Miguel Falomir
Jacopo
Tintoretto.
Brevi appunti dopo
la
mostra
Jacopo
Tintoretto,
Ester e Assuero,
1552-1555
(?).
Principali commissioni pubbliche
ecclesiastiche
di
Tintoretto a Venezia
sulla mappa di
Giovanni
Merlo,
1670.
Firenze,
Kunsthistorisches Institut, Max Planck Institut.
Il 27
maggio 2007 si è conclusa al Museo del Prado la mostra Tintoretto con un
sorprendente successo di pubblico: 423.000 visitatori. Come curatore
della mostra, vorrei soffermarmi su due aspetti di Tintoretto che,
credo, conosciamo meglio dopo la mostra. Il primo si riferisce alla
tecnica del pittore, il secondo alle sue origini.
Come dipingeva Jacopo Tintoretto?, o come si chiede Robert Echols nel
suo saggio del catalogo: «cos'è un Tintoretto?», è stato il vero
proposito della mostra. Questo spiega l'importanza concessa al processo
creativo del pittore, al quale si è dedicata la sezione della mostra
forse più interessante dal punto di vista espositivo, dove si mostravano
in modo armonico indagini tecniche (radiografie e riflettografie) e
opere d'arte: disegni, sculture e dipinti. Questa sezione è stata divisa
in due ambiti separati mediante un allestimento spaziale volutamente
fatto per mostrare in maniera accurata sei dipinti di un soffitto
proprietà del Museo del Prado. Il primo ambito, alla destra di tale
allestimento, trattava gli aspetti compositivi. Com'è ben noto, da
Ridolfi sino a oggi, per progettare le sue composizioni Tintoretto
utilizzava piccoli teatri dove inseriva figure di gesso o terracotta che
illuminava con candele. Purtroppo, non ci è pervenuto nessuno di questi
"teatri"; tuttavia, secondo la critica li evocherebbe l'unico disegno
preparatorio conservato per una composizione intera, quello di
Venere, Vulcano e Marte realizzato per il dipinto omonimo
appartenente al Museo di Monaco. In questo disegno, presente alla
mostra, si vede quello che era veramente importante per Tintoretto
quando disegnava una composizione: la relazione tra i corpi in movimento
degli attori principali (qui Venere e Vulcano) e la distribuzione delle
aree di luce e ombra. Abbiamo voluto ricreare anche questi 'teatri'
attraverso una simulazione della Lavanda dei piedi del Museo del
Prado. Quando alcuni anni fa la Lavanda dei piedi è stata
restaurata, sono stati compiuti diversi studi che hanno permesso di
stabilire che Tintoretto prima disegnò lo scenario architettonico, dopo
inserì la mobilia, e, per ultimo, i personaggi. Se togliamo i
personaggi, ci troviamo di fronte a uno scenario vuoto che attende
l'irruzione degli attori e che evoca i teatri perduti. Tintoretto fu tra
i primi pittori che, sulla tradizionale preparazione bianca di gesso,
aggiunse un'imprimitura oscura che gli garantiva maggior velocità quando
dipingeva. La mostra includeva dipinti come il Ratto di Elena del
Museo del Prado dove l'imprimitura è nera ed è evidente che, per
tracciare il disegno, lo faceva in bianco (figg. 1, 2),
1.
Jacopo Tintoretto,
Ratto
di
Elena,
1578-1579,
particolare.
2. Jacopo Tintoretto,
Ratto
di
Elena,
1578-1579.
ma
anche esempi di opere più precoci dove manteneva la tradizionale
preparazione bianca di gesso sulla quale disegnava in nero, sempre in
modo schizzato, come si rileva nella radiografia di Giuseppe e la
moglie di Putifarre, anch'esso custodito nel Museo del Prado (fig.
3).
3. Jacopo
Tintoretto,
Giuseppe
e la
moglie
di Putifarre,
1552-1555(?).
L'altra parte della sezione sul processo creativo è stata dedicata al
"disegno", inteso come strumento di apprendistato, sperimentazione e
composizione. La mostra includeva due tipi di disegni. L'uno, più
pittorico, è costituito dai disegni fatti da sculture: dell'antichità,
come lo
Pseudo-Vítellio (l'originale è al Museo Archeologico a Venezia, ma
alla mostra lo abbiamo sostituito con una copia veneziana del
Cinquecento proprietà del Museo del Prado), ma soprattutto quelli fatti
da modelli di Michelangelo. Tintoretto, che ha lasciato Venezia
solamente due volte per le vicine Padova e Mantova, mai ha avuto
l'occasione di vedere una statua originale di Michelangelo. Lui lo
conosceva attraverso piccoli modelli di gesso, terracotta o bronzo.
Questo gli concedeva maggiore libertà nel suo approccio alle sculture, e
il risultato sono disegni dove le statue sono rappresentate dai punti di
vista più inusuali. Così si vede con i disegni desunti dal Crepuscolo
di Michelangelo, alla mostra rappresentato da una eccellente
terracotta del Tribolo ora al Bargello, o Sansone e i filistei,
con quattro disegni che mostrano diversi punti di vista della scultura.
L'altro gruppo di disegni è costituito da quelli preparatori di una o
due figure inserite nei dipinti. Sono disegni più schizzati e tutti sono
tracciati su fogli quadrettati. La griglia aiutava il pittore a
stabilire le proporzioni delle figure, ma anche la loro traslazione
sulla tela. Riflettografie eseguite recentemente mostrano questa griglia
sotto alcune figure — mai sotto l'intero dipinto —, per esempio, la
Susanna di Susanna e i vecchioni. Malgrado non si conservi un
disegno della figura, sicuramente Tintoretto lo tracciò ma è andato
perduto. Al contrario di quanto sosteneva Vasari, da questa sezione
della mostra si deduce quanto lavorava Tintoretto per dimostrare che non
lavorava di più.
La seconda riflessione si riferisce alle origini di Tintoretto. Nel 2004
Fernando Checa pubblicò un saggio sul collezionismo di un nobile
spagnolo, Don Gaspar de Haro (1629-1687), marchese del Carpio, e delle
acquisizioni da lui fatte a Venezia intorno all'anno 1680. Tra le
informazioni contenute nel saggio, la più rilevante è quella
sull'acquisto fatto dal Carpio dei dipinti che rimanevano nella bottega
di Tintoretto, ancora aperta e sotto la direzione di un ormai
vecchissimo Sebastiano Casser. Gli agenti di Carpio, Antonio Saurer e
Vicente Colens, lo informano dei dipinti che ancora erano nella bottega,
quasi tutti ritratti e, tra questi, molti di membri della famiglia
Tintoretto, ma anche dell'esistenza di una "Genealogia della famiglia
Tintoretto". Questa "Genealogia", oggi perduta, includeva diverse
notizie sulla famiglia, tra cui osservazioni sulle sue origini
bresciane, sul suo cognome originario che era Comin e che quello di
"Robusti" fu adottato dopo la difesa fatta dal padre e dallo zio di
Jacopo, di una porta della città di Padova dinnanzi all'esercito
imperiale; ancora, il saggio ricorda che Jacopo era il primogenito di
ventidue fratelli, e che Marietta era figlia di una donna tedesca.
Quando lessi queste notizie, sconosciute al Ridolfi e al Boschini,
pensai che erano tanto affascinanti quanto difficili da ritenere
veritiere e ancora oggi ritengo che la "Genealogia", così come è
pervenuta agli agenti del marchese del Carpio, sia una
invenzione/falsificazione, forse fatta dallo stesso Sebastiano Casser.
Ma negli ultimi anni ho avuto occasione di studiare un'altra
falsificazione contemporanea: la cosiddetta "Memoria di Velazquez" sul
nuovo allestimento pittorico dell'Escorial alla metà del Seicento', e ho
compreso che una falsificazione quasi sempre ha un certo fondamento di
verità. Ritengo che questo accada anche con la "Genealogia di
Tintoretto".
Con l'aiuto di Roland Krischel si sono potute raccogliere altre notizie
pubblicate tempo fa. Nel 1925, Mary Pittaluga richiamò l'attenzione su
un certo Antonio Comin, «capo de Guardia all'officio delli Clarissimi
SS. di Notte al Criminal», che nel suo testamento lasciò tutti i suoi
beni a suo nipote Jacopo Tintoretto e ai suoi figli e dopo la loro morte
alla Scuola di San Rocco. Antonio Comin si era prima sposato con
Elisabetta Balao e, più tardi, contrasse matrimonio con Colorante di
Franceschina; quando lui morì nel 1579, la sua vedova richiese la
restituzione della sua dote, ciò a cui Tintoretto assentì attingendo a
fondi forniti dalla Scuola di San Rocco. Nel 1941, Gallo pubblicò nuove
informazioni su Antonio Comin, secondo le quali egli sarebbe il figlio
di un muratore dalla regione di Brescia, questo spiegherebbe perché lui
lasciò a Jacopo «tutte le cose et attiion ch'io ho, et podessi haver
nelli beni et cose de bressana libere et espedite». Così come la sua
propria famiglia, quella di Faustina, moglie di Jacopo, era originaria
di Brescia, dove il loro cognome originale, "Defendente", fu cambiato in
"Episcopi" o "dÈ Vescovi". Comin, il cognome del pittore, nel dialetto
veneziano vuole dire 'cumino', e Andrea Calmo, un grande amico di Jacopo
il cui padre era anche un tintore, può forse fare un'allusione al mondo
rurale quando chiamò il pittore "grano di pevere". In sintesi, si
potrebbe ipotizzare che Tintoretto sia nato a Venezia, ma i suoi
genitori e nonni, uno di loro 'muratorÈ, fossero di Brescia. Inoltre,
il suo matrimonio con una donna con simili origini suggerisce che
c'erano legami tra i membri della comunità bresciana che risiedevano a
Venezia. Alcuni anni prima di sposare Faustina, Tintoretto aveva
ricevuto dal suo futuro suocero Marco de Episcopi l'incarico di
dipingere il Miracolo dello Schiavo, la sua prima importante
commissione, quella che poi lo rese famoso. Tutti noi che ci occupiamo
di artisti del XV e XVI secolo sappiamo che il cognome era sempre più
importante del nome, e che questo poteva mutare spesso lungo la vita.
Sembra dunque più importante l'origine bresciana della famiglia, e
ritengo che uno studio dei legami dei circoli bresciani a Venezia in
futuro potrà rivelare fatti nuovi e interessanti che faranno luce sugli
inizi della carriera di Tintoretto.
Inoltre, nella "Genealogia di Tintoretto", la notizia dell'acquisto da
parte del marchese del Carpio di quello che rimaneva della bottega del
pittore nel febbraio del 1682 ha un interesse aggiuntivo perché ci dà
l'inventario della collezione del marchese fatto a Roma pochi mesi
'dopo'. Carpio era proprietario a Roma di 150 opere della famiglia
Tintoretto, la raccolta più sostanziosa di dipinti attribuiti a
Tintoretto mai fatta nella storia. Ma l'inventario romano del marchese
del Carpio è importante, oltre che per la quantità dei dipinti, anche
per la loro natura: con molti dipinti non finiti, disegni, bozzetti e
ritratti familiari, costituisce un valido strumento per indagare sul
funzionamento delle botteghe pittoriche venete.
Grazie ai 423.00 visitatori, la mostra Tintoretto ha soddisfatto uno dei
suoi obiettivi: richiamare nuovamente l'attenzione del gran pubblico su
un pittore eccezionale; spero che potrà anche ravvivare un maggiore
interesse per lui fra gli storici dell'arte.
Miguel Falomir Faus
Jefe del Departamento de Pintura
Italiana
y Francesa
(hasta 1700),
Museo
Nacional del Prado, Madrid.
Curatore della mostra.
ARTE Documento
N° 23
2007
©
Edizioni della Laguna
P.S.: Nel testo corrente sono
state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.