Giuseppe Maria Pilo
Postilla a:
Il Tempo tarpa le ali a Cupido di Pompeo Girolamo Batoni
Pompeo Girolamo Batoni,
Trionfo di Venezia, 1737.
L'assemblaggio
allegorico ha del surreale. Il fondale scenico si svolge seguendo
l'andamento degli aspetti emergenti dell'area marciana - fronte al
bacino di San Marco -: da occidente a oriente, i Granai di Terraferma,
la Zecca, il voltatesta della Libreria, le due colonne di San Teodoro e
di San Marco sulla piazzetta, il Palazzo Ducale sulla snella, pittorica
mole del quale svetta il campanile di San Marco; certo, siamo lontani
dalla trasfigurazione poetica del reale propria del Canaletto; vien
fatto di pensare piuttosto prima di lui e a lui non estranea, alla
lucidità algida di Gaspar van Wittel; chiude la scena, a destra, una
quinta di rovine antiche. Nel proscenio, 'di qua' del breve specchio
d'acqua su cui indugiano rare gondole, si accampa l'affollato primo
piano dell'allegoria.
Al centro della fitta
e articolata composizione è la personificazione di Venezia, come Venere
nata dal mare, su un trono dorato a forma di conchiglia rinfiancato da
protomi leonine e trainato da due robusti leoni alati; alla sua
sinistra, il doge Leonardo Loredan (1501-1521) le posa la mano destra
sulla spalla, con l'altra indicando i frutti della terra recati da
floridi putti allusivi alla prosperità dello Stato di Terraferma;
alla sua destra la
figura stante di Minerva armata ma recante un ramo di ulivo e additante
quattro putti che l'attorniano intenti ai simboli delle arti, rifiorenti
grazie alla pace;
dietro di lei Marte,
anch'egli in armi, segue con lo sguardo l'ampio gesto di Nettuno che,
accosciato di spalle davanti a lui, indica il bacino di San Marco e il
mare;
sul lato opposto, in
primo piano a destra, Cerere e la personificazione dell'Agricoltura
ricevono frutti della terra.
Nella sovrastante
quinta di rovine antiche, sei vegliardi, testimoni dell'antichità
classica greca e romana, apprendono da un volume recato in volo da
Mercurio le imprese che fanno la gloria di Venezia, continuatrice di
quelle antiche civiltà;
la Storia stessa, al
culmine della piramide compositiva, dal duplice volto, del vegliardo (la
Prudenza) che guarda in alto all'indietro (verso il passato) e della
giovane donna che registra l'attualità svolgendone il rotolo, ne è
testimone e garante; accanto a lei, la Fama, con ramo d'ulivo e tromba,
ne divulga lo stato felice.
È Il trionfo di
Venezia, dipinto da Pompeo Girolamo Batoni nella primavera del 1737
su commissione del patrizio Marco Foscarini (1695-1763) per il palazzo
di Venezia in Roma, sede della rappresentanza diplomatica della
Serenisima preso la Santa Sede di cui il Foscarini era allora divenuto
titolare, fresco dei successi riportati sullo stesso terreno a Vienna e
a Milano. Personaggio di vivaci curiosità culturali aperto anche sul
contemporaneo – commissiona a Subleyras il suo ritratto, ora al Museo
Correr di Venezia – di notevole spessore intellettuale e di chiara
visuale politica, futuro doge (1762-1763), il Foscarini ha una lucida
percezione delle circostanze internazionali in cui si trova a dover
agire lo Stato veneziano: per molti versi affini a quelle successive
alla guerra della Lega di Cambrai, quando a reggerne le sorti fu appunto
l'accorto doge Leonardo Loredan: pur nell'inobliabile prospettiva
dell'orizzonte marittimo, qui peraltro, e certo non a caso, meramente
alluso, la valorizzazione dello Stato di Terraferma e il perseguimento
della pace, fautrice delle arti, del sapere e della prosperità.
Il ritratto del doge Loredan è mutuato da quello celeberrimo di
Giovanni Bellini ora a Londra, National Gallery, appartenente all'epoca
alla collezione del cardinale Giovanni Grimani, ma con anche
contaminazioni dal telero di Palma il Giovane nella Sala del Senato di
Palazzo Ducale. Anthony M. Clark (Some Early Subject Pictures by Pompeo
Batoni, in "The Burlington Magazine" CI, June 1959, p. 235, n. 7; Pompeo
Batoni, A Complete Catalogue of his Works with an Introductory Text, New
York University Press, Oxford, Phaidon, 1985, p.213), ha individuato le
fonti figurative cui Batoni si riferisce: Venezia sul carro
deriva dall'affresco con il Trionfo di Cerere di Pietro da
Cortona nella villa Sacchetti a Castelfusano; la Fama dalla figura
allegorica della Prudenza affrescata da Raffaello nella Stanza della
Segnatura in Vaticano; a modelli di statuaria antica sono ispirate le
figure di Marte, derivante da una statua del Museo Capitolino, e di
Minerva, da un marmo della medesima raccolta con desunzione da un marmo
di palazzo Farnese per la foggia dell'elmo; all'estremo opposto, la
positura di Cerere è un calco da quella di Venere nel Trionfo di
Bacco e Arianna di Annibale Carracci affrescato in palazzo Farnese,
con la mutuazione del motivo dell'acconciatura da quella di Venere
allo specchio nella National Gallery of Art di Washington. È
singolare, e inconsueto nel percorso delle allegorie celebrative che
connotano di frequente la pittura veneziana, il ricorso pressoché
esclusivo da parte di Batoni a fonti iconografiche antiche,
rinascimentali e barocche, non veneziane; con un'eccezione, per la
figura del doge Loredan, unico punto di riferimento storico emergente
dall'assieme dell'allegoria: a significare l 'analogia, individuata da
Phillip Fehl (A Literary Keynote for Pompeo Batoni's Triumph of Venice,
in "The North Carolina Museum of Art Bulletin" X,1971, pp. 3-15;
Pictorial Precedents for the Representation of Doge Lionardo Loredano in
Batoni's Triumph of Venice, ibidem XI, 1971, pp. 21-31) presente nel
pensiero di Marco Foscarini, diplomatico, politico e storico della
Repubblica, fra la situazione di angustia vissuta da Venezia
all'indomani della guerra della Lega di Cambrai e la restrizione dei
suoi orizzonti subentrata alla pace di Passarowitz del 1718, entrambe
riscattate dalla promozione di un rinnovato benessere civile e dalla
fioritura delle arti. È anche singolare, l'ha rilevato Haskell (Patrons
and Painters. A Study in the Relation Between Italian Art and Society in
the Age of the Barogue, London 1963, pp. 259, 357, 381), come nessun
accenno figuri nella vasta composizione (olio su tela, cm. 174,30 x
286,10) alla personalità del committente né alla famiglia di lui, che
era una famiglia cospicua della classe dirigente veneziana: per
rivolgere interamente l'interesse all'esaltazione della realtà dello
Stato e delle istituzioni, comprova da parte del Foscarini di un forte
senso dello Stato, del quale una coscienza avvertita e colta come la sua
evidentemente percepiva all'epoca la necessità e l'urgenza, sentimenti
che trovano del resto riscontro nelle attestazioni offerte da Francesco
Benaglio, iI segretario del Foscarini che divenne anche biografo del
Batoni (Abbozzo della vita di Pompeo Batoni pittore, in Vita e prose
scelte di Francesco Benaglio, a cura di A. Marchesan, Treviso 1894). Il
dipinto fu esposto a palazzo Venezia in Roma dal 1737 al 1740;
trasferito a Venezia dentro il 1745, vi è ricordato da Francesco
Algarotti nel 1751. Sempre a Venezia, appartenne alla Galleria Manfrin
fino al 1856. Passato a Trieste e di là a Vienna, vi fu acquistato
l'anno successivo da un diplomatico americano. Negli Stati Uniti,
attraverso vendite pubbliche, fece parte di diverse collezioni, per
trovare alfine posto nel 1956 nella Samuel H. Kress Collection di New
York, che nel 1960 lo conferì al North Carolina Museum of Art. Ebbe una
posizione di spicco nella mostra "Venezia da Stato a Mito" ordinata a
Venezia dalla Regione del Veneto e dalla Fondazione Giorgio Cini nel
1997. In quella mostra ebbi qualche parte; e il Trionfo di Venezia di
Batoni mi fece subito una grande impressione: per tutte le ragioni,
credo, che il dipinto convoglia con sé e che sono fin qui riaffiorate al
ricordo di quei giorni. Esse mi si sono prontamente riproposte quando,
anni sono, ebbi la ventura di incontrare quella smagliante testimonianza
della prima maturità del Batoni che è il Tempo tarpa le ali a Cupido
atto noto in queste pagine da Luigi Menegazzi. Ma perché il Trionfo
di Venezia mi è tornato alla mente? Ne sono stato stimolato, certo,
dal brillante apporto conoscitivo qui recato dal collega e amico; ma
perché, dico, 'nel merito'? Forse perché vi si respira - e, a ben
guardare, non potrebbe essere altrimenti, trattandosi del medesimo
artista e, con appena un lieve scarto di tempo, degli stessi suoi anni -
la medesima temperie tenera e nostalgica; sostenuta dalla elegante
complessità culturale che ne motiva il pensiero e il linguaggio.
In effetti, Il Tempo che tarpa le ali a Cupido si situa in
apertura degli anni Quaranta; quando il pittore, da ormai quasi un
ventennio trasferitosi nella città eterna e radicatosi nel suo variegato
e dinamico tessuto culturale, mostra di avere superato le iniziali
suggestioni del barocchetto neomarattesco, in specie di Sebastiano
Conca, per dar luogo a un suo personale linguaggio, sensibilissimo e
aperto, vuoi a eleganti declinazioni del rococò internazionale, vuoi a
istanze dell'incipiente gusto neoclassico; che avrà anzi in lui, in
parallelo con Anton Raphael Mengs, un interprete fra i più accreditati e
prestigiosi. Raro è il tema, peraltro agevolmente individuabile a causa
degli attributi che le due figure recano in evidenza: le grandi ali, la
falce e la clessidra, la vigorosa e gagliarda figura di vegliardo che
rappresenta il Tempo; con le alucce, oggetto dell'inopinato `intervento
' , donde il tema del dipinto, l'arco spezzato, la faretra colma di
frecce, la figuretta urlante del Cupido - che peraltro, giovi l'inciso,
si appoggia al modello medesimo del Bambino di una bella, giovanile
Madonna del Batoni a me nota, in collezione Martani, Bologna, fatta nota
da L. Muti (cfr. il volume da me introdotto, di Aa. Vv., Pittura a
Zola Predosa, dipinti dal Sei all'Ottocento, Bologna 1998, pp. 22,
99), situabile, come credo, in chiusura del terzo decennio, subito dopo
l'insediamento del pittore a Roma. Il ricorrere dei 'tipi' bene si
accorda, del resto, con il carattere emblematico e di 'moralità' che
certamente al dipinto compete. Ecco, per esemplificare, il 'tipo'
del Tempo ritornare nel dipinto della National Gallery di Londra
raffigurante Il Tempo che ordina alla vecchiaia di distruggere la
bellezza del 1745-46 (riprodotto nella monografia di Anthony M.
Clark, 1985, n. 108) (fig. 2); e, prima, nel Tempo che scopre la
Verità di Palazzo Colonna, Roma, 1737-39 (ibidem, n. 24) (fig. 3).
Una testimonianza assai fine e significativa, dunque, per ogni verso
eccellente, di Pompeo Batoni; ma non solo, perché bene rappresentativa
altresì dell'evolvere del gusto nella cultura figurativa europea poco
avanti la metà del XVIII secolo.
"Di quel gusto in fieri" - mi piace, e tanto più in questo contesto
destinato a rendergli festoso omaggio, cedere la parola a Pietro
Zampetti, che pure ha avuto l'opportunità di esprimersi sul dipinto -
"arcadico, illuminista, che caratterizza il momento del passaggio fra il
rococò e il neoclassico "Pompeo Batoni" è fra i massimi e più quotati
interpreti" ... " Ma qui tutto è visto in chiave, si direbbe, melodica
ed arcadica e il soggetto sembra nato sull'onda lunga dei versi di un
Metastasio o delle cadenze musicali di un Vivaldi: quello dell 'Estro
Armonico o delle Quattro Stagioni".
Giuseppe Maria
Pilo
ARTE Documento
N°19 2003
©
Edizioni della Laguna
P.S.: Nel testo corrente sono
state omesse, per questioni di spazio, le note dell'autore.