UN PERCORSO TRA DIPINTI DI «STORIA», RITRATTI, SCENE D'INTERNI, PAESAGGI:

IMMAGINI DI VENEZIA NEL SETTECENTO

 

Annalia Delneri

 

 

 

 

Ad aprire la grande stagione internazionale della pittura veneziana del Settecento furono i pittori di «storia», termine che definiva i grandi decoratori di chiese e palazzi, specializzati in dipinti di figura sacri e profani. Tuttavia la clamorosa affermazione di Sebastiano Ricci, Giovanni Antonio Pellegrini e Jacopo Amigoni, ovvero dei pittori che avevano saputo indicare nuove vie e che divennero gli artisti più contesi dalle corti italiane ed europee, avvenne fuori Venezia. Nella città lagunare i pittori di maggior successo nei primi decenni del secolo furono Antonio Bellucci, Gregorio Lazzarini, Antonio Balestra, Nicolò Bambini, maestri ancora legati al gusto seicentesco che registrarono con molto ritardo la vitalità della pittura «moderna».

Protagonisti del primo decennio del secolo furono Ricci e Pellegrini e il percorso della mostra inizia con il loro confronto diretto attraverso due stupendi dipinti inediti raffiguranti lo stesso soggetto, Rebecca al pozzo (cat. 1, 2). Tali opere si collocano tra il 1709-1710 (Pellegrini) e il 1712-1713 (Ricci) e la loro smagliante superficie cromatica rimanda alle faville dell'antagonismo tra i due, sempre risoltosi con un vantaggio per l'arte.

Giovanni Antonio Pellegrini entrò in contatto per la prima volta con Sebastiano quando entrambi lavoravano nella villa di Noventa padovana dei fratelli Giovanelli. Secondo Mariuz (1998, p. 24) quell'episodio fu importante perché «segna l'avvio di un rapporto di concorrenza fra i due artisti, specialisti di pittura decorativa e di "storia" su scala monumentale, entrambi impegnati a rinnovarla in un'interpretazione più briosa e sciolta, nel segno dell'eleganza piuttosto che della magnificenza: una interpretazione per la quale Pellegrini risulta, d'altronde, debitore al collega». A quell'epoca Pellegrini aveva però solo ventidue anni e difficilmente poteva immaginare di rivaleggiare con Ricci, che da oltre un ventennio era al servizio di principi e sovrani; più probabile è che avesse invece guardato a Sebastiano come a un maestro e che, come sostenuto da Scarpa (2006, p. 34), si fosse posto in un rapporto di alunnato, quantomeno culturale. Il buon rapporto tra Ricci e Pellegrini è confermato dalla collaborazione instaurata da quest'ultimo con il nipote di Sebastiano, Marco Ricci: nel 1707 Pellegrini chiese a Marco di collaborare con il fondale paesaggistico nel Mosè e il serpente di bronzo che stava portando a termine per la chiesa di San Moisè a Venezia; nell'ottobre 1708 il rapporto tra i due artisti si strinse ulteriormente quando entrambi partirono per l'Inghilterra su invito di lord Manchester in qualità di scenografi per l'Italian Opera del Queen Theatre di Haymarket a Londra. La collaborazione tre i due continuò nella decorazione di Castle Howard, York, ma i rapporti si guastano quando, nel 1711, Pellegrini fu invitato a partecipare al concorso per la decorazione della cupola di Saint Paul e Marco Ricci tornò precipitosamente a Venezia per convincere lo zio Sebastiano a presentarsi al concorso londinese. Il viaggio fu molto breve e, agli inizi del 1712, l'artista riprese la via per l'Inghilterra accompagnato dallo zio.

A Londra Sebastiano Ricci incontrò un Pellegrini che non era più l'artista ventenne e ancora impacciato incontrato a Noventa padovana perché, come efficacemente sintetizzava Francis Haskell (1966, pp. 426-427), in Inghilterra l'artista «quasi come una farfalla smagliante, lasciò cadere gli ultimi frammenti della dura crisalide seicentesca che aveva fino ad allora impedito le sue già audaci creazioni. In una serie di mitologie, "historie", capricci e ritratti, venne nascendo uno stile nuovo: senza peso, sensuale, qualche volta goffo e melodrammatico, ma quasi sempre libero da tensione». Sebastiano, indotto dal nipote Marco ad un confronto diretto con Pellegrini, scoprì il nuovo stile dell'artista restandone indubbiamente affascinato e, con la fulminea rapidità che lo contraddistingueva, compì un aggiornamento stilistico che lo portò a realizzare durante il secondo decennio del secolo opere di scintillante fantasia cromatica, dipinte con un tocco lieve ed eccitato che esprime la gaia briosità del nuovo gusto rococò.

All'Europa, più che a Venezia, è legata anche la fortuna di Jacopo Amigoni che, allievo di Bellucci, seguì il maestro a Düsseldorf, dove questi lavorava per l'elettore palatino. Nel 1717 Amigoni fu in Baviera al servizio dell'elettore palatino Max Emanuel II; tornato a Venezia dopo un breve soggiorno a Roma, nel 1729 partì per l'Inghilterra dove, pur lavorando per una committenza molto diversificata (Haskell 1966, pp. 437-438), ebbe la sua fase artistica più produttiva e felice (Scarpa 2007, n. 11.28-29). Tornato a Venezia nel 1739 fu tra gli artisti prescelti da Francesco Algarotti per rappresentare la scuola veneziana del tempo nella galleria di Augusto III a Dresda. Nel 1746 partì per Madrid dove assunse l'incarico di pittore di corte.

I raffinati idilli mitologici proposti nel percorso espositivo (cat. 6-9) danno la misura «di quanto intensa fosse la partecipazione di Amigoni alla temperie arcadica che connota tanta parte dell'epoca: qualificandosene fra i creatori e i protagonisti, per lucidità razionale che nella sua espressione poetica si accompagna alla sensitività più avvincente» (Pilo 1976, p. 124).

La successiva generazione di grandi artisti veneziani è rappresentata dai fratelli Gianantonio e Francesco Guardi. Il Muzio Scevola davanti a Porsenna (cat. 14) appartiene alla limitata attività di Francesco pittore di figura, che in quest'opera rende con notevole aderenza imitativa il brillante cromatismo di Gianantonio, da cui si distingue per il personalissimo uso di contornare le forme con una scrittura spigolosa e contorta di derivazione altoatesina. Le differenze che contraddistinguono Francesco da Gianantonio emergono chiaramente confrontando il Muzio Scevola con Il trionfo di Scipione (cat. 15) di mano del maggiore dei fratelli. Qui le figure sono interpretate nella chiave «illusionistica» che è propria di Gianantonio: la luminosità traslucida dell'episodio sfrangia i contorni delle figure dissolvendo la solidità delle forme costruite con tocchi guizzanti di cromie iridescenti. Ritroviamo nella qualità di questo dipinto i caratteri dell'arte antoniana perfettamente descritti da Morassi (1975, p. 95): «una fusione ineffabile delle qualità preclare del colorismo veneto del Settecento: dall'intenso calore di Sebastiano Ricci alla luminosità solare del Tiepolo, dal "chiarismo" di Pellegrini all'atmosfera agitata del giovane Canaletto, dalla nutrita plasticità del Piazzetta al delicato ed evanescente impasto cromatico di Rosalba Carriera, appunto. Un crogiolo di quelle vivide sostanze che l'arte di Venezia era riuscita a filtrare in secoli di raffinata incessante elaborazione poetica».

Dal 1700 Rosalba Carriera inizia a conservare la sua corrispondenza, formata dalle lettere a lei indirizzate e dalle minute delle sue risposte, e nel corso di quasi tutti gli anni venti tiene un Diario in cui annota puntualmente i fatti della giornata: le visite, i lavori in corso, le spese e i compensi, i ritratti su cui sta lavorando; saltuariamente vi è anche un cenno agli stati d'animo, soprattutto se negativi (Sani 1985). Franca Zava (2007, p. 15) sottolineava che «di pochi artisti, certamente di nessun artista veneziano, ci è dato di conoscere la vicenda umana e creativa con la puntualità pressoché quotidiana che distingue il caso di Rosalba Carriera». Da queste carte emerge come la pittrice sia stata al centro di una rete di relazioni europee che comprendeva sovrani, esponenti dell'alta aristocrazia e diplomatici, connoisseurs, pittori contemporanei e, naturalmente, i familiari. Il grande fascino che l'arte di Rosalba esercitava sui contemporanei dipende in gran parte dalla sensibilità del suo agire artistico perfettamente accordato alle istanze e al gusto del tempo.

Nelle miniature, ma soprattutto nei ritratti a pastello, l'artista creò due «generi» per soddisfare esigenze diverse: il ritratto che aveva «il dono di una sua intima naturalità esistenziale congiunta a un'interiore, naturalissima grazia» (Zava 2007, p. 21); i «ritratti di genere», messi a punto dall'artista nel terzo decennio del secolo (ibid., p. 18), dove deliziose fanciulle, accompagnate da piccole connotazioni di contenuto, raffigurano le Stagioni, le Muse, le divinità classiche, i costumi dei paesi esotici diventando l'oggetto del desiderio di committenti raffinati come Joseph Smith o prestigiosi come Augusto iii di Sassonia e re di Polonia. La naturalità del ritratto viene esemplificata nella mostra da tre pastelli – Ritratto di giovane cantante (cat. 42), Ritratto di Faustina Bordoni (cat. 46), Ritratto di William Hamilton bambino (cat. 45). Nel primo Rosalba coglie la personalità intensa dell'effigiata illuminandole il volto che appare bellissimo, nonostante i tratti non rientrino esattamente nei canoni della bellezza classica. La sicurezza interiore della virtuosa sí riflette nella genuina naturalezza con cui si atteggia nella posa ufficiale, rivelando con grazia squisita un carattere forte unito ad una generosa disponibilità. Il luminoso e sereno volto di Faustina Bordoni palesa autorevolezza, vivacità, fierezza. Rosalba lo costruisce con grande naturalezza accostando i colori tono su tono, raggiungendo una forza ed una sincerità espressive che non concedono abbellimenti e «sentendo» il carattere dell'effigiata con una determinazione razionale ed illuministica. Le sembianze del piccolo Hamilton, con i capelli biondi quasi rossi, la chiara carnagione inglese, le guance soffuse di rosa, la bocca dischiusa, pronta al sorriso, gli occhi vivaci ed intelligenti color nocciola, sono restituite con immediatezza delicata e gioiosa per rendere la grazia e la gaia spensieratezza dell'infanzia con naturalezza, senza affettazione.

Tra gli esempi di «ritratti di genere» si segnala la Cleopatra (cat. 43) dove la genuina naturalità della fanciulla si configura poeticamente come l'immagine vivida ma impalpabile di un sogno, sospesa nella vibrante azzurrità di un'atmosfera di sottile seduzione.

Affatto diversi dai ritratti di Rosalba Carriera sono quelli del veronese Pietro Rotari. I volti di fanciulla presentati (cat. 50-53) esemplificano la ricercata e codificata ritrattistica dell'artista che svapora i tratti individuali in omaggio all'ideale della grazia femminile: la materia impalpabile del pastello fa affiorare nelle giovani fisionomie le tonalità di stati d'animo sapientemente atteggiati per piacere allo sguardo degli altri, in perfetta sintonia con le attese e la sensibilità del rococò europeo.

Molto apprezzata dai contemporanei fu anche la ritrattistica di Giuseppe Nogari (cat. 48, 49). Nel 1736 il conte Tessin, consigliere artistico di Cristina di Svezia, in visita a Venezia valutava l'artista come «veramente ammirevole, scrupoloso, imitando la Natura come un fiammingo». Nogari era famoso soprattutto per le «teste di fantasia» e i ritratti immaginari a «mezza figura» fortemente influenzati da artisti nordici e specialmente da Rembrandt, raffiguranti di solito uomini e donne in età avanzata.

L'attività ritrattistica di Gianantonio Guardi è circoscritta al periodo in cui fu al servizio del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg (1737-1746) e dai Libri cassa risulta che l'artista eseguì ben venti ritratti di diverso formato del protettore. Nell'espressivo, penetrante ritratto qui presentato (cat. 47) traspare la personalità del feldmaresciallo, uomo coraggioso e battagliero, dotato di gran temperamento, che Gianantonio seppe rendere con un tocco in equilibrio tra virtuosismo celebrativo e pungente realismo.

Il Pitagoras di Giandomenico Tiepolo (cat. 54) è una trasposizione in pittura di un'incisione eseguita dall'artista stesso che fa parte della raccolta di sessanta Ritratti di filosofi ispirati alle invenzioni di Giambattista. Sulle teste di Giandomenico si soffermava affascinato Succi (1983, p. 384): «quei volti emergenti da misteriosi fondi bui, quegli occhi captanti in cui brilla la luce di una sapienza ancestrale, quelle barbe vaporose rese più morbide dall'incidenza della luce, quegli abbigliamenti sontuosi o grotteschi, quelle espressioni mutevoli che tipizzano ogni fisionomia sono per Giandomenico un magnifico pretesto formale per un audace scandaglio psicologico di valore semantico».

La sezione dedicata alle scene di genere raccoglie i dipinti che più immediatamente ci introducono nella vita del Settecento a Venezia: un universo in cui la seduzione opera con tutte le sue risorse: l'ornamento, l'abito elegante, la maschera tessono la trama della commedia mondana, mentre la vita di salotto – nei palazzi, nelle ville, al ridotto, nelle piazze, nelle botteghe del caffè – si dipana in un'atmosfera di douceur de vivre.

Nella Danza di tre coppie turche (cat. 55) di Gianantonio Guardi cogliamo la genialità dell'artista che ricavando il soggetto da povere incisioni tratte da Van Mour trasforma la scena in magica rappresentazione rivelando il suo ingegno e la sua delicata e brillante fantasia.

I dipinti di Longhi (cat. 56-58), deliziosa cronaca di vita quotidiana, aprono il sipario dei teatri domestici: la dama svenuta che accidentalmente fa mostra delle sue «grazie nascoste», l'intrattenimento letterario dove la costrizione dell'etichetta impedisce l'intimità irrigidendo i personaggi in ruoli fissi. Il racconto di Venezia nella vita privata si sposta all'esterno nella scena con la mostra dell'elefante, uno degli eventi straordinari che venivano predisposti in città durante il periodo del carnevale e che destavano la corale curiosità e ammirazione dei residenti e dei forestieri: qui l'artista, curioso come tutti, si autoritrae mentre disegna l'animale esotico sovrastando il pubblico dal palchetto apprestato per garantirgli la miglior visibilità dello spettacolo.

 

 

Giuseppe Angeli, Davide con la testa di Golia, cat. 17, particolare

 

 

La sezione spazia su altri artisti che sporadicamente si dedicarono alle scene di costume come Giuseppe Angeli, Francesco Maggiotto, Giuseppe Zais, Gaspare Diziani, Giuseppe Bernardino Bison, ma sicuramente l'attenzione si focalizza sui dipinti di Francesco Guardi, Lorenzo Tiepolo, Zugno - Battaglioli.

Maschere al caffè Florian (cat. 63) di Francesco Guardi è un'opera di notevole interesse storico ed artistico perché, oltre a costituire l'unica immagine settecentesca del caffè Florian, è un prezioso documento dell'attività artistica di Francesco. Scrive Succi in questo catalogo: «Le caratteristiche tecniche e stilistche dell'opera sono di notevole importanza ai fini della ricostruzione della carriera di Francesco perché si pongono in un momento cruciale della sua produzione pittorica, quando all'interesse per la figura si affianca una più sentita propensione per la ripresa vedutistica e d'ambiente. Avvalendosi di una stesura pittorica morbida, intonata su tonalità fredde, l'artista descrive a distanza ravvicinata i due portali delle Procuratie, seguendo i profili dei moduli architettonici in punta di pennello con un andamento segnico filamentoso, trascolorante dal bruno al grigio e rappreso in colature bianche dove la pietra è in pieno sole, in stretto allineamento con il contemporaneo stile di Canaletto, la cui cifra ritorna anche nella figura del cameriere a destra. [...]. In questa deliziosa pittura di costume Francesco Guardi si dimostra attento osservatore della vita quotidiana, capace di rendere con leggerezza le distinzioni sociali e la ferrea etichetta che governavano l'apparente spensieratezza della vita veneziana durante il carnevale. Le dame ed i cavalieri sono calati nello spazio del caffè Florian, elegantemente abbigliati per il reciproco piacere, liberi di osare schermaglie amorose sotto la protezione della maschera, indifferenti al cameriere che scivola silenzioso e defilato recando il vassoio con il bricco di caffè, condiscendenti con la giovane venditrice – riconoscibile per la moretta, la mascherina nera ovale riservata alle giovani popolane e alle cameriere – colta in atteggiamento civettuolo mentre offre le mercanzie del cestino. [...] [La scena] costituisce anche un fragrante documento della storia di Venezia dove, tra i locali pubblici, i caffè erano le mete più gradite, e tra di essi si distingueva per eleganza il caffè della Vittoria trionfante, aperto nel dicembre del 1720 e subito chiamato caffè Florian dal nome del proprietario Floriano Francesconi. Gli interni settecenteschi vennero modificati nella seconda metà dell'Ottocento e da allora sono rimasti immutati».

Manifesto della mostra, lo splendido dipinto raffigurante di Lorenzo Tiepolo raffigurante le Maschere veneziane (cat. 64) costituisce, sotto il profilo iconografico, un caso unico nella produzione di Lorenzo Tiepolo. Nella scheda dell'opera in questo catalogo Succi sottolinea: «il ritmico snodarsi della composizione intorno alla figura centrale dimostra la capacità dell'artista di attribuire un ruolo di assoluto rilievo anche alle altre splendide figure di gusto tipicamente veneziano, dal delizioso moretto che fissa con occhi brillanti la protagonista alla sensuale dama che occhieggia con sguardo invitante dietro la maschera detta moretta, dal gentiluomo in bautta e tricorno con le carte in mano, alla fanciulla seduta a sinistra, la cui magnifica veste fluente in morbidi panneggi è esaltata dal cappellino alla moda. Il dipinto esprime e sintetizza in maniera emblematica, con accenti di ammaliante introspezione psicologica, i caratteri distintivi della società veneziana intorno alla metà del Settecento, quando era famosa in Europa per i piaceri del gioco d'azzardo, le botteghe del caffè, le seducenti cortigiane. Il lusso della bevanda esotica mescolata in una tazzina preziosa, il fruscio di stoffe rare, la passione del gioco, il momento magico dell'esca amorosa: un mondo di illusioni e di atmosfere intriganti, illuminato da una luce vivida, viene espresso con una tecnica prestigiosa che utilizza pigmenti liquidi e guizzi infiammati. Il genio di Tiepolo, la vena arguta di Pietro Longhi, le finezze di Rosalba si fondono in un'opera coinvolgente di straordinario impatto che, partendo dalla studiata delimitazione del taglio compositivo, sospinge in primo piano la teoria delle figure annodate nella scioltezza di un ritmo semicircolare».

Chiude la sezione delle scene di genere la Visita in villa (cat. 65) di Francesco Zugno e di Francesco Battaglioli, opera deliziosa per la garbata e festosa visione della società del tempo con le elegantissime figure atteggiate in movimenti di danza per comporre un «allegretto scherzando». Nella quiete della campagna, animata dal melodioso sciabordio dello scorrere lento del fiume, il padrone di casa, abbigliato con un morbido ed elegante zamberlucco (veste da casa) e una camisiola (gilet) impreziosita da guarnizioni dorate, sembra essersi appena levato e non ancora del tutto sveglio: mollemente seduto sulla panca del bellissimo balcone balaustrato, sovrastato dalla Diana marmorea alle sue spalle, si volge con espressione languida all'elegante dama accompagnata dal nano che le regge l'ombrellino parasole di foggia orientale. Colta di spalle, la diafana fanciulla è atteggiata come la scultura di Diana sulla balaustra e il magnifico levriero che la segue sottolinea il rimando. A destra, il moretto, con la serica tunichetta cobalto, la collana d'oro e l'orecchino di perla, serve la cioccolata, equilibrando pittoricamente le squillanti note di colore degli abiti del nano: personaggi festosamente decorativi che fanno da cornice alla nobile coppia esaltando la squisita eleganza della loro mise in giallo pallido, bianco, cinerino argentato, rosa e tenero violetto, perfettamente intonata al chiarore mattinale. La raffinatezza dell'ambiente è resa in ogni dettaglio nella descrizione delle suppellettili con la cioccolatiera d'argento, le tazze di porcellana, la brocca dorata per il latte, la zuccheriera d'argento posate sui vassoi rialzati sotto cui, con apparente noncuranza, una tovaglia di lino è annodata alla balaustra. L'azione dei protagonisti condotta a passo di danza in primo piano si svolge nell'incantevole scenario di un lungofiume protetto da un alto bastione sopra cui si elevano aerei padiglioni e gallerie collegati dalle architetture del giardino all'italiana: un apparato scenico spettacolare la cui suggestione richiama la veduta dello Zwinger a Dresda, una delle creazioni più importanti dell'architettura del primo Settecento europeo.

La pittura di paesaggio come genere autonomo si affermò nei territori della Serenissima solo sul finire del Seicento ma grazie alla presenza di alcuni grandi e grandissimi maestri garantì, fin dai primi anni del nuovo secolo, una produzione dallo splendore abbagliante che incantò l'Europa intera.

Con Marco Ricci nasce nella città lagunare una maniera nuova di esprimere la natura che diventa, insieme all'uomo, protagonista della storia ideale e quotidiana: il susseguirsi delle stagioni si condensa in luoghi senza nome e tuttavia familiari perché rimandano al paesaggio veneto. Nella quiete delle colline e delle valli del Piave, il pittore ritrovava la realtà di una natura intesa non come Arcadia ma come meraviglia e stupore di fronte allo spettacolo dei monti, delle valli, dei fiumi, degli alberi dalle chiome opulente esaltate dalla qualità particolare, transeunte della luce.

Formatosi nella cerchia dei collaboratori dello zio Sebastiano Ricci, comprendenti l'anconetano Antonio Francesco Peruzzini e il genovese Alessandro Magnasco, Marco assimilò le tematiche di gusto tardobarocco innestandole su una sensibilità tipicamente veneta che si era forgiata sulla conoscenza diretta degli esempi dei paesaggi eroici di Giorgione e Tiziano. Nel suo processo formativo fu importante anche il contatto con le tematiche «pittoresche» di Salvator Rosa e con gli esempi della pittura paesistica olandese e fiamminga, che l'artista ebbe modo di apprezzare nelle gallerie dei raffinati conoscitori cui prestò la propria opera a partire dalla metà del primo decennio del Settecento.

Dopo aver lavorato per il gran principe di Toscana e la sua corte (1706-1707), l'avventura artistica di Marco Ricci fu contrassegnata da crescenti successi: nel 1708 accolse l'invito di Charles Montagu, quarto conte di Manchester, di seguirlo in Inghilterra, dove si trattenne fino al 1716 eseguendo prestigiose commissioni per i più influenti mecenati dell'epoca (Charles Howard, terzo conte di Carlisle, Sir Andrew Fountaine, Richard Boyle, terzo duca di Burlington). Rientrato definitivamente a Venezia (1716), l'artista stabilì un assiduo rapporto di frequentazione e di amicizia con Joseph Smith, il futuro console inglese a Venezia che proprio allora iniziava la sua favolosa collezione di dipinti e di antichità. Oltre a divenire uno dei primi artisti protetti da Smith, Marco Ricci stabilì relazioni di sincera amicizia con Anton Maria Zanetti senior, il finissimo conoscitore veneziano che, appassionato cultore di grafica, suscitò nel bellunese l'interesse per l'arte incisoria. L'artista si spense a Venezia il 21 gennaio 1730 e, due decenni dopo (1749), l'abate Girardi lo ricordava annotando: «Da chi il conobbe vengo a sapere, ch'esso Marco fu bizzarro e allegro di temperamento, gracile adusto e macilente di corporatura, nobile di aspetto, cortese e onorato nel conversare, noncurante di ricchezze, tollerante le avversità».

Verso la metà del terzo decennio del Settecento, Marco Ricci dipinge opere come il Grande paesaggio con fiume, lago e figure varie (cat. 27), o il Paesaggio prealpino con viandanti (cat. 28) dove la visione della natura è modulata su ritmi e tempi che elidono le punte acute del sentimento e dell'immagine. La nota dominante è la dolce pacatezza del tono, il sapiente equilibrio delle parti, la forza di una composizione che bandisce ogni eccesso. La natura non è abitata da pastori arcadici e non c'è ombra di malizia nelle donne intente a sciacquare i panni. L'artista consegue effetti di incantato lirismo raffigurando i personaggi più comuni nelle attitudini quotidiane, mentre la visione panica della natura si accompagna alla classica essenzialità del tratto pittorico, caratterizzando in maniera emblematica i suoi «paesaggi eroici». Temperamento lunatico e saturnino, il maestro fu costantemente te-so nello sforzo del rinnovamento in senso luministico e atmosferico del linguaggio pittorico, sulla base di una ispirazione fondamentalmente limpida, meditata, di grande respiro. L'artista era morto da solo tre anni quando venne con lucidissima intuizione definito da Zanetti (1733) come «valente nelle architetture e nei paesi spezialmente, che formò in ogni modo, a tal segno, che dopo Tiziano sino ad ora non si vide, che l'uguagliasse».

Dopo la morte di Marco Ricci il paesista più accreditato di Venezia fu il toscano Francesco Zuccarelli che divenne uno dei massimi esponenti del paesaggio arcadico europeo. Formatosi sotto l'influenza della concezione classicheggiante di Lorrain, Locatelli, Orizzonte, Monaldi – dalla quale non riuscirà mai a separarsi completamente –, Zuccarelli, che si era trasferito a Venezia nel 1732, andò affinando la propria arte in una duplice direzione: nelle squisite tonalità di un colorismo luminoso e dorato, caratterizzato da un'accorta fusione di delicati pigmenti, e nell'apertura verso l'interpretazione veneta del paesaggio operata da Marco Ricci. Nella città lagunare l'artista ebbe modo di entrare in relazione con committenti importanti come Anton Maria Zanetti e il feldmaresciallo Matthias von der Schulenburg che tra il 1737 e il 1738 acquistò ben nove paesi per la sua prestigiosa galleria.

Con il passare degli anni cominciò a prevalere nella produzione di Zuccarelli la raffigurazione di una natura popolata di pescatori, pastorelli, cavalieri con cappelli piumati, lavandaie: una società bucolica in linea con il raffinato gusto internazionale, immersa in un'atmosfera di perenne festa campestre e talora indulgente al soggetto mitologico o letterario. Luminosità soffuse, ombre leggere, orizzonti vaporosi, acque smeraldine e teneri boschetti furono gli ingredienti di una poetica distillata il cui l'emozionante scoperta della natura lasciò il passo alle ricercatezze di un abbandono arcadico e agli spunti bucolici di una pittura spensierata, esaltante il mito della felicità agreste: un genere destinato ad incontrare grande favore presso la società veneziana e le corti europee dell'epoca. L'affermarsi di questa visione paesistica – Paesaggio con specchio d'acqua e villaggio sullo sfondo; Paesaggio fluviale con pastorelle e armenti; Paesaggio fluviale con alberi, contadinelli e borgo rustico (cat. 29-31) – ricevette impulso dall'incontro con Joseph Smith, il fine conoscitore che annoverava nella sua raccolta almeno trenta dipinti di Zuccarelli, da lui molto apprezzato ed entusiasticamente patrocinato a livello internazionale. Durante il primo (1752-1761) e il secondo (1765-1771) soggiorno a Londra l'artista fiorentino accentuò le sottigliezze del fraseggio narrativo, la stesura levigata della pennellata e le raffinatezze della tavolozza, facendo più largo impiego degli azzurri opalescenti e dei violetti nei monti lontani, dei rosa tenui sulle nuvole, dei verdi smeraldini del fogliame, in una sinfonia di tinte sfumate e di effetti vaporosi. Anche le figure acquistarono una politezza formale che allentava la freschezza e la grazia civettuola delle scenette bucoliche e idilliache degli anni quaranta, nelle quali la vitalità festosa del paesaggio interagiva con la palpitante e ridente malizia delle ninfe e giovinette di stupenda bellezza, danzanti in compagnia di fauni spensierati sopra tenere radure. La straordinaria interpretazione della poesia arcadica del Settecento offerta da Zuccarelli esprime a livello altissimo il sogno di un mondo svincolato da ogni freno perché riscattato dall'audacia quasi immateriale di un melodioso virtuosismo pittorico.

Affini nella tematica idilliaca e arcadica ma sostanzialmente diverse nell'interpretazione, le vigorose inscenature paesistiche di Giuseppe Zais si distinguono per la natura meno idealizzata, più genuina, espressa con pennellate dense e toni caldi, fortemente chiaroscurati. Formatosi sotto l'influenza del conterraneo Marco Ricci, come dimostra la serie di dodici piccole tele, provenienti dalla collezione Agosti, esposte nel 1954 alla mostra Pittura del Settecento nel Bellunese curata da Valcanover, l'artista si aprì nel corso del quinto decennio agli stimoli dell'elegante Arcadia zuccarelliana, pur conservando quella gustosa rusticità che costituisce la nota fondamentale della sua feconda produzione.

Esemplare in questo senso è il grandioso ciclo proveniente da palazzo Mussato a Padova, ora ai Musei civici di Padova, probabilmente commissionato intorno al 1745, quando l'artista era alla ricerca di una definizione più precisa della propria personalità. Secondo Franca Zava Boccazzi il livello qualitativo e la perizia esecutiva del ciclo padovano «indicano un traguardo piuttosto che un esordio, ponendosi, a evidenza, come un raggiungimento al vertice della giovanile, fondamentale esperienza sugli esempi di Marco Ricci».

 

Giuseppe Zais, Paesaggio con cascata, lavandaie e pescatori, cat. 34, particolare

 

 

A questo momento appartiene il Paesaggio con cascata, lavandaie e pescatori (cat. 34) che, intonato su note di argentea luminosità, si rivela affine al ciclo padovano per la lirica rievocazione della quiete del paesaggio cadorino. Modulata su esempi ricceschi, la pittoresca veduta si rivela particolarmente attenta ai valori figurali di Zuccarelli, cui le bellissime e corpose macchiette fanno sicuramente riferimento.

Capolavoro della maturità del maestro agordino è la splendida coppia di paesaggi inediti raffigurante Il ballo con il tamburello e La mosca cieca (cat. 35, 36), connotata da una festosa freschezza cromatica che discioglie le chiare tonalità in luminosità dorata.

Stilisticamente avvicinabili al Paesaggio con fanciulle al torrente del Museo civico di Vicenza (inv. A-225) e al Paesaggio fluviale con ponte ad un'arcata, pescatore, lavandaie e viandanti della collezione Terruzzi (Scarpa 2007, n. 11.96), queste bellissime tele – da annoverarsi tra i capolavori di Zais – documentano la raffinatezza pittorica che caratterizza l'opera dell'artista verso la metà degli anni cinquanta quando, superato il linguaggio dell'elegante Arcadia di Zuccarelli, l'artista formula in termini nuovi ed originali una concezione della natura di matrice squisitamente veneta che coniuga la bellezza formale alla genuina adesione al mondo degli umili.

 

 

Giuseppe Zais, Capriccio paesistico con la chiesa di San Giorgio Maggiore, cat. 38, particolare

 

Il pendant raffigurante il Paesaggio con cascate con pastori, viandanti e pescatori e il Capriccio paesistico con la chiesa di San Giorgio Maggiore (cat. 37, 38), databile verso la fine degli anni sessanta, è espressione particolarmente felice dell'ultima stagione creativa di Giuseppe Zais che in queste tele si rivela uno degli ultimi grandi interpreti di un sentimento della natura e della storia espressi da un'epoca alla costante ricerca del punto di equilibrio tra uomo e natura.

Altri paesisti meno noti, ma egualmente meritevoli di attenzione, furono attivi a Venezia nel Settecento confermando l'ampio interesse suscitato da questo genere di pittura reso completamente autonomo dall'opera di Ricci, Zuccarelli e Zais. Al paesaggio si dedicarono anche stimati pittori di figura come Gaspare Diziani, qui presente con due suggestivi paesaggi inediti — Paesaggio con Giunone e Paesaggio invernale (cat. 39, 40) — resi con la scioltezza esecutiva e il vivace cromatismo peculiari del pittore.

 

 

 

Annalia Delneri

 

 

 

 

Le Meraviglie di Venezia                                                                     © Marsilio Editori SPA