroneamente il Dizionario Biografico degli Italiani riporta come
data di nascita il 151039
epoca nella quale il padre era prigioniero in Francia (dal 1509 al 1513
anno della morte), al compilatore sfugge poi che, come scrive il Sanuto,
«Sier Polo Contarini qu.sier zacaria el cavalier e Sier Piero Contarini
qu.sier zacaria el cavalier erano zimeli40»,
nati nel 1493 ultimi dei numerosi figli di Zaccaria e Alba di Antonio
Donà dalle Rose.
Poche le notizie nei primi due decenni del Cinquecento: un suo primo
intervento in Senato si ha il 26 aprile 150941
quando (si discute della situazione a Cremona): «gionze qui el fiol dil
prefato Zacaria Contarini Cavalier capetanio de Cremona, nominato Paolo
qual riferì molte cose et che al di la tera fo in arme et le botteghe
serate». Dall'ottobre del 1509 è imbarcato nell'Armata del Po'42
e con una serie di missive al fratello Francesco riferisce sulle
devastazioni compiute ai danni dei Mantovani e dei Ferraresi a Corsole e
alla Polesella. Lo stesso Paolo nel dicembre trattava col signore di
Boissy, grande ammiraglio di Francia.
Nel 1524 sposa Vienna di Francesco Gritti (figlio del doge Andrea) nozze
alle quali il Sanuto dedicherà parecchie pagine dei suoi Diarii.
«Al dì 12» di gennaio «fu fate le noze di la neza dil Serenissimo
Principe nostro, fia di suo fiol, nominata Viena in sier Polo Contarini
qu.sier Zacaria el cavalier [...] et luni si farà il parentà»43.
«Al dì 15 [...] fu fato il parentà [...] il novizio a la porta del
palazo vestito di negro et cussì li fratelli pur in negro». Alla data
del 20 gennaio annota che «il Serenissimo vol far sposar la neza in
chiesa di san Marco [...] poi montar la noviza con le donne in Bucintoro
e condurle a caxa dil novizio sul Canal Grande a San Trovaxo; A dì 25
Zorno deputato al sposalizio di la neza del Doge [...] il novizio
vestito di negro che per mia opinion fo mal fatto: in tal zorno dovevano
vestir di seda o scarlato almen».
Segue, con dovizia di particolari, il racconto della festa e del pranzo
fino al commiato quando «la noviza, nominata Viena, si butò ai piedi del
Serenissimo: pianzando tolse licentia, et cussì fece il Serenissimo che
si ingropoe et lacrimae etiam lui [...] e il sposo con la sposa si
andarono ad aletar, che prima non avevano dormito insieme, perché cussì
ha voluto il Serenissimo et non come si consueta far le altre noze che
quel zorno danno la man, poi la sera dormino insieme; ch'è cosa mal
fata». Paolo, come abbiamo detto, era gemello di quel Piero Contarini
che era col padre Zaccaria, il capitano di Cremona, quando si verificò
la rotta di Agnadello. Furono entrambi fatti prigionieri, condotti in
Francia e separati poi a Lione: «Piero è andato a Lixignan de Lion, in
un castello sopra la strada de andar da Bes a Perpignan et credo che el
stagi ben44».
Pietro venne liberato insieme ad Andrea Gritti, il futuro doge,
nell'aprile del 1513 allorché un provvido ribaltamento delle alleanze
portò la repubblica a schierarsi accanto alla Francia con gli spagnoli.
L'amicizia tra i due, sorta durante la prigionia, si rafforzò durante il
lungo viaggio di ritorno a Venezia.
Ovvio che a tale amicizia non fu estraneo il matrimonio tra il gemello
di Pietro, Paolo, e la nipote di Andrea Gritti. Di Pietro va detto che
dal '24 è tra i procuratori dell'Ospedale degli Incurabili a Venezia,
nel 1526 compie un pellegrinaggio a Gerusalemme. Prima di lui, a
conferma di una particolare devozione "familiare", anche il fratello
maggiore Francesco si era imbarcato, il 7 giugno 1515, su una galera
diretta a Giaffa per compiere il pellegrinaggio in Terrasanta. Nel 1543
viene designato, senza esito, da Gian Matteo Giberti quale suo
successore nel vescovado di Verona. Ebbe una fitta corrispondenza con
sant'Ignazio di Loyola di cui il Contarini fu uno dei primi seguaci a
Venezia nel 1536-1537. Da Ignazio, Pietro ricevette gli Esercizi
spirituali e molto si prodigò per procurare quell'imbarco per la
Terrasanta che lo spagnolo tanto desiderava. Nel 1557 Paolo IV gli
conferì la nomina vescovile e l'8 agosto divenne titolare della diocesi
di Pafo, in tale veste partecipò alla fase conclusiva del Concilio di
Trento. E a Trento il 16 dicembre 1562 rinunciò alla sede a beneficio
del nipote, figlio di Paolo, Francesco. Fece testamento a favore del
fratello gemello, morì il 21 maggio del 1563 e verrà sepolto a Venezia
nella chiesa di San Trovaso. Francesco (1536-1570) divenuto vescovo di
Pafo, sarà ucciso dai Turchi. La connotazione filogesuitica dei
Contarini si conferma nell'ultimo dei figli di Paolo e Vienna Gritti,
Filippo45
(1542-1577), che nel '72 si farà gesuita cedendo ai fratelli tutte le
sue spettanze patrimoniali.
Riteniamo che il personaggio ritratto da Veronese nella Disputa sia
proprio Paolo Contarini.
Ebbe un ruolo di spicco nella vita della Repubblica: fu senatore, capo
del Consiglio dei Dieci, per tre volte Consiglier nonché capitano e
vicepodestà a Bergamo dal 14 maggio 1545 al 3 giugno 154646.
Il 20 giugno 1547 «Paulus Cont. q.s.Zacharia» fu eletto podestà di
Verona47,
l'incarico aveva la durata di 16 mesi e, dunque, fino all'ottobre del
154848.
Il 1548, ricordiamolo, è la data che compare sul libro aperto in mano a
uno dei dottori della Disputa di Paolo Veronese e sembra a questo
punto sostenibile la tesi che abbia a che fare non tanto con Paolo
Veronese e, quindi, con la data di esecuzione dell'opera (il che non
significa, come è stato scritto, che sia stata apposta in tempi
successivi: troppo complessa l'elaborazione — le lettere sono spezzate
in due dall'apertura del volume — per chiunque non sia l'autore del
dipinto) quanto con Paolo Contarini ossia il personaggio che 'emergÈ
fra i dottori alla sinistra di Cristo.
E, in merito, va senz'altro detto che pochi hanno considerato che il
personaggio si presenta con caratteristiche ben precise: anzitutto è
abbigliato, come nessun altro degli astanti, secondo i severi costumi
indossati dagli uomini della seconda metà del Cinquecento, quando la
Controriforma impone un abbigliamento severo e cupo, ma soprattutto
indossa una mozzetta devozionale o votiva e sul petto, poco sotto la
spalla sinistra, la croce caratteristica della Custodia di Terra Santa
dei Francescani. L'abito si collega molto probabilmente a un
pellegrinaggio in Terra Santa (pellegrinaggio compiuto, lo ricordiamo,
sia dal fratello maggiore Francesco sia dal gemello Pietro), lo si
deduce dal particolare della croce sul mantello e soprattutto dal fatto
che il Contarini tiene in mano un lungo bastone nodoso tipico dei
pellegrini49.
Non si può invece accettare l'ipotesi, sostenuta nel catalogo del Museo
del Prado, che si tratti di un "caballero del santo Sepolcro"50
in quanto i Cavalieri del Santo Sepolcro, ordine di subcollazione
pontificia, vestivano (e vestono) un mantello bianco51.
L'abito potrebbe pure rimandare a una confraternita: esisteva infatti
nel Duomo di Verona sin dagli esordi del Cinquecento una "compagnia
laicale del Santo Sepolcro", a questa compagnia si deve a esempio la
costruzione, nel 1511, di quell'oratorio del Santo Sepolcro che più
tardi mutò il nome in San Rocchetto e si trova ancora oggi sul monte
Cavro presso Verona52.
Anche nel testamento, inedito, di Paolo Contarini (testamento autografo
del 19 dicembre 1561)53
esiste un piccolo accenno a questa devozione: tra le monache
beneficiarie troviamo quelle «al Santo Sepolcro». Il riferimento è al
monastero annesso alla chiesa del Santo Sepolcro nel sestiere di
Castello: «[...] fu fatto questo Sepolcro alla similitudine di quello di
Gerusalemme [...] vi stanno monache della regola di San Francesco»54.
Come dicevamo è nostra convinzione che il "1548" della Disputa
abbia a che fare con Paolo Contarini divenuto allora per la prima volta
podestà di Verona; una ipotesi ci pare a questo punto sostenibile: nel
1562 il Contarini è di nuovo a Verona come podestà (farà il suo solenne
ingresso nel giugno) non è da escludere che sia stata questa l'occasione
per il dipinto e che la data impressa sul volume altro non fosse che un
richiamo al primo suo incarico nella medesima città.
Del resto, il Veronese era da tempo in contatto con i Contarini: nella
polizza d'estimo esibita ai Dieci Savi sopra le Decime da Vincenzo Zen
fu Pietro (1502-1582)55,
alludendo ai propri beni immobili e relativi redditi, scrive: «Io Vinc.Zen
fo de ms Piero fo de ms Catarin el Kr daro in nota le condition mie de
tutti li beni io mi atrovo pervenuti in mi del q.mio padre [...] una
casa da statio dove io abito posta in contra di Santo Apostolo sopra el
fondamenta di Crosechieri [...] uno meza in corte de le Candele per
altrettanto locho di sopra tiene I tuto ad afito s.Paulo Veronese pictor»56.
Il Veronese abitava dunque dietro quel palazzo Zen situato tra il campo
dei Gesuiti a est e la chiesa di santa Caterina a ovest, nei pressi
dell'ospizio dei padri Crociferi. Come è noto57
-
all'origine dell'ideazione e costruzione del palazzo è l'incontro tra
Francesco Zen e Sebastiano Serlio. La paternità progettuale del palazzo
è nota: Pietro Zen nel suo testamento58
del 1538 precisa «[...] Le mie case che fabbrico alli Crosechieri le
siano compide al disegno che feze el quondam messer Francesco».
Francesco Zen, figlio di Pietro e fratello di quel Vincenzo che sarà
affittuario di Veronese, era amico e compagno di Francesco Contarini di
sier Zaccaria el Cavalier, fratello maggiore di Paolo. I due
erano accomunati nella "Compagnia dei Fausti"59
che raccoglieva i migliori patrizi della Dominante. Scrive il Sanuto il
19 febbraio 150360:
«Vene a Rialto la Compagnia dei fausti, vestiti a comodo di veludo
cremesin, calze a la divisa, una rosa tuto e l'altra meza bianca [...]
quali sono Sier Francesco Contarini di Sier Zacaria el Cavalier e
[...] Sier Francesco Zen di Piero».
E ancora: Nicolò Zen (1515-1565)61,
nipote di Francesco e di Vincenzo, sposa il 20 giugno 1535 Elisabetta di
Giacomo di Pietro dei Contarini di Padova, il matrimonio si celebrerà
nel Duomo di Padova. Tutto questo a dimostrare che il "contatto" tra
Vincenzo Zen e Veronese sono proprio i Contarini "Dalli Scrigni" di San
Trovaso.
La verifica della nostra ipotesi secondo cui la Disputa si
trovava, nel 1648, quando la descrive il Ridolfi, proprio nella "Casa
Contarini" di Padova dei Contarini "Dalli Scrigni" di San Trovaso
proprietari della villa di Piazzola (villa il cui primo nucleo,
ricordiamolo, era stato fatto edificare proprio da Paolo e dal fratello
Francesco) ci giunge dal Barbaro62
che, in una nota,precisa che proprio i discendenti di Paolo dal 1684
saranno detti "Piazzola" perché appunto residenti nella villa di
Piazzola sul Brenta.
Rimangono tuttavia ancora alcuni "nodi" da sciogliere, il primo di
carattere iconografico, il secondo strettamente documentario.
Scriveva Pignatti a proposito della Disputa63:
«Nessuno capisce veramente perché mai il Cristo debba essere posto su un
altare tra due colonne al centro di una specie di basilica romana, con
un tribunale in fondo e colonnati laterali». Per quanto concerne i tipi
iconografici della Disputa, Veronese si rifà a una tradizione
risalente almeno al XV secolo che presenta il Cristo dodicenne come un
dotto umanista che discute con altri letterati o come un docente nel
contesto di una lezione. Più che ascoltare o interrogare i dottori, come
riporta la fonte evangelica (Lc 2, 41-52), egli sembra tenere un
discorso a un uditorio che interviene solo con obiezioni e domande. Del
resto i Vangeli apocrifi, come il vangelo di Tommaso e più il Vangelo
arabo dell'Infanzia64,
concentrano l'attenzione sulla scena del tempio sottolineando con forza
la superiorità di Gesù rispetto ai più anziani interlocutori. Gli
sviluppi iconografici non rimarranno insensibili a queste
sollecitazioni. Non si può non citare a tal proposito il celeberrimo
Cristo fra i Dottori realizzato, in soli cinque giorni, da Albrecht
Dürer, durante il suo soggiorno in Italia e conservato oggi presso la
Collezione Thyssen-Bornemisza di Madrid65.
Dürer aveva già inserito il tema del Cristo tra i Dottori all'interno di
una celeberrima serie di silografie dedicate alla vita della Vergine
affidando le sue riflessioni sull'episodio evangelico a una tecnica
artistica dalle possibilità di circolazione pressoché illimitate. Il
foglio66
precede di qualche anno il dipinto di Madrid e presenta una
interpretazione del soggetto notevolmente diversa. La sua fortuna in
Italia può dirsi endemica. «Guardando in successione un dipinto di Paris
Bordon a Boston, uno di Bonifazio dÈ Pitati a Pitti, uno di Jacopo
Bassano a Oxford e uno di Paolo Veronese al Prado non si può apprezzare
l'estrema intelligenza con cui questi pittori hanno saputo fare propria
l'idea düreriana di spostare il Cristo dodicenne su un lato della scena
e accentuare così il movimento della stessa»67.
A ciò si aggiungano altre influenze, molto evidenti nell'opera di
Veronese, come la studiata raffigurazione spaziale e la complessità
dell'architettura del tempio, contraddistinta da grandiosità e
imponenza. Il tutto è accentuato dalla presenza di vari gruppi di figure
disseminati in diverse zone dello spazio. Il fulcro dell'opera düreriana
è poi costituito — lo stesso si può dire per Veronese — dalla complessa
dinamica degli stati d'animo e, di conseguenza, degli atteggiamenti che
i dottori manifestano verso l'oratore seduto al pulpito.
Il Veronese si inserisce dunque in una tradizione ben consolidata che ha
nella silografia di Dürer del 1503 il precedente più illustre.
E a riguardo degli artisti sopracitati, che in questi stessi anni si
dedicarono al soggetto della Disputa, abbiamo scoperto — e ci
pare una notizia significativa — che anche Bonifazio dÈ Pitati (Bonifazio
Veronese, 1487-1553; ricordiamo il suo Cristo fra i Dottori di
Palazzo Pitti)68
a Venezia, dove è documentato dal 1523, conosceva e frequentava Paolo
Contarini: il 28 dicembre del 1551 è testimone a una procura delle
monache di Sant'Alvise a favore appunto del Contarini69.
L'ultima "questione", dicevamo, di carattere squisitamente documentario
riguarda come e quando la Disputa del Veronese sia giunta in
Spagna. Anche in questo caso è facile dimostrare come negli anni, per
non dire nei secoli, vengano riportate notizie poco o punto verificate e
si dia per acquisito che le informazioni siano ab origine
corrette. Tutti coloro che si sono occupati della Disputa
riportano sostanzialmente due fonti: il De Madrazo, Catalogo de los
cuadros del Museo del Prado de Madrid, del 1843, e un articolo di
Paul Lefort comparso in "Gazette des Beaux Arts" nel 189070; a esse si
appellano per affermare che l'opera giunse in Spagna sotto il regno di
Carlo II.
Vale la pena di verificare. Il De Madrazo scrive: «Es probabile que
sea este quadro el mismo que existia en tempo de Ridolfi en la casa
Contarina de Padua» e, in calce, aggiunge solo le fonti documentarie
«Coll. De Carlo II R.AIc. y Pal. De Madrid, Salon de los Espejos,
Col. De Carlo III, Pal. Nuevo, Paso del cuarto del Infante don Antonio».
Il De Madrazo71
non sostiene che l'opera giunse in Spagna sotto il regno di Carlo II ma
semplicemente che risultava inventariata nelle collezioni di Carlo II !
L'altra fonte citata è, come dicevamo, l'articolo di Paul Lefort72
del 1889: in realtà si tratta di un brevissimo intervento e nelle poche
righe dedicate alla Disputa si legge: «Décrite par Ridolfi qui la vit
dans le palais Contarina de Pa-doue, elle est venue en Espagne sous le
règne de Charles II».
La mancanza di note esplicative a questa "perentoria" affermazione porta
inevitabilmente a ipotizzare che anche Lefort abbia attinto, come il De
Madrazo, all'inventario della Collezione di Carlo II, il che non
significa necessariamente che l'opera sia giunta in Spagna a
quell'epoca.
Carlo unico figlio maschio sopravvissuto di Filippo IV d'Asburgo e della
sua seconda moglie Marianna d'Austria, succede al padre nel 1665, a soli
quattro anni, sotto la reggenza della madre. Solo nel 1675, terminata la
reggenza, Carlo quattordicenne assunse i poteri regali.
A lui si deve il merito «non di avere arricchito il patrimonio» (5.539
quadri!), fatta eccezione per le abbondanti acquisizioni di opere di
Luca Giordano, ma di «averne compreso, nonostante i suoi limiti,
l'importanza [...] difendendolo dall'avidità che caratterizzava alcune
delle persone che lo circondavano»73.
3. Paolo Veronese, Gesù e il centurione, 1570-1571. Madrid, Museo
Nacional del Prado.
La convinzione che la Disputa sia giunta a Madrid all'epoca di
Carlo II nasce dunque dal fatto che "apparentemente" la sua "storia
spagnola" ha inizio con un inventario che ne segnala la presenza in
Spagna nel 168674:
si tratta dell'Inventario delle Collezioni d'Arte dell'Alcazar compilato
per ordine del Mayordomo Mayor del Rey don Bernabó Ochoa "jefe de la
zerería": pur se redatto in forma breve con l'omissione di alcune scuole
e molte attribuzioni errate, risulta il più completo.
Va tuttavia ricordato che pochissime sono le variazioni tra l'inventario
del 1686 e quello precedente del 1666, e, ancora meno, in quello del
1700, alla morte di Carlo II.
L'inventario del 1686 comincia dal "Salon de los Espejos" ossia la sala
che concludeva mirabilmente, con grandioso sfarzo e, soprattutto, con un
incredibile numero di opere d'arte la teoria delle sale riattate sotto
la direzione di Velâzquez.
Chiamato ancora "sala de comptos" nel 1626, acquistò importanza sotto il
regno di Filippo IV quando fu significatamene appellato "salon grande"
o "salon nuevo sobre el zaguân" o, in maniera più vaga: "pieza nueva
sobre el zaguân". Si trovava al centro della facciata meridionale dell'Alcazar
tra due antiche torri e nel cuore della parte più nobile del palazzo.
Si stendeva su una vasta superficie e diverrà il più bel salone della
residenza grazie alla sistemazione definitiva che Velâzquez porterà a
termine poco prima della sua morte, tra il 1655 e il 1658. Solo allora,
in ragione dei vetri di Venezia con cui era stato ulteriormente
impreziosito verrà chiamato: "Salon de los espejos". Alle pareti, nuove
opere di Velâzquez si aggiungevano a quelle che già ornavano la sala:
l'aspetto del Salon ci è noto grazie alle numerose opere di Juan Carreno
(1614-1685) che ritraggono la regina Marianna e il giovane Carlo II
all'interno di questa sala. Dunque, come dicevamo, l'assetto definitivo
è della fine degli anni cinquanta; purtroppo il Salon manca
nell'inventario del 1666, ma già da quell'inventario, lacunoso,
sappiamo che le opere più significative si trovavano nel Cuarto Principal con la Sala de las Furias, La Sala Nueva (il futuro Salon de los Espejos), il Salon de las
Fiestas Públicas e la Galería del Mediodía. Nell'inventario del 1686, ai
nn. 76 e 77 troviamo «Dos pinturas yguales de â ciuco varas y medio de
ancho y tre de alto, el vno la Disputa del Nino perdido con los Rauinos
original de mano de Paulo Berones [ .. ]».
È stato constatato che nei casi in cui i due inventari risultano
completi, com'è nel caso della Galería del Mediodía75 (riportata appunto
in entrambi) la lista delle opere di pittura è identica, per cui si può
ragionevolmente sostenere che la Disputa, e così tutte le altre opere
del Salon de los Espejos, non compare nel '66 solo perché non è
descritta la sala dove era collocata. Siamo altresì convinti che non fu
acquistata sotto il regno di Carlo II (ricordiamo che le acquisizioni
furono nulle fatta eccezione per le opere di Luca Giordano) e che anzi
l'opera giunse in Spagna nel periodo che segue immediatamente il secondo
viaggio di Velazquez in Italia.
Fu allora che Velazquez riattò la sala rifacendosi alla illustre
tradizione che accostava quadri e ornamenti, affreschi e stucchi,
tradizione di origine italiana che aveva fatto la gloria di
Fontainebleau sotto Francesco I e ispirato il Becera al Pardo
(1562-1563). Il precedente più immediato non poteva che essere la
Galleria dei Carracci a Palazzo Farnese in Roma (1595-1603).
Considerando quindi che tale rinnovamento si ebbe immediatamente dopo
il rientro di Velazquez e che molte delle opere da lui acquisite furono
collocate nel Cuarto Principal, riteniamo sostenibile l'ipotesi che
l'opera di Veronese sia stata acquistata proprio da Velâzquez.
Nell'anno 1648 fu «Don Diego Velâzquez [...] inviato da Sua Maestà in
Italia per acquistare pitture originali e statue antiche [...] Partì
nel mese di novembre del detto anno 1648 [...] si fermarono a Genova..
passò a Milano [...] passò poi a Padova e da lì a Venezia. Vide molte
opre di Tiziano, Tintoretto, di Paolo Veronese [...] ebbe occasione di
acquistare dello stesso Veronese due grandi quadri di storie della Vita
di Cristo, l'uno era il miracolo di quel cieco a cui il Signore diede la
vista, e entrambi miracoli dell'arte [...] non
si arrischiò a portarli ritenendo più saggio lasciarli che metterli al
rischio nella imbarcazione»76.
Se è vero che non esiste alcuna fonte documentaria che informi con
precisione sulle opere e sulle condizioni alle quali furono acquistate e
che le cronache "indirette" non concordano spesso tra loro (ma il
Boschini parla di «Due Veronese»)77, è altresì vero che le
informazioni del Palomino hanno ricevuto scarsa considerazione.
Si tratta certo di annotazioni approssimative (Palomino scrive a circa
un secolo di distanza) ma, pur non precisando nei dettagli, sostiene
che furono acquistate opere sia a Padova sia a Venezia. E le due opere
con «le storie di Cristo» di grandi dimensioni non sono mai state messe
in relazione con quelle che il Ridolfi vide, a Padova, in casa Contarini.
Le fonti cui attinge il Palomino, o il Palomino stesso, dimostrano scarsa
dimestichezza con i soggetti religiosi perché di un'opera non si precisa
il soggetto e dell'altra si parla del «miracolo di quel cieco».
Per quanto riguarda la seconda, siamo propensi a credere che si tratti
in realtà del Centurione dinanzi al Salvatore descritto dal Ridolfi e
ora al Museo del Prado78, un'opera di 192 cm di altezza per 297 di base.
L'iconografia è chiara e leggibile per chi ben conosce il testo
evangelico di Matteo (8, 5-13) e Luca (8, 3-8) riportato anche in
Giovanni (4, 46-50); in realtà solo nei due sinottici si parla di
"centurione" che è in Giovanni un "funzionario", comunque un pagano, che
dimostra la sua fede chiedendo aiuto al Cristo per il proprio
figlio/servo malato.
Analizzando con attenzione l'opera di Veronese si nota che: il
personaggio orante, il "centurione" perché abbigliato da soldato
romano, non guarda verso il volto di Cristo e, anzi, la posa, gli occhi
quasi vitrei e il fatto che coloro che lo circondano sembrano
sorreggerlo, potrebbero far pensare a un cieco e quindi al miracolo
della guarigione del cieco nato.
Anche in questo caso solo chi conosce l'episodio della guarigione del
cieco nato (Gv. 9, 1-41) sa che riguarda un giovane «che stava seduto a
chiedere l'elemosina».
Senza dimenticare poi che non esiste né tra le opere certe, né tra le
opere attribuite al Veronese una grande tela, come indica il Palomino,
che abbia per soggetto il miracolo della guarigione del cieco.
Del resto anche il Cristo e il centurione del Prado ha una storia
controversa: già all'Escorial nel Salon del Capítulo del Prior, dove,
nel 1657, lo descrive E Francisco de los Santos79, secondo il più
recente aggiornamento del Catalogo del Prado80 è «fra le opere
realizzate per la famiglia Cuccina [...] Ridolfi la vede in casa
Contarini nel 1648».
La prima annotazione fa riferimento al fatto che numerosi critici
abbiano messo l'opera «in connessione» – e non "realizzata per" – con
la serie dei dipinti per la famiglia Cuccina81 (datati al 1571 n.d.r.)
ma la precisazione "realizzata per" è in chiara contraddizione col fatto
che «fu vista dal Ridolfi in casa Contarini». Nel catalogo del Museo del
Prado del 198582, al contrario, si legge: «parece que» sia stata
acquistata da don Alonso de Cardenas per Filippo IV nell'asta delle
opere di Carlo I. Diversa la versione dell'ultimo aggiornamento del
catalogo: «appartenne al Conte de Arundel, da questa collezione fu
acquistata da Alonso de Cârdenas83 per don Luis de Haro84 che l'avrebbe
regalata a Filippo IV».
Così Alonso de Cârdenas85 racconta del suo incarico all'asta delle opere
di Carlo I: «ricevetti una lettera da Filippo IV che mi incaricava di
comprare opere di Tiziano, Veronese e altre antiche [...] ma dovevo
muovermi con discrezione perché disdicevole che il re si approfittasse
così della malasorte di un altro re [...] perciò mi ordinò di non
partecipare all'asta ma di negoziare con terzi». Del ministro don Luis
de Haro (1598-1661) marchese di Carpio scrive che a lui spettava il
compito di occuparsi di ogni dettaglio «este pagaba de su bolsillo las
obras si bien las mejores solian ir a parar a los alcdzares reales (una
onerosa forma de mantenerse el puesto diria yo)».
Ma nel 1563 l'aumentare della concorrenza (giungono compratori da tutta
Europa) e il numero sempre più esiguo di opere «me decidiera a abandonar
la almoneda (mi portò ad abbandonare l'asta, n.d.r.) y dedicarme a la
colección del Conde de Arundel que salía entonces a la venta» (che
andava allora in vendita). Il riferimento è a Tomas Howard Conde de
Arundel (n. 1585) che muore a Padova nel 1646; sette anni dopo, come
abbiamo visto, la sua collezione sarà messa in vendita.
Cercando di mettere "ordine" ci rendiamo immediatamente conto che le
date corrispondono poco: nel 1648 il Ridolfi vede l'opera (Cristo e il
centurione) in casa Contarini a Padova, ma la stessa opera avrebbe
dovuto far parte della collezione del Conte di Arundel e questo,
ovviamente, prima della sua morte avvenuta, come abbiamo visto, nel
1646.
La contraddizione è evidente ...
Si aggiunga che Alonso de Cardenas fu ambasciatore a Londra dal 1638 al
1655, che dal 1649 fu incaricato degli acquisti all'asta di vendita
delle opere di Carlo I per conto di Luis de Haro marchese del Carpio
ministro di Filippo IV; da quella data, egli tiene informato il primo
ministro con un numero consistente di lettere e memoranda86.
Purtroppo non ne ricaviamo la lista completa delle acquisizioni sebbene
molte opere siano citate con autore e soggetto, nel caso di Veronese
Cardenas cita un'unica tela (dal soggetto non precisato) su cui esprime
le sue riserve: «Ci sono dubbi sull'autenticità [...] benché sia venduta
come originale». Tra l'altro, il problema riguardava molte delle opere
della collezione di Carlo I.
Ritornando dunque al catalogo del Museo del Prado l'annotazione «parece
que fue adquirida por don Alonso de Cardenas en la almoneda de Carlos I»
risulta essere a questo punto solo un'ipotesi.
A sostegno della nostra convinzione, e cioè del fatto che le due opere
(la Disputa e Cristo e il centurione) viste in casa
Contarini sarebbero poi state acquistate da Velazquez e in un secondo
momento portate in Spagna, è un antico volumetto poco noto ma prezioso:
è la Descrizione Odeporica della Spagna di don Antonio Conca»87.
Don Antonio Conca, "socio delle reali accademie fiorentine e dÈ
georgofili" descrive con dovizia di particolari e competenza l'edificio
e gli arredi dell'Escorial; giunto al «Capitolo del Vicario [...] che
conta maggior numero di pitture»88
ne indica «gli Autori e gli oggetti che rappresentano [...] una Madonna
seduta col Bambino tra le braccia originale di Tiziano» a proposito
della quale precisa: «che presentò in dono a Filippo IV don Luigi di
Mendez d'Haro e fu comperato dalla collezione di Carlo I d'Inghilterra».
La stessa annotazione per Veronese89:
«Il miracolo di Cristo alle nozze di Cana [...] che si comprò a Londra
insieme con i già descritti che nobilitavano la Galleria dello
sfortunato Carlo I». Tale precisazione manca del tutto quando don
Antonio scrive del «Centurione genuflesso ai piedi di Cristo domandando
la sanità pel suo figliolo»90.
Riteniamo questa un'ulteriore prova del fatto che Il Cristo e il
centurione non pervenisse dall'asta dei beni di Carlo I Stuart cosa
che non può che confermare la convinzione che l'opera, vista in casa
Contarini unitamente alla Disputa, sia stata acquistata da
Velâzquez. Palomino racconta che egli non si arrischiò, probabilmente
anche per le notevoli dimensioni dei due dipinti, a trasportarli via
mare, ma questo non significa naturalmente che non abbiano in seguito
raggiunto la Spagna per altra via... difficile pensare che opere di tal
pregio siano poi rimaste in Italia.
Sarà lo stesso Velazquez, dal 1656 incaricato anche della selezione e
collocazione delle opere all'Escorial, a 'dirottarÈ la Disputa
nel Salon de los Espejos dell'Alcazar e il Cristo e il centurione
nel Capítulo del Prior dell'Escorial.
Orietta Pinessi
ARTE Documento
N°24
2008/2011
©
Edizioni della Laguna
P.S.: Nel testo corrente sono
state omesse, per motivi redazionali, le note dell'autore.