Giuseppe Maria Pilo
Arte Documento
N°25
Editoriale
1. Carlo Crivelli,
Trittico di San Domenico, 1482, particolare; san Pietro martire e
San Venanzio. Milano, Pinacoteca di Brera
Un segno adamantino, incisivo,
tagliente, che delinea il forte profilo e definisce la forma
conferendole un fascino irresistibile, lineamenti perfetti di una
bellezza seduttiva rara, un incarnato purissimo a sottendere lo sguardo
franco, diritto, il tutto incorniciato dall'oro dei riccioli biondi dei
capelli contenuti dalla calottina rossa del berretto, colori avvampanti
sostenuti dai crinali delle pieghe delle vesti traslucide in aggetto e
aggallanti sull'oro dei fondi estofados, delle pastiglie dei
gioielli e dell'aureola, l'impeccabile scorcio in profondità della mano
che regge il modello di Camerino – una meraviglia, a sua volta, con le
sue ombre portate e la tridimensionalità quasi ossessiva che ne risulta,
di volumetria prospettica miniaturizzata in bilico fra realtà e inganno
dell'occhio — degno, è già stato bene osservato, della pala di San
Cassiano di Antonello: tutto ciò, e tanto altro ancora, che costituisce
lo splendore della figura di san Venanzio patrono della città nel
comparto destro del trittico di San Domenico dipinto da Carlo Crivelli
nel 1482 per la chiesa di San Domenico della città marchigiana e fa di
quell'opera — prima del pittore Veneziano per la capitale della signoria
dei da Varano – un assoluto capolavoro, è stato recuperato, può ben
dirsi nella sua interezza, dal restauro testé operato da Barbara
Ferriani grazie a
Restituzioni 2008/2011, il Programma biennale di restauri di opere
d'arte appartenenti al patrimonio pubblico promosso da Intesa Sanpaolo e
curato al proprio interno dallo specifico settore Beni culturali, con il
patrocino del Ministero per i Beni e le Attività Culturali giunto quest'anno
alla sua quattordicesima edizione e in tale contesto presentato ed
esposto nelle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari di Vicenza, sede
museale permanente dell'Istituto, dal marzo al giugno 2008/2011. Per questo,
oltre che per la sua manifesta eccellenza qualitativa, il trittico di
San Domenico di Crivelli si propone come paradigmatico della filosofia
che presiede a Restituzioni; e l'immagine del san Venanzio
"restituito" al suo straordinario fascino come l'insegna emblematica, il
logo stesso dell'operazione restaurativa, delle sue premesse, delle
metodologie adottate, ora oggetto di approfondimento critico e di
discussione nel monumentale catalogo curato da Carlo Bertelli ed edito
da Marsilio per Intesa Sanpaolo in concomitanza con l'esposizione delle
opere e dei risultati conseguiti a vantaggio della loro conservazione e
"restituzione" al pubblico godimento.
All'attuale restauro, il trittico di San Domenico, a Brera dal 1811 a
seguito delle soppressioni napoleoniche, era giunto con i postumi di due
interventi praticati, l'uno, nel 1824 a opera di Francesco Fidanza e
Antonio de Antoni, il secondo poco dopo il 1950 da parte di Mauro
Pelliccioli. Il primo restauro era stato inteso a ripristinare il
presunto stato originario dell'opera, con l'immissione di elementi
vitrei imitativi di pietre dure, la ridoratura — sovrapposta
all'originale —delle parti a ciò interessate – pastorale, coltello,
chiavi, lance – condotta con grande perizia tecnica dal doratore
Francesco Lattuada, l'inserimento, soprattutto, dei tre pannelli in una
complessa cornice di gusto a mezzo fra tardogotico e rinascimentale
intagliata da Giovanni Cartella e dorata dal Lattuada medesimo:
operatori che così integravano, in misura determinante, l'opera dei due
restauratori di fiducia dell'Accademia di Brera: il tutto finalizzato
alla fruizione museale dell'opera nell'ottica dell'epoca, certamente
intrisa di sensibilità protoromantica, eliminando, a esempio con
l'estensione della nuova doratura sull'antica, ogni elemento di
discontinuità visiva.
2. Carlo Crivelli,
Trittico di San Domenico, 1482, particolare: la mano di San Venanzio
che regge il modello della Città di Camerino, prima e dopo il restauro.
Milano, Pinacoteca di Brera
Va detto che da una tale concezione sostanzialmente non si discostò il
restauro novecentesco di Pelliccioli. Questi, oltre a praticare profondi
e fitti tagli verticali alle tavole per restituire a esse con
l'applicazione di traverse orizzontali un artificioso assetto livellato
in piano, dopo una probabile leggera pulitura e locali abbassamenti di
tono, ricoprì l'intera superficie pittorica con una vernice brunastra,
una variante della cosiddetta — e famigerata — vernis-rénaissance
di colore ambrato usata in precedenza al fine di conferire al dipinto
una presunta continuità visiva e, insieme, un'intonazione bassa e
dorata, che, per effetto di suggestione del secolare degrado e
progressivo ingiallimento delle vernici originali, erroneamente si
voleva proprio della pittura rinascimentale e di quella veneziana in
specie. Così, sotto la calda vernice di Pelliccioli, non solo si erano
rese illeggibili, inidentificabili, le risultanze dei precedenti
interventi dalle aree, fortunatamente maggioritarie, originali, ma
altresì appiattite le profondità tridimensionali di Crivelli,
mortificato il fulgore dell'oro, spento lo splendore dell'avvampante
policromia.
3. La cornice del
trittico di San Domenico realizzata nel 1824
Il restauro attuale, di cui dà conto dettagliato in catalogo Emanuela
Daffra, ha provveduto a risarcire il supporto ligneo della elasticità
compromessa dal forzoso livellamento in piano determinato dal restauro
degli anni cinquanta, ha rimosso tutte le superfetazioni e in
particolare l'uniforme vernice grigiastra allora applicata, ha
ristabilito la coesione delle stesure pittoriche ed effettuato con
colori a vernice sulla pellicola originale fortunatamente in buone
condizioni i minimi interventi di ritocco necessari: il tutto preparato
e supportato da una fitta rete scientifica di indagini strumentali:
riflettografia, fluorescenza a raggi x, stratigrafie.
E a questi criteri, è all'osservanza di una tale impostazione e sequenza
metodologica che costituzionalmente e costantemente si attiene ogni
intervento effettuato nell'ambito di Restituzioni, il Programma
biennale con il quale Intesa Sanpaolo nelle successive configurazioni
societarie che il Gruppo si è dato, ha portato a salvamento e più, può
ben dirsi, a "nuova vita", oltre seicento manufatti che ne
abbisognavano, sempre meritevoli di attenzione conoscitiva e
conservativa, spesso di grande rilevanza storica e artistica, non di
rado autentici capolavori.
Per questo, molto giustamente a nostro avviso Giorgio Bonsanti accredita
al livello del miglior restauro italiano quello realizzato da Intesa
Sanpaolo attraverso il Programma Restituzioni, i risultati del quale
l'Istituto medesimo mette a conoscenza sia degli specialisti sia del
cosiddetto "grande pubblico" nelle mostre che esso apre a Palazzo Leoni
Montanari.
A introdurre qualche riflessione sul restauro, oggi, vale certamente la
definizione che di recente ne ha offerto lo stesso Bonsanti: «Il
restauro è un'attività finalizzata alla trasmissione al futuro di un
bene culturale per mantenerne l'esistenza e assicurarne la fruizione,
nel rispetto della sua identità particolare (somma di originalità più
integrità) e all'interno di un progetto pluridisciplinare di
conservazione. Esso consiste in un'operazione materiale richiedente una
professionalità specifica ottenuta grazie a un percorso formativo
dedicato, tale da conferire un'adeguata capacità sia di progettazione
che di realizzazione manuale dell'intervento» (2006).
Siamo palesemente agli antipodi della concezione del restauro e
dell'immagine del restauratore quali erano venute stratificandosi nei
secoli e continuate ancora nei decenni a noi prossimi.
Una prima ipotesi di "percorso formativo" si ebbe, nei primi decenni
dell'Ottocento, a opera di Pietro Edwards il famoso – e benemerito –
"Ispettore delle pubbliche pitture" a ciò nominato nel 1777 dal governo
della Repubblica di Venezia. Edwards, a cui già si doveva l'istituzione
di un laboratorio di restauro concepito in termini 'moderni' nel
refettorio del convento dei Santi Giovanni e Paolo, proponeva la
creazione di una scuola specificamente finalizzata all'insegnamento del
restauro da inserire nell'istituzione per sua natura rivolta
all'insegnamento dell'arte, l'Accademia, fondata nel 1750 da Giovan
Battista Piazzetta e rinnovata in età napoleonica sotto la presidenza di
Leopoldo Cicognara, amico di Canova e assertore delle idee di
Winckelmann, con l'adozione di criteri didattici innovativi (è
pertinente il parallelo esemplificativo con il rapporto esistente nella
realtà odierna fra un corso di laurea specificamente mirato e una
facoltà universitaria). L'appoggio all'Accademia di pittura e scultura
aveva un chiaro e molteplice significato: si trattava di formare la
figura del restauratore, dotando delle competenze specifiche un
operatore altrimenti destinato a essere un pittore o uno scultore
operante per sé, sul libero piano creativo dell'inventiva, non già al
servizio della conservazione e recupero di opere d'arte del passato o
comunque altrui; inoltre, si intendeva sottrarre la trasmissione
dell'esercizio del restauro alla pratica individuale e 'segreta'
dell'operare di bottega e per ciò mettere in essere una struttura
pubblica, destinata alla formazione di un pubblico servizio.
Si trattava di fatto di creare una nuova professionalità – e in ciò
stava la modernità del progetto dell'Edwards, rapportata, s'intende, al
contesto del suo tempo storico – affrancando la figura del restauratore
dal cliché invalso del "pittore fallito" e conferendo a essa
autonoma dignità professionale e operativa.
Di Canova è noto il rifiuto opposto a lord Elgin affinché intervenisse
con un restauro integrativo sui marmi del Partenone «perché sarebbe
stato sacrilego da parte sua o di chicchessia ardir di toccarli con uno
scalpello», così ponendosi su posizioni di rispetto all'originale
analoghe a quelle professate da Carlo Marana quando, per il restauro
della Madonna del cucito di Guido Reni al Quirinale aveva scelto
la tecnica del pastello per la reversibilità che essa garantiva.
Winckelmann, dal canto suo, aveva affermato con decisione la necessità
che a restauro avvenuto si potesse distinguere «in una stessa figura il
nuovo dall'antico». Erano passi importanti per una concezione filologica
del restauro: in quanto corretta in sé e perché si opponeva alla pratica
corrente per l'innanzi, e ancora all'epoca, di un restauro integrativo
inteso a fini estetici e commerciali; quando si voleva, in altre parole,
compiacere il proprietario di una statua o di un dipinto antico comunque
mutilo o gravemente leso integrandolo secondo la fantasia del
restauratore, così da renderlo piacevole alla vista e dotarlo di un
maggior valore economico. Un aspetto, quest'ultimo, che giustificava gli
ingenti investimenti richiesti da commissioni restaurative affidate a
maestri di grido quali Bernini, Algardi, Duquesnoy; per non dire di
Benvenuto Cellini che, chiamato a integrare un torso antico, non pago di
integrarlo della testa, delle braccia e dei piedi, vi aggiunse
«un'aquila, acciò che È sia battezzato per un Ganimede»: con un intento
dettato dall'ammirazione per l'arte antica e l'antico autore e perciò
dalla sua conseguente disponibilità a «servirlo».
Un tale animo di "servizio" nei confronti dell'oggetto antico da
restaurare era il presupposto del principio, allora emergente e più
volte fatto proprio dai restauratori anche in epoche non remote, per
esempio nel corso dell'Ottocento, di dover il restauratore, per
correttamente adempiere al proprio compito, «annullare la propria
personalità».
Non fu sempre così: basti pensare a Giuseppe Molteni, valoroso e stimato
pittore prima che restauratore, e al suo esemplare restauro dello
Sposalizio di Maria di Raffaello a Brera con le acute motivazioni
che lo sottendono espresse nella consapevole relazione di restauro, e
Molteni era, non per caso, il restauratore di riferimento di Giovanni
Morelli, come Guglielmo Botti lo era per Giovan Battista Cavalcasene.
Non è un caso che a questo punto emergano i nomi dei due 'padri' della
moderna storiografia dell'arte; perché l'esigenza – la necessità – di un
restauro filologico che permetta di distinguere nettamente le parti
originali di un'opera d'arte dagli esiti di un intervento restaurativo
va di pari passo con il crescere della nuova disciplina e con la
necessità dello storico dell'arte di poter giudicare ciò che è autentico
espungendo ciò che sia frutto di integrazione – che è poi l'osservanza
di quella linea di demarcazione a suo tempo postulata da Winckelmann.
L'espressione di un giudizio di merito da parte dello storico dell'arte
abbisogna, in altre parole, ed è un presupposto ineludibile, di relative
certezze oggettive; anche da ciò l'esigenza sempre più avvertita di
passare, sul terreno del restauro, dal dominio della soggettività a
quello della oggettività. Il restauro attuale non è in effetti pensabile
senza il supporto – preliminare, in fase di progettazione, e operativo
in corsi d'opera – di un forte apparato diagnostico. Esso si fonda in
larga prevalenza su indagini di natura fisica: radiografie,
riflettografie all'infrarosso, esami alla luce in ultravioletti,
tecniche laser, termografie, ultrasuoni e altro ancora; restando
confidato all'ambito della chimica l'impiego di materiali sempre più
innocui e selettivi per le tecniche di pulitura. È questo, giova
ripeterlo, un fattore ineliminabile dell'intera operazione: gli altri
due essendo costituiti dalla presenza operativa del restauratore e da
quella, non meno attiva e determinante, dello storico dell'arte. A
quest'ultimo tocca in ogni caso, a nostro avviso, una funzione
'moderatricÈ e di coordinamento; risulta chiaro a tutti che non è
ipotizzabile una figura che assommi in sé una articolata e variegata
molteplicità di competenze quale la realtà odierna del restauro esige.
Ogni progetto e operazione di restauro devono per ciò risultare dalla
stretta interazione di operatori, ciascuno dei quali specificamente
responsabile per la parte di sua pertinenza professionale, e ricondotta
a unità dalla funzione equilibratrice dell'esperienza. «Nel restauro»,
bene lo ricorda Carla Bertelli, «convergono infatti molte discipline,
spesso convocate nelle loro capacità più raffinate. La diagnosi delle
condizioni attuali di un'opera, e la previsione circa la prevedibile
durata di correzioni e accorgimenti introdotti, si accompagnano
all'anamnesi del processo attraverso cui l'opera è pervenuta, in un
intreccio nel quale ricerca archivistica e testimonianze orali si legano
strettamente alle constatazioni empiriche e alle deduzioni delle analisi
tecniche».
È un principio oggi largamente e capillarmente condiviso con le istanze
più avvertite e aggiornate della comunità internazionale:
«L'approfondissement des connaissances techniques par des analyses
comparatives des toiles et des peintures», scrive, a esempio, Serge
Tiers, conservateur-restaurateur del museo Malraux di Le Havre, «autant
que l'ensemble des données documentaires seront une source d'étude
précieuse pour les générations à venir» (2005). È così che il restauro
alla sua natura di strumento di conservazione aggiunge il valore di
fattore di accrescimento conoscitivo.
Sono in effetti i coefficienti che fanno l'eccellenza del restauro qual
è voluto e praticato da un ventennio a questa parte da Intesa Sanpaolo
con il Programma Restituzioni. Giova ricordare che la benemerita
iniziativa culturale, così felicemente collaudata nelle premesse e negli
esiti, prese le mosse nel 1989 da una scelta intelligente e mirata di
Feliciano Benvenuti allora presidente della Banca Cattolica del veneto,
da questa successivamente passando al Banco Ambrosiano veneto e quindi a
Banca Intesa nei suoi conseguenti assetti societari fino all'attuale di
Intesa Sanpaolo. Movente ne è stata la «convinzione», lo mette in
evidenza con forza il presidente del Consiglio di Sorveglianza di Intesa
Sanpaolo professore Giovanni Bazoli «che la gravissima mancanza di
risorse a disposizione in importanti settori della vita sociale e civile
(e in particolare quelli riguardanti il patrimonio artistico e culturale
del nostro Paese), gestiti per tradizione dalla pubblica
amministrazione, chiamasse in causa i privati, nel senso di porre a loro
carico il dovere di intervenire in modo nuovo, più incisivo che in
precedenza. Infatti, se i privati avessero mantenuto, nei confronti
della sfera рubbliса e delle sue articolazioni, una posizione di
coinvolgimento soltanto indiretto, attraverso la semplice elargizione di
denaro, il loro contributo non sarebbe risultato veramente efficace e
duraturo. Si poneva cioè l'esigenza di costruire una nuova e codificata
forma di
partnership».
Si è così creata una organica e non occasionale forma di sinergia fra la
banca e le istituzioni pubbliche deputate alla tutela — le
soprintendenze competenti per territorio, le direzioni dei grandi musei
interessati — in un processo di cooperazione che investe l'intero
percorso operativo, dalla scelta delle opere da avviare di volta in
volta al restauro, alle analisi laboratoriali, agli interventi
restaurativi. Volto inizialmente alle aree del Triveneto, il Programma
Restituzioni ha poi progressivamente esteso il suo raggio di
azione ad altri territori e ricomprende nella presente edizione un
cospicuo nucleo di preziosi manufatti napoletani di oreficeria, così
toccando in molti punti la realtà del patrimonio artistico dell'intera
Nazione; per non dire dei Musei Vaticani, già da più anni presenti in
queste meritorie rassegne. La scelta delle opere, innanzitutto, da
sottoporre a un approfondimento di studio per essere poi avviate al
restauro è l'incombenza primaria che spetta al Comitato Scientifico di
Restituzioni che, coordinato da Fatima Terzo con Carlo Bertelli, vede la
presenza dei responsabili scientifici delle realtà territoriali e
museali, ormai numerose, interessate all'iniziativa: Giuliano de Marinis
e Marisa Rigonfi, Renata Codello ed Emanuela Zucchetta, Giovanna Nepi
Scirè, Carla Enrica Spantigati, Filippo Trevisani, Enrico Guglielmo e
Laura Giusti, Antonio Paolucci; portatori, tutti, non soltanto del
prestigio recato dai loro nomi, bensì testimonianze di partecipazione
attiva a un'operazione complessa di alto spessore culturale e civile
che, proprio sulla feconda interazione fra pubblico e privato, riconosce
un motivo primario del suo collaudato plurilustre successo. Garante
della continuità di tutto ciò è le presenza intelligente e costante di
Fatima Terzo, responsabile dei Beni culturali di Intesa Sanpaolo e
direttrice fin dall'origine del progetto e dell'esposizione che volta a
volta consegue alla sua felice realizzazione. E, la sua, un'esperienza
che non ha uguali, per avere gestito e curato tutte le edizioni di
Restituzioni dall'ideazione del Programma a oggi; con essa, la sua
sempre avvertita sensibilità, la sua perspicacia progettuale, la sua
consapevole bravura nel condurre a buon fine rapporti complessi con una
pluralità di istanze e di realtà diversificate e impegnative come quelle
coinvolte nell'operazione, sono i coefficienti più certi del successo
che sempre la corona.
A questi irrinunciabili fattori costruttivi si accompagna nell'operare
il costante perseguimento di scelte innovative tali da offrire le
massime garanzie di affidabilità, prime fra tutte l'adozione delle
tecniche più avanzate e l'osservanza del principio fermissimo della non
invasività.
Sono aspetti che direttamente e oggettivamente si confrontano con i
numeri della presente quattordicesima edizione di Restituzioni
particolarmente nutrita: sono un'ottantina le opere, o i gruppi di
oggetti, risarciti grazie a essa. Questo risultato è stato realizzato
attraverso l'opera di ben ventitré laboratori di restauro di molte parti
d'Italia. Un così alto numero non è tanto e solo correlato —
proporzionato — alla ingente quantità di opere e di reperti su cui
intervenire — fattore pur sempre positivo in quanto offerta di lavoro
qualificato a un maggior numero di operatori qualificati - bensì
soprattutto incentivo, attraverso la competizione, a un affinamento e
approfondimento della ricerca scientifica e tecnica per l'ottimizzazione
dei risultati: che è un altro merito di Restituzioni.
Degli interventi di restauro a favore di oggetti archeologici e di opere
d'arte antica, di preziosi manufatti di oreficeria sacra, di opere
d'arte medioevale e moderna che costituiscono la messe di
Restituzioni 2008/2011, riferiscono specificamente nelle pagine che
seguono, introdotti da Carlo Bertelli, rispettivamente Marisa Rigonfi,
Pierluigi Leone de Castris, Augusto Gentili; e ciò dispensa dal farne
qui partitamente menzione; ma si dovranno almeno far presenti alcuni
interventi che fanno testo: vuoi per la rilevanza delle opere
interessate, vuoi per l'impegno conservativo che il risarcimento ha
comportato.
Nella ricca sezione archeologica, che vede opere e reperti provenienti
dai Musei Archeologici Nazionali di Venezia, Altino, Portogruaro, Este,
dagli scavi di Padova e di Verona della Soprintendenza Archeologica per
il Veneto, dalla Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro, dai sotterranei
della Cattedrale di Vicenza, e dai Musei Vaticani, spiccano due
Statuette femminili panneggiate, originali greci fra la fine del
V e la prima metà del IV secolo a.C. appartenenti alle collezioni
rinascimentali di Giovanni Grimani e Federico Contarini del Museo
Archeologico Nazionale di Venezia, la Statua di Icaro e la
Lastra con maschere di Dioniso e Satiro del I secolo d.C. del Museo
Archeologico Nazionale di Altino, il bronzetto con Diana cacciatrice
tra fine I e inizi II secolo d.C. e finissimi vetri del Museo Nazionale
Concordiese di Portogruaro, una serie di squisiti avori fra II e IV
secolo d.C. del Museo Profano e un eccezionale fondo di vaso in vetro
dorato con Gruppo familiare della prima metà del IV secolo d.C.
del Deposito Terre Sigillate, tutti dei Musei Vaticani; ancora, una
Situla con thiasos di manifattura romana o alessandrina fra IV e V
secolo d.C. del Tesoro di San Marco della veneziana Basilica di San
Marco.
È splendida la sezione dell'oreficeria sacra, il cui grande fascino si
deve soprattutto a opera di rara bellezza e prestigio del Tesoro Vecchio
della Cattedrale e del Palazzo Arcivescovile di Napoli, quali la
Stauroteca detta di San Leonzio del XIII - XIV secolo, il
Busto reliquiario di San Gennaro, capolavoro dell'oreficeria gotica
europea di inizio Trecento, il fastoso Tabernacolo o Tempietto
reliquiario del sangue di san Gennaro; ma ancora a preziose
suppellettili liturgiche del XV secolo dei Musei Vaticani, Museo
Cristiano, alla Croce processionale
di fine XIII - inizi XIV secolo forse dalla Francia centromeridionale
del Museo Poldi Pezzoli di Milano, alla straordinaria quattrocentesca
Croce di san Teodoro proveniente dalla Scuola veneziana del Santo
eponimo ora alle Gallerie dell'Accademia.
Aperta dal capolavoro che è il trittico camerte di San Domenico di Carlo
Crivelli, la rassegna delle opere di pittura comprende altri fascinosi
tesori, quali la pala con l'Elemosina di sant'Antonino di Lorenzo
Lotto, così genialmente e 'piamentÈ singolare e densa di significati,
fra il 1540 e il 1542, in Santi Giovanni e Paolo di Venezia, la tavola
con La Madonna e il Bambino fra i santi Bonaventura e Sebastiano,
ammaliante testimonianza di Girolamo Romanino circa il 1517-1518 dal
Duomo di Santa Maria Annunciata di Salò, la Sacra Famiglia del
Garofalo da Brera con quel prezioso, incantevole brano di paesaggio
che s'inerpica sulla sinistra; e ancora, per restare ai protagonisti e
rappresentato alla grande, Alessandro Bonvicino, il Moretto da Brescia
con la poderosa pala circa il 1535-1540 di San Giovanni Evangelista
in Brescia; e Giovan Pietro Rizzoli, il Giampietrino, con il polittico
coevo ora proprietà del Museo Bagatti Valsecchi di Milano; ma anche
artisti lombardi meno frequentati e pur meritevoli di attenta
considerazione, come il bresciano Camillo Rama, documentatamente autore
nel 1624 di una grande tela con la Cena in casa di Simone fariseo
già nel refettorio del convento di Santa Maria del Carmine di Brescia
ora nel Duomo Vecchio della stessa città, che è di fatto una scoperta:
fra le molte di
Restituzioni 2008/2011.
In fatto di "Storia dell'arte", riprendendosi a una linea testé
intrapresa, anche questo volume di ARTE Documento riserva un apice di
attenzione a eventi che per rilevanza tematica e peculiarità
realizzativa costituiscano un punto di riferimento specifico in rapporto
agli interessi di studio al momento sviluppati dalla rivista. Si tratta
delle grandi mostre dedicate alle Scuderie del Quirinale in Roma ad
Antonello da Messina e a Giovanni Bellini, per riferire sulle quali si è
chiesto l'intervento di studiosi protagonisti dell'uno o dell'altro
evento o comunque altrimenti in essi coinvolti, così da illuminare e
approfondire aspetti peculiari dell'uno e dell'altro artista e, con
essi, della nascita della pittura moderna: Pierluigi Leone de Castris e
Giovanni C. E. Villa; cui s'aggiunge, per conferenti puntualizzazioni,
Ileana Chiappini di Sorio.
A tali tematiche, strettamente fra loro interconnesse, a diverso titolo
si riconducono i primi contributi di Storia dell'arte "da Bellini al
Contemporaneo", che qui seguono.
L'immagine del beato Lorenzo Giustiniani di Gentile Bellini datata 1465
già nella chiesa veneziana della Madonna dell'Orto, ora alle Gallerie
dell'Accademia di Venezia, verosimilmente derivante dall'archetipo di
Jacopo, destinato a sovrastare la sepoltura del santo nella cattedrale
di San Pietro di Castello, fa presente la figura del protopatriarca nel
saggio che Laura De Rossi dedica a quanto resta di San Giorgio in Alga,
il cenobio della Laguna veneta che fu il 'nido' della dottrina e
dell'apostolato del futuro protopatriarca.
Di Giovanni Bellini, una redazione inedita del ritratto di Jörg Fugger
datata 1474 è fatta conoscere da Giuseppe Maria Pilo, che la mette a
oggettivo confronto con l'altra finora nota già Contini Bonacossi ora al
Norton Simon Museum di Pasadena, instaurando altresì da entrambe ogni
opportuno riferimento agli esemplari no-ti della ritrattistica giovanile
di Bellini e di Antonello anche in rapporto con gli sviluppi fiamminghi
e francesi.
Prossima a questa temperie è la bella tavola di Pasqualino veneto
dell'Accademia dei Concordi di Rovigo, già attribuita a Giovan Battista
Cima da Conegliano ma ora assicurata a Pasqualino dalla firma
dell'artista riportata or ora alla luce dall'accurato restauro di cui il
dipinto si è avvantaggiato e di cui dà qui notizia Alessia vedova,
restituendo il dipinto alla fase giovanile del pittore influita da un
probabile apprendistato presso Giovanni Bellini prima dell'avvicinamento
a Cima.
Un apporto straordinariamente documentato alla conoscenza di Paolo
Veronese e di una sua opera importante e 'singolarÈ qual'è la
Disputa di Gesù fra i dottori del Tempio del Museo del Prado è
recato da Orietta Pinessi che, sulla scorta di inoppugnabili referenze
concernenti la committenza del dipinto tutte riconducibili alla famiglia
Contarini, risolve un "giallo" storiografico fra i più intriganti che
abbia mai coinvolto la critica veronesiana.
Altro piccolo 'enigma', d'indole iconografica, questo, coinvolge un
bozzetto di Jacopo Palma il Giovane, che Alessandra Artale presenta con
eleganza, non scevra da pertinenti 'distinguo'; e, in ogni caso,
apprezzabile incremento al catalogo della prima maturità dell'artista.
Ancora a Palma – sul terreno grafico, in tal caso – reca un interessante
apporto una bella carrellata di disegni inediti che uno specialista
della materia qual è ormai Andrea Piai presenta per i pittori delle
"Sette Maniere"; e sono, in effetti, tutti: oltre a Palma, vi troviamo
Leonardo Corona, Andrea Vicentino, Sante Peranda, Antonio Aliense,
Pietro Malombra, Girolamo Piloni: tutti con fogli bene illuminanti le
rispettive peculiarità stilistiche.
Il Seicento si apre con la discussione da parte di chi scrive di un
coinvolgente Annuncio ai pastori, a evidenza desumente dai
celebri esemplari del tema a opera di Jacopo Bassano e verosimilmente
riferibile agli anni italiani, sull'inizio del secolo, di Pedro Orrente,
"il Bassano spagnolo", in effetti documentatamente seguace a Venezia di
Leandro Dal Ponte e costantemente tributario di Jacopo.
Seguono due importanti 'novità' per Pietro Paolo Rubens, una drammatica
Lamentazione sul corpo di Cristo dipinta ad Anversa circa il
1615-1618 che qui rende nota Didier Bodart che la pone a circostanziata
comparazione con le altre interpretazioni del tema al J. Paul Getty
Museum di Los Angeles, al Museo Liechtenstein di Vienna, del Prado, del
Kunsthistorisches Museum di Vienna; e una grandiosa redazione del "Grande
paesaggio semplice" qui presentata da Giuseppe Maria Pilo, dipinta
fra il 1635 e il 1638, come le due altre redazioni, fin qui note,
dell'Ermitage di San Pietroburgo e del Museo del Louvre ora al Musée des
Beaux-Arts di Valenciennes, preparata da studi grafici ora nella
collezione Lugt della Fondazione Custodia dell'Institut Néerlandais di
Parigi, deferenti a precedenti di Tiziano e di Jacopo Bassano.
Il debito contratto con Andrea Palladio da grandi e famosi architetti
francesi del Grand Siècle quali François Mansart e Louis Le Vau a
Parigi è documentatamente illustrato con dovizia di comparazioni
oggettive da Renzo Salvadori.
Appare nutrita, e non possiamo non compiacercene, la presenza, per il
Settecento, di testimonianze appartenenti alle "Venezie" d'oltre
Adriatico o correlate con artisti nostrali ivi operanti, Istria,
Dalmazia e Quarnaro, grazie alla cordiale, costante collaborazione dei
colleghi croati. Aprono la sequenza aggiunte al catalogo del raro
scultore Veneziano Paolo Gallalo, seguace di Giusto Le Court e
collaboratore di Giovanni Carati e Leonardo Pacassi, a opera di Damir
Tulić che ne fa presente l'opera svolta a Zagabria, nonché in Carniola e
in specie a Lubiana e in varie località dell'Istria come Albona e
Dignano, infine a Santa Maria della Pieve a Castelfranco Veneto. A Nina
Kudiš Burić si deve il riconoscimento ad Antonio Bellucci di una bella
pala che si conserva nella Pinacoteca dei Musei di Ragusa (Dubrovnik),
finora erroneamente riferita a Carlo Marana, verosimilmente appartenente
agli anni fra i soggiorni del pittore a Düsseldorf e a Londra e, anche
per questo, oltre che per la sua bella qualità, buona testimonianza
della copiosa attività svolta dal Bellucci, primo fra i pittori veneti
viaggianti, nelle corti europee del primo Settecento. Ancora Nina Kudiš
Burić fa conoscere un pregevole dipinto di Pietro Antonio Novelli già
nella chiesetta di Sant'Andrea apostolo a Zara ora esposto presso la
Mostra Permanente d'Arte Sacra della città dalmata e due altre notevoli
pale del pittore nella cattedrale di Cattaro e nella parrocchiale di
Dobrota; la presentazione di un finissimo disegno di Francesco Zugno del
Museo d'Arte Moderna di Fiume offre inoltre il destro alla studiosa per
operare pertinenti osservazioni circa i rapporti fra la splendida pala
di Santa Cecilia datata 1742 già a San Cassiano a Venezia ora nel
Museo Puškin di Mosca, lo schietto e vigoroso modelletto preparatorio di
collezione privata veneziana e la raffinata, elegante versione coeva,
più disegnata e 'finita', della Pinacoteca Egidio Martini a Ca'
Rezzonico, verosimilmente destinata alla devozione privata di un
"patrono" forse il committente stesso della pala.
Molto più di un gradevole 'intermezzo', è il caso di dirlo, "all'usanza
teatrale", è costituito da un prezioso 'dittico goldoniano' che qui
segue. Giulio Ghirardi sfoglia il suo "Taccuino goldоniano"
ripercorrendo una pensata rassegna dei ritratti di Carlo Goldoni, dai
dipinti di Alessandro Longhi, alle incisioni di Marco Pitteri da Giovan
Battista Piazzetta, a Lorenzo Tiepolo, a Charles Nicolas Cochin; facendo
presenti alcune sapide curiosità bibliografiche, come la scelta di
commedie pubblicate nel 1926 da Hoepli per cura di Adolfo Padovan e
introdotta da Giuseppe Giacosa. Annalia Delneri fa conoscere un
documento del più vivo interesse per le messinscena goldoniane qual è il
ritratto di gruppo della compagnia del teatro di Bagnoli nel salone
della villa Widmann, contestualmente recando nuova luce sul notevole e
assai poco noto pittore cui si deve l'affascinante – e importante –
dipinto, quell'Andrea Pastò lodevolmente menzionato dal Goldoni stesso
nel Burchiello come seguace e imitatore di Pietro Longhi:
'piccolo', valente maestro cui soltanto Roberto Longhi e più di recente
Mercedes Precerutti Garberi e Adriano Mariuz avevano dedicato
attenzione.
La personalità e l'opera del pittore francese Victor-Jean Nicolle
(Parigi 1754-1826) e in particolare il suo lungo soggiorno in Italia fra
il XVIII e il XIX secolo, in specie a Roma e a Venezia, sono studiati da
Giovanna Rossi che ne situa "la geografia di un destino" sul finire del
Settecento nella temperie illuministica subentrante ai patronages
aristocratici, con lucido interesse per il contesto che vede
protagonisti Piranesi e l'architetto francese Petit-Radel e d'altra
parte per la finezza delle sue soluzioni interpretative.
Al catalogo dello scultore Valentino Pancera Besarel (1829-1902) Maria
Elisabetta Piccolo integra alcune opere statuarie di soggetto sacro, due
delle quali affatto inedite, situate in un'area ricompresa fra il basso
veneto orientale e il basso Friuli, fra Portogruaro e la località di
Barco, in provincia di Pordenone, traendone partito per rivisitare
l'opera di questo "scultore di bambini" com'è chiamato dalla
letteratura, precisandone modalità tecniche operative e illustrandone la
splendente bellezza degli esiti realizzativi.
Valicata la soglia del XX secolo, le vicende edilizie e urbanistiche
occorse nei primi decenni del Novecento, e ben oltre, a un cospicuo
lotto urbano del centro storico di Udine qual è il Giardino Morpurgo fra
il palazzo eponimo e "Calle Bellona" non lontano dalla prestigiosa
quattro cinquecentesca "Platea Contarena"; l'attuale piazza
Libertà, e a ridosso del paramento di manufatti gotici che lo innerva, è
fatto oggetto di serrata analisi strutturale e storica da parte di Licia
Asquini. A essa si integra il corredo di note, fortemente e severamente
motivato sul piano antropologico, estetico, civile, recato da Massimo
Asquini.
L'amicizia, la condivisione di fervide, non di rado inquiete, esperienze
giovanili e non solo, poi un amaro progressivo vicendevole
allontanamento di due forti personalità di artisti e operatori culturali
che in modi tanto diversi hanno grandemente onorato la loro città,
Venezia, nello scorso secolo e in questi inizi del XXI, Emilio vedova ed
Egidio Martini, sono rivissute da quest'ultimo, che l'affida ad ARTE
Documento, in una testimonianza sofferta dell'intera vicenda nelle sue
alterne fasi: è un documento umano, ben prima che professionale, sul
quale è giusto riflettere.
Conclude questa corposa parte del volume un saggio di Silvia Pinna su
Benito Tarcisio Postogna, l'interessante pittore triestino oggi
sessantanovenne allievo di Carlo Pacifico, presto trapiantato in Sud
America e di fatto anche al presente bilicato fra l'Argentina e
l'Italia, la cui fin dall'inizio «rabbiosa scelta figurativa» come fu
definita, sembra rapportabile, piuttosto che al realismo americano di
denuncia sociale di Ben Shan come pure è stato proposto, alle esperienze
maturate, di nuovo a Trieste, con il Gruppo Quadra da lui stesso fondato
assieme a Enzo E. Mari, Claudio Nevyjel e Megi Pepeu.
Per la "Storia della critica d'arte", Enzo Di Martino propone un
originale e persuasivo "dialogo semi immaginario" con Henri Focillon a
proposito di Giovan Battista Piranesi, di fatto una incisiva revisione
di aspetti fondamentali del geniale artista Veneziano, con particolare
riguardo alla cronologia delle Carceri, agli alunnati presso
l'architetto Matteo Lucchesi suo zio e gli incisori Carlo Zucchi a
Venezia e Giuseppe Vasi a Roma, per non dire della dibattuta questione
riguardante il suo stesso luogo di nascita.
Alla "Letteratura artistica" reca un contributo Paola Cavan che
riferisce sulle trasposizioni letterarie di Niccolò Madrisio
(1656-1729), patrizio udinese e deputato della Città di Udine in viaggio
a Parigi al seguito degli ambasciatori Veneziani Dolfin ed Erizzo,
ricche di notizie e annotazioni sulle cose d'arte e di architettura
della città, frutto della sua curiosità di uomo di cultura, nella linea
dei reportage di altri viaggiatori illustri fra i quali emerge il
Président Charles De Brosses, riportate dai documenti inediti che
l'autrice qui pubblica, come l'epistolario con Antonio Dragoni.
Specifica attenzione viene riservata anche in questo volume alla
"Didattica dei beni culturali", che si avvale di un'esperienza
particolarmente stimolante, coordinata e qui motivata a livello di
metodo da Wanda Moretti e articolata in un triennio di "percorsi
artistici", qui bene evocati da Elisabetta Brusa, nelle architetture
sacre di Santa Giustina a Padova, del Monastero della Santa Croce a
Campese (Vicenza), dell'Abbazia di Santa Maria Annunciata di Carceri
(Padova): nel 2006 "Caminan-tes", nel 2007 "Sugli Angeli ... figure
erranti", nel 2008/2011 "Giardini del Tempo. Risonanze del Paradiso in
Terra", ideate e realizzate dall'Associazione Culturale Acies, promosse
e sostenute dalla Regione del Veneto, tali da mettere insieme in un
linguaggio poetico il mondo politico dei Comuni ospitanti e il mondo
simbolico espresso dalle costruzioni conteste di pietre che "cantano,
danzano, ci parlano".
agosto-settembre 2008/2011
Giuseppe Maria
Pilo
ARTE Documento
N°24
2008/2011
©
Edizioni della Laguna