I restauri, le sponsorizzazioni e il concetto di 'valore'
 

 

Paolo Rizzi

 

 

 

 

Giovan Battista Tiepolo, Agar e Ismaele, 1732 ca. Venezia, Scuola Grande di San Rocco.

Restaurato con il programma "Restituzioni" 1995.

 

 

 

Quel Carpaccio lo consideravamo un po' 'nostro'. Ogni volta che allestivamo una mostra, nel vano monumentale della chiesa di San Vidal, la grande pala pareva sorvegliare e ammonirci. Qualche pittore diceva: "Speriamo che i miei quadri s'intonino". Ma lo conoscevamo poco. Mi ero arrampicato un paio di volte sull'altare per osservarlo da vicino. Una volta chiamammo anche un noto restauratore per farlo esaminare: le sue condizioni di conservazione parevano buone. Non era un capolavoro. Mi piaceva quella bonomìa del santo a cavallo che stava in posa, mentre sulla balaustra i quattro santi conversavano pacatamente tra loro e lassù, nel cielo curiosamente verdastro, la Madonna si coccolava il suo Bambinello attorniato - così allora sembrava - da cuoricini rossi. Si riusciva a leggere il cartiglio: "Victor Carpathius/pinxit/ MDXIII". Un'opera tarda, quindi; e un po' stanca. Ma sempre un nobile Carpaccio, oltretutto di dimensioni notevoli: quasi quattro metri e mezzo di altezza, più la monumentale cornice.
Quando la Soprintendenza lo chiese all'UCAI veneziana per un restauro, alcuni consiglieri ebbero delle perplessità. Si giudicò rischioso far uscire la grande tela dalla chiesa; e il restauro - sponsorizzato, ci si disse, da un ente bancario - non ci pareva poi così urgente, rispetto ad altre più impellenti necessità. Si sa come stanno le cose: chi spende soldi per sponsorizzare restauri esige opere di prestigio. Le soprintendenze non sempre hanno la forza di far prevalere ragioni meno effimere. Ma tant'è. Il Carpaccio partì da San Vidal. Quando approdò a Vicenza per l'ormai tradizionale mostra "Restituzioni" (era il settembre 1994) avemmo, noi tutti del Consiglio di San Vidal, un sussulto. Quel Carpaccio era, per una fascia di quasi un metro, di ignota mano settecentesca.
Si trattava - e Ettore Merkel nell'accurata scheda in catalogo lo chiariva - di un'operazione che oggi ci fa inorridire ma che allora, appunto nei primi anni del Settecento, era passata tranquillamente. Poiché con la ricostruzione della chiesa era stato eretto un monumentale altare, il vicario pensò bene, non si sa per quale ragione, di infilarvi la pala del Carpaccio che doveva stare in un altare minore. Ma la tela era di 95 centimetri più piccola della cornice. Così, invece di rimpicciolire la cornice, si ... ingrandì il quadro. In sostanza: si incaricò un ignoto pittore di realizzare un impianto da sartoria, ritagliando la Madonna e ricucendola più in alto, su un altro pezzo di tela similarmente dipinto; e in basso, contemporaneamente, si allungò il terreno. Il tutto armonizzato da una mano indubbiamente sapiente, da autentico falsario.
Nessuno in epoca moderna si accorse di questo clamoroso allungamento. Soltanto ora, nel corso del restauro, la cosa è saltata fuori. Naturalmente non s'è potuto attuare il ripristino: lo stato originario risulta ai nostri occhi soltanto attraverso un montaggio fotografico... E diciamolo francamente: quel temerario vicario di San Vidal finì addirittura col migliorare, almeno sul piano compositivo, l'impianto della pala. Strano, assai strano.

Questo episodio m'è rimasto impresso nella mente. Perché? Per almeno tre ragioni. La prima riguarda la 'necessità' dei restauri di opere d'arte: cioè la distinzione tra autentiche ragioni di conservazione e ragioni che direi meramente estetiche. La seconda riguarda quella che noi oggi chiamiamo sponsorizzazione: una mistione di promozione commerciale e di "obolo culturale", che non sempre risponde a fini nobili ma che in certi casi diventa felice integrazione tra mano pubblica e mano privata. La terza riguarda le 'sorprese', talora anche clamorose, che attendono chi si trova a studiare in profondità l'opera d'arte. Sono tre piani distinti. Cominciamo con l'esaminare il primo.
Il restauro, a mio avviso, finisce spesso per toccare non soltanto la pelle esterna dell'opera, ma la sua interna struttura. Esempio primo è quello della Cappella Sistina. Qui non abbiamo dubbi che il restauro - o meglio la pulitura - sia stato accuratissimo; e che abbia contribuito ad 'avvicinarci' allo stato originario dell'opera. I dubbi insorgono quando ci rendiamo conto che qualcosa si è perso proprio laddove si è guadagnato. Il Giudizio Universale oggi ci appare più 'pulito', cioè più nitido e leggibile, ma anche meno 'misterioso'. Lo sforzo che facevamo per entrare nell'atmosfera affocata e densa dell'affresco, cioè per partecipare alla tragica scena, oggi è almeno in parte sostituito dal ripristino 'passivo' di colori e forme, nonché dall'illuminazione artificiale.
Che dire? Aveva ragione Marguerite Yourcenar: "Il tempo grande scultore". Non sempre l'opera d'arte nei secoli perde qualcosa, cioè si consuma; talvolta può acquistare. Nella Cappella Sistina ora non c'è più quella grossa crepa nera che attraversava la parte bassa del Giudizio: ebbene, essa mi appariva come un'aggiunta, sia pur casuale, del tempo al dramma della rappresentazione pittorica... Concetto romantico? Non direi. Noi abbiamo imparato ad amare la grecità classica - diciamo le sculture di Fidia o di Prassitele - sulla base di un falso storico: le vediamo candide mentre erano dipinte, comunque trasformate con aggiunte anche materiche. Che cosa succederebbe se noi potessimo (per ipotesi assurda) ripristinare lo stato originario dei fregi del Partenone? La nostra cultura è fatta di concrezioni della storia: cioè di trasformazioni dovute al tempo, sia in senso letterale che in senso concettuale. Non possiamo 'vedere' la Grecia perché siamo fuori dalla 'verità' della Grecia. La storia, come dice Braudel, è sempre un travisamento.
Giorni fa ho visto a Roma, alla Fondazione Memmo, la mostra su Alessandro Magno. Che cosa mi è rimasto in testa? L'interpretazione dei posteri: cioè la mitizzazione, la divinizzazione del personaggio. Soltanto qualche briciola, spesso insignificante, mi ha avvicinato alla storicità di Alessandro. Ho visto qualche spuntone di lancia, qualche frammento di elmo, i resti della tomba di Filippo II: poco, troppo poco. Quell'Alessandro non è il 'vero' Alessandro. Così per la Sistina. Quel che vediamo oggi non è il 'vero' Michelangelo: è ciò che noi interpretiamo della cultura pittorica dell'artista e, in generale, del suo tempo. Ci si obietterà che questa è la vita: il passato non è che ricordo, e il ricordo è soggetto allo sviamento che noi inevitabilmente gli diamo. Dobbiamo rispettare questo 'valore' della cultura, anche se è a posteriori e non corrisponde alla realtà fattuale.
A questo proposito mi sovviene una pagina di Ernest Gombrich, quando racconta di un episodio accaduto durante il nazismo. Nei primi mesi del regime hitleriano Wolfgang Koehler, grande pioniere della psicologia gestaltica, osò scrivere su un giornale un articolo contro le epurazioni naziste nelle università. Qualche anno dopo, quand'era rifugiato a Princeton, Koehler raccontò che, dopo la pubblicazione dell'articolo, lui e i suoi amici passarono la notte in attesa dei fatali colpi alla porta della Gestapo: la passarono suonando tutti assieme musica da camera. "Non riesco a pensare" commenta Gombrich "un esempio migliore del posto che ha il valore in un mondo di fatti".
Ecco: il problema è quello, appunto, di salvare il 'valore': non tanto di salvare la sostanza materiale dell'opera d'arte. Il che mi rende sempre assai dubitoso di fronte a restauri che intendono "riportare l'opera allo stato originario". Attenzione: il tempo è un ingrediente che si salda indissolubilmente con l'opera. Non solo è inutile, ma dannoso, spesso esiziale, cercare di eliminarlo: magari con effetti grotteschi di lifting. Quando mi reco alla National Gallery di Londra non manco di piangere sui Tiziano trasfigurati, vilipesi, violentati: cioè sul 'valore' perduto.

 

 

Giovan Battista Tiepolo, Abramo visitato dagli angeli, 1732 ca. Venezia, Scuola Grande di San Rocco. Restaurato con il programma "Restituzioni" 1995.


 

E' qui che sopravviene il problema delle sponsorizzazioni. Un tempo (stavo per dire: ai miei tempi) la sponsorizzazione era un contributo che, in cambio di pubblicità su cataloghi, striscioni, manifesti, veniva fornito da privati in occasioni speciali di mostre o pubbliche manifestazioni. Un dare per avere, insomma: in cui la cultura finiva per essere, più o meno, merce di scambio. Oggi può essere ancora così: anzi lo è. Ma un indirizzo nuovo sta affacciandosi. Lo sponsor 'partecipa': si fa parte attiva nella conservazione, nel restauro, nello studio e nella valorizzazione del bene culturale. E' un tema che "Arte Documento" ha più volte trattato, per la penna di illustri specialisti. Io, che specialista non sono, mi guardo bene dall'aggiungere del mio a quello che altri, ben più preparati, hanno illustrato. Il mio punto di osservazione è quello, semmai, del cronista: o fors'anche dell'amatore, del frequentatore di mostre, del lettore di libri, un po' del (piccolo) collezionista.
Torno all'episodio del Carpaccio di San Vidal. Quel quadro, per molti versi considerato risaputo, quindi 'pacifico', non avrebbe riservato una sorpresa così clamorosa se non fosse intervenuto un ente bancario - appunto il Banco Ambrosiano Veneto - nell'ambito di una iniziativa ormai tradizionale: quella di "Restituzioni". Certo, Carpaccio 'ritagliato' è qualcosa di inaspettato: un imprevisto nella lunga paziente routine degli studi. Ma è dalla perseveranza che nascono casi come questo. La perseveranza significa metodo: quindi agire non per circostanze e fini spettacolari, ma secondo un autentico spirito culturale. Le "Restituzioni" sono giunte alla settima edizione; e vorrei dire (non so se altri l'abbiano notato) che l'anno 'Tiepolo' che stiamo celebrando potrà essere ricordato decorosamente anche per le puliture e i restauri di alcuni dei capolavori del grande veneziano, resi possibili appunto dall'iniziativa di "Restituzioni".
Parlo da veneziano: da frequentatore, sia pur estemporaneo, delle 'mie' chiese. Ebbene: per restare agli ultimi anni, almeno cinque capolavori di Giambattista sono tornati a risplendere, cioè a confortarmi nelle mie visite con la loro bellezza quasi sovrumana, all'interno dell'operazione promossa congiuntamente dalla Soprintendenza e dal Banco Ambrosiano Veneto.

 

Giovan Battista Tiepolo, San Francesco di Paola in estasi, 1738-1739 ca. Venezia, Santi Benedetto e Scolastica, San Beneto. Restaurato con il programma "Restituzioni" 1994.

 

Il primo (1994) è la pala di San Beneto, raffigurante San Francesco in estasi: un brano meno celebre di altri proprio per la castigatezza del suo cromatismo, ma splendido proprio per la finezza dei toni, dai marroni ai nocciola alle ocre. Ebbene: il quadro era quasi irriconoscibile per una smaccata 'sovrapposizione' di colore attuata nel 1914 e mantenuta successivamente in un altro intervento del 1928. S'è trattato soprattutto di 'eliminare': cioè di ripristinare quel che c'era sotto. Anche questa - anzi, soprattutto questa - è la finalità di un restauro corretto, non di parata, non cioè (ci si scusi il termine) antiquariale.


 

Giovan Battista Tiepolo, Comunione di santa Lucia, 1745-1746 ca. Venezia, Santi Apostoli. Restaurato con il programma "Restituzioni" 1993.


Gli altri quattro Tiepolo sono notissimi. Le due tele nella Scuola Grande di San Rocco sono da brivido. Quante volte fin da ragazzino - mio padre era confratello della Scuola - mi sono chiesto quale delle due era la più bella? Nemmeno oggi saprei rispondere. Quel bambino in basso, che sta morendo, in Agar e Ismaele, ha qualcosa di altamente patetico: un abbandono dello spirito quasi più che del corpo, la prova di un Tiepolo elegiaco e malinconico, d'una espressività ineguagliabile (altro che "raso freddo e carta da pacchi" come diceva il Longhi!).
In Abramo visitato dagli angeli m'ha sempre attirato quel volto assorto, chiuso in se stesso, dolcissimo e trasognato, che pare irrorarsi del rosso vivo della veste costituente il punto focale della composizione. Ma già: m'ero sempre irritato, durante le visite, per quella patina di polvere che mi impediva di 'entrare' nei due quadri; e nell'avvicinare lo sguardo constatavo sempre più che la pelle della pittura si alzava in scaglie sottilissime, quasi dissolvendosi. Grazie a Dio, ora il Tiepolo può gareggiare con le tinte ben consolidate dei Tintoretto che troneggiano tutt'intorno. E' un salvataggio: un fermare il processo di degradazione, non un illusorio 'ritorno'.
Gli altri due Tiepolo? Sono quelli dei Santi Apostoli e dei Gesuati: due pale di struttura e misura simili e anche di attigua datazione (1745-46 e 1748). Eppure diverse, diversissime l'una dall'altra: quella dei Santi Apostoli impostata sull'orchestrazione severa dei toni, dai marroni ai gialli, con un forte chiaroscuro su cui s'innestano le varianti dei blu e dei rossi mattone, fino ai bianchi della parte superiore; quella dei Gesuati più brillante nel cromatismo, più sinfonica direi, in cui le sottili gradazioni dei nocciola e delle ocre arrivano ai timbri alti dei blu e dei rossi della veste della Madonna, con uno stacco stupendo del fondo, di derivazione tizianesca. Giustamente sono stati fatti, a proposito delle due pale, confronti con il Piazzetta, così diverso e per qualche verso così simile; e soprattutto è stato sottolineata la nostalgia cinquecentesca - anche veronesiana, oltre che tizianesca - del Tiepolo in quegli anni. Per le due pale non s'è trattato, in verità, di un vero e proprio restauro, bensì d'una pulitura, soprattutto di un consolidamento del colore che appariva alquanto arido, impoverito, in certi punti alterato.
Mi sono dilungato su questi cinque Tiepolo non solo perché siamo nell'anno del centenario, ma perché essi dimostrano come la collaborazione tra Stato e privati possa essere preziosa quando non vi siano intrusioni esterne, forzature estetizzanti, interessi di mero prestigio. La banca ha sponsorizzato, cioè pagato; ma nel contempo ha esibito in pubblico, con mostre e accurati cataloghi, i risultati degli interventi: tanto più preziosi, va aggiunto, quanto più riguardano, al di là dei capolavori tipo Tiepolo, oggetti di cosiddetto artigianato nobile, come antichi utensili bronzei e lignei, ceramiche, oggetti di oreficeria, antiche legature di libri, bronzetti classici o rinascimentali, stoffe, vetri di epoca romana.

 

 

Giovan Battista Tiepolo, La Madonna con santa Caterina, santa Rosa da Lima e sant'Agnese di Montepulciano, 1748.


Qui, proprio come vecchio cronista d'arte, devo aggiungere una considerazione che direttamente mi riguarda. Spesso, troppo spesso, gli organi d'informazione si soffermano sui capolavori, o comunque sulle grandi opere d'arte, trascurando oggetti cosiddetti minori e, soprattutto, le testimonianze di ambito storico artistico. E' un vezzo che si spiega con gli aspetti commerciali dell'editoria popolare. Sono proprio iniziative come "Restituzioni" che, abbinando grandi e piccole testimonianze artistiche, ci permettono di portare all'attenzione pubblica anche quello che solitamente resta confinato nella cerchia degli specialisti... Ma già: sponsorizzare non significa - lo ripeto - soltanto pagare le spese di un'operazione culturale per trarne beneficio promozionale. E' qualcosa di ben diverso: che fortunatamente sta facendo capolino in un mondo, come quello dell'arte, non poi tanto lontano da Tangentopoli e dintorni.
Terzo punto: le 'sorprese'. Mille argomenti s'affacciano alla mia mente: ne scelgo l'ultimo, proprio perché m'ha colpito qualche giorno fa, e in modo strano, intrigante, prepotente. Ero a Roma ai Musei Capitolini, dove mi attirava la mostra delle "Nature morte al tempo di Caravaggio": argomento affascinante, pieno di misteri e trabocchetti. Non era esposta la Fiscella dell'Ambrosiana; ma la sua ombra aleggiava tutto attorno. E' stato quello il primo vero quadro di natura morta? e proprio l'unico dipinto dal Caravaggio? Certo è che gran parte dei dipinti esposti erano di anonimo. Si sa: si sono formati gruppi, come quello del "maestro di Acquavella" e quello del "maestro Hartford". Ciò che mi ha appassionato è stata, al di là del giuoco attribuzionistico che tanto affascina gli studiosi, la 'verginità' - la chiamo così - di non poche delle opere esposte: cioè la sensazione di una scoperta della pittura-pittura, slegata da allegorie, simbolismi, sacralità, mitologismi e altro.
Si tratta proprio della nascita di un genere; e questo genere, considerato minore, è adottato all'inizio da pittori minori, che mal conoscono le regole accademiche. Prospettive sbagliate, fonti scombinate di luce, rese materiche di tipo diverso, errori anche madornali: ma una qualità introspettiva della materia pittorica allora inedita. Dico materia: cioè gusto sensoriale della realtà pura, oggettualità esibita, vale a dire fichi scomposti, limoni di scorza grossa, melograni spaccati, sedani, asparagi, verdura vista e recepita nella sua corposità. Insomma, la pittura allo stato primitivo, lontana le mille miglia da ogni ideologismo... Ma certo: non poteva essere che Caravaggio a dar l'avvio a questa reinvenzione della pittura, dopo tante sofisticazioni manieristiche.
Forse esco dall'argomento. Ma vi torno per annotare il rammarico, anzitutto degli stessi organizzatori, per l'assenza di alcune opere importanti, anzi basilari. Il motivo di tale assenza? Il fatto che tali opere sono in collezioni private: quindi il sospetto (ma sì, per molti versi giustificato) di un'intrusione del mercato. Osservo: c'è ancora, nel campo dell'arte, uno steccato che divide la ricerca storico scientifica vera e propria dagli interessi antiquariali. E' bene che di questo steccato noi ci rendiamo conto: guai se i nostri musei venissero mercificati! Ma esso impedisce lo stesso sviluppo della cultura. Da una parte il collezionismo imbosca le opere d'arte - magari le seppellisce nei caveaux delle banche - per paura del fisco, dei ladri o, peggio, delle notifiche dello Stato; dall'altra agli studiosi è spesso impedito l'accesso - dico accesso: cioè visione diretta - di molte opere, anche di capolavori.
Da certi cataloghi di grandi autori apprendiamo che un quarto, un terzo, persino la metà dell'intero corpus è di difficile o impossibile visione. Le mostre finiscono per essere fatte per lo più con i soliti quadri noti; e la personalità degli artisti ne viene non di rado falsata, certo menomata. E aggiungo: oggi compilare una monografia, o addirittura un catalogo di un artista antico, ma anche moderno, è impresa sempre più ardua. Ci si mette anche lo Stato con i prezzi proibitivi di fotografie e diapositive per le opere in suo possesso. Si formano così, talvolta, connubi poco chiari tra studiosi e mercanti, tra direttori di musei e collezionisti privati, tra docenti universitari e antiquari. Specie da noi, in Italia, molte 'operazioni' avvengono in maniera ambigua, al di fuori degli autentici interessi scientifici.
La conclusione mi pare evidente. Da questo tunnel oscuro si può uscire soltanto con una collaborazione chiara tra pubblico e privato: cioè con un nuovo concetto di sponsorizzazione che superi certe giuste riserve ma, anche, certe ipocrisie. Personalmente ho spesso diffidato delle 'manovre' di taluni antiquari; ma ho guardato con sospetto anche certe 'operazioni' di pubblici funzionari. Inutile nasconderci dietro un dito: Tangentopoli - lo ripeto - sta anche qui, nel campo dell'arte. Importante è la chiarezza: che ancora non c'è.
Ecco perché gli interventi tipo "Restituzioni" mi sembra siano sulla strada buona. Il pubblico controlla il privato; ma anche il privato controlla, deve controllare, il pubblico. Le 'sorprese', cioè le scoperte che ci danno gli studi storico critici, diventano autentiche gioie per tutti. E il concetto di 'valore', così ben precisato nell'episodio raccontato da Ernest Gombrich, a prevalere. 'Valore' come superamento di quello steccato che ancor oggi, purtroppo, permane: e che molti studiosi puri finiscono per alzare ancor più, nel difendere la cittadella minacciata della cultura.


 

 

 

ARTE Documento N°9                                                               © Edizioni della Laguna