Architettura e tutela della cultura materiale classica

 

 

 

 

arch. Alessandro Cutelli

 

 

 

 

 

L’esigenza di salvaguardia del patrimonio culturale, inteso quale insieme dei beni culturali e paesaggistici (art.2 D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i.), è propria di tutte le civiltà. Ogni cultura riconosce, ed ha riconosciuto in vari modi, ad alcune sue produzioni la qualità di preservare la propria memoria storica. Il senso della continuità col passato e il rispetto verso le sue testimonianze, in particolar modo nei confronti delle opere di architettura, risale, per certi versi,  alla cultura classica quale legante delle civiltà mediterranee.

I De architectura libri decem di Vitruvio Pollione sono l’unica opera di rilievo dell’antichità a noi rimasta che abbia per oggetto l’architettura, e come tale riveste un ruolo fondamentale per la conoscenza e la comprensione dei principi e delle teorie dell’architettura dell’antichità, documentando la ripresa della trattatistica greca a Roma.

Ciò che emerge sin dall’antichità è che la conoscenza costituiva, e costituisce ancora oggi, un momento preliminare imprescindibile per qualsiasi attività rivolta alla salvaguardia del patrimonio culturale, per questo potrebbe risultare chiarificatore ripercorrere la storia delle teorie e dei principi costruttivi seguendo l’attività di alcune figure identificabili, con ampia estensione del termine, con quelle “dell’architetto”.

Vitruvio ha servito sotto Cesare nell’esercito romano e ha costruito macchine d’assedio e forse ponti. Poi, dopo la morte di Cesare (44 a.C.), si è occupato della costruzione dell’acquedotto romano e la basilica della città provinciale di Fano, lasciando la sua attività intorno al 33 a.C.

Come suggeriva Vitruvio l’architettura monumentale ebbe origine da edifici in argilla e legno derivati dalla primitiva capanna dell’epoca eroica. L’origine del tempio greco è stata però meglio precisata dallo scavo della tomba monumentale di Lefkandi, in Eubea, datata all’inizio del X secolo a. C. Si trattava di una grande capanna (10 x 45 m) con terminazione absidale e suddivisa in cinque vani coperti da fango e paglia sostenuti a loro volta da travi di legno che si appoggiavano a vari sostegni esterni (precursori delle colonne), adeguatamente distanziati dalle pareti perimetrali, in malta argillosa e telaio in legno, per proteggerle dalle intemperie. Questo sepolcro costituisce il primo esempio di peristasi a colonne.

Dall’VIII sec. a. C., i templi ebbero in genere planimetrie rettangolari (tipologia in antis, prostilo, anfiprostilo, periptero, pseudoperiptero, diptero), raggiungendo anche i 100 piedi (hekatonpedon) come a Samo. Nella solida precisione della pietra e poi del marmo, la capanna dei sovrani di età eroica fu quindi nobilitata ad ideale abitazione della divinità, richiamata dall’immagine di culto interna che, dai primi idoli in legno (xoana) e bronzo sbalzato, passò alla scala umana e al colossale. Quindi da materiali poveri e facilmente deperibili si passò a materiali  più resistenti, come l’introduzione delle tegole in terracotta, la cui innovazione tecnologica venne da Corinto, città dall’ampia vocazione commerciale e artigianale, che dal 680 a.C. contribuì all’introduzione delle tegole in terracotta (sistema della copertura a tegole piatte che ancor oggi è detto “protocorinzio”). Le tegole in stampi modulari resero necessario rafforzare la struttura muraria e i sostegni, passando così dal palo in legno alla colonna in pietra. In considerazione del legame esistente tra le culture mediterranee bisogna inoltre sottolineare che per un’area di scambi commerciali come quelli della Corinzia, appaiono naturali i legami con l’architettura fenicia (il fenicio Cadmo fu considerato inventore delle cave – Plinio) ed egizia, come già Creta. La diffusione della tecnologia delle tegole tramite maestranze itineranti corinzie è accertata nel VII sec. a.C., con influssi verso la Magna Grecia e l’Etruria[1], finendo poi agli inizi del V sec. a.C. ad avere il maggior successo nell’architettura classica dei templi con copertura a embrici triangolari terminanti in antefisse a palmetta. Le forme rigorose di Corinto porteranno, soprattutto nel Peloponneso e nella Grecia continentale, ad una certa uniformità dell’ordine dorico che costituisce una formalizzazione del sistema costruttivo trilitico, composto di elementi verticali (colonne, ante, pilastri) ed elementi orizzontali (trabeazione) portanti.

Nell’ordine dorico le colonne si presentano prive di base e con proporzioni inizialmente piuttosto pesanti. La colonna è costituita da un fusto, di forma assimilabile a un tronco di cono, la cui superficie è ritmata da scanalature verticali dal profilo leggermente concavo. A raccordare il fusto alla trabeazione è un capitello, formato da un ampio abaco parallelepipedo (appoggio per l’architrave), collegato al fusto dall’echino alla cui base vi sono alcuni anelli concentrici, anuli, mentre ancora al di sotto si trova il collarino, costituito dalla parte terminale superiore del fusto scanalato, dal quale lo separano alcune incisioni a sezione triangolare, l’hypotrachelion (ricordo di qualche corona decorativa che mascherava il raccordo tra fusto in legno e capitello in pietra).

La trabeazione è composta da tre parti: l’architrave, il fregio e la cornice.

L’architrave che svolge la funzione strutturale è composta da un parallelepipedo liscio coronato da una semplice fascia, taenia, al di sotto della quale, a intervalli regolari, si posizionano brevi listelli, le regulae, dal cui bordo inferiore sporgono piccoli elementi di forma troncoconica, le guttae. Al di sopra dell’architrave è il fregio caratterizzato dall’alternanza di triglifi e metope. L’alternanza di triglifi e metope nel fregio trova corrispondenza nell’architrave dove le regulae sono disposte in corrispondenza dei triglifi e presentano la medesima ampiezza. A completare la trabeazione è la cornice, elemento sporgente destinato a proteggere i prospetti dall’acqua meteorica. La cornice si compone di una sottocornice e gocciolatoio coronato da una kyma dorico (modanatura con foglia dorica) e sima con protome leonina (utilizzata per convogliare l’acqua nei gocciolatoi).

Gli esemplari di templi dorici risalenti al periodo arcaico basso (VI sec. a.C.) conservati in maniera relativamente integra si trovano per lo più in Magna Grecia (territori costieri dell’Italia meridionale), tra i quali si ricordano i templi di Paestum (Basilica  e Tempio di Demetra – dea dell’agricoltura), il Tempio G di Selinunte, il tempio di Ercole ad Agrigento e il Tempio di Apollo a Siracusa (templi peripteri esastili, esclusa la Basilica che ha nove colonne in facciata).

I Greci, diversamente dai Fenici la cui colonizzazione si basava essenzialmente su avamposti marittimi detti emporia[2], ricreavano oltremare la polis con gli appezzamenti agricoli (kleroi) nel territorio circostante (chora).

Sin dall’antichità possiamo quindi ritrovare ciò che contraddistingue il patrimonio culturale italiano inteso quale composizione di un sistema di beni in un quadro unitario - quello che S. Settis, chiama “tradizione nazionale”, ovvero l’unità e l’unicità di un patrimonio da conservare in situ – e non una semplice sommatoria di singoli monumenti e bellezze naturali.

Se nella madrepatria si erano sviluppati culti che esaltavano l’aspetto “apollineo” della religiosità olimpica, in Occidente ebbero maggior seguito i culti legati alla Madre Terra, in quanto territori prevalentemente agricoli, culti legati al chiuso adyton interno alla cella (assai diffuso in Sicilia). Il tempio siceliota richiese quindi ampie peristasi e vani interni spaziosi e liberi da colonne, perché parte del culto si svolgeva all’interno (sin dal VI sec. a.C.). Le scale ai lati dell’ingresso della cella, caratteristiche in Occidente, si ritrovano nel tempio di Atena a Paestum, mentre ad Agrigento apparivano in quasi tutti i templi. Le scale erano utili per cerimonie come epifanie (manifestazione della divinità), ovvero teatrali apparizioni di sacerdoti che impersonavano le divinità.

Le nuove città si resero poi autonome dalle madrepatria pur mantenendo forti legami culturali e cultuali, conseguendo tuttavia in architettura esiti autonomi e originali. La pianificazione urbana anticipo' nelle colonie le esperienze nella madrepatria, come le regolari pianificazioni di Selinunte in Sicilia. Ad Agrigento l’impianto stradale, impostato verso il 500 a.C. evidenzia un ingegnoso adattamento al sito, con isolati larghi (120 piedi = 35,3 m) disposti con le vie più strette orientate a sud per sfruttare il soleggiamento, mentre le grandi vie longitudinali da est a ovest, delimitavano ampi quartieri su terrazzi scenograficamente digradanti. Sulla grande via che da sud collegava diversi templi si trovava l’agorà, spazio pubblico per le transazioni commerciali e per le adunanze. A nord dell’agorà si trovava un ginnasio, con ampi spazi aperti destinati alla cultura intellettuale e fisica e a nord-est un’agorà superiore costituiva il baricentro spaziale e politico della città, con edifici per l’assemblea dei cittadini (ekklesiasterion) e del consiglio (bouleuterion), affiancati da signorili quartieri residenziali. I modesti quartieri artigianali erano invece ai margini della città, presso le porte.

Tessuti urbani a griglia con assi viari nord-sud ed est-ovest sono stati adottati, oltre che dai Greci, anche da molte altre civiltà del mondo mediterraneo. Ma Ippodamo da Mileto (V sec. a.C.) avrebbe modificato quel sistema urbanistico in funzione di una nuova concezione (da allora definita ippodamea). Le nuove riflessioni sull’organismo urbano tenevano conto del fatto che nel passaggio dal V al IV sec. a.C. erano mutate le caratteristiche delle società cittadine, con nuovi ceti di recente inurbamento detentori di nuovi stili di vita. In questo contesto si rese utile ricercare regole di valore generale per la pianificazione urbana. Era dunque logico adottare impianti a reticolo geometrico, perché questi consentivano di predisporre lotti edificatori dei quali era in partenza definita la localizzazione. Nell’ambito pur regolare dell’impianto a griglia, che prevedeva strade maggiori e minori, particolare rilievo era dato soprattutto all’insieme degli edifici dell’agorà, al grandioso teatro, all’area portuale.

Mentre lo sviluppo dell’ordine dorico in Grecia richiamava ideali prototipi in legno e concrete esperienze dell’architettura egizia, parallelamente sulle coste dell’Asia Minore (Anatolia) o nelle isole dell’Egeo, altre popolazioni greche realizzarono edifici con un autonomo linguaggio architettonico. I più frequenti contatti con gli evoluti popoli orientali ebbero infatti un proficuo impatto sulle città costiere dell’Asia Minore, dove si sviluppo' la scuola filosofica ionica che contribuì alla nascita del pensiero scientifico occidentale.

Lo stile eolico appare in capitelli a volute verticali di origine orientale, come quelli dell’isola di Lesbo, testimoniando la ricezione di motivi tipici del Nilo e rielaborati in Levante e Mesopotamia (663 a.C.). Soprattutto in epoca arcaica (VI sec. a.C.), i Greci fecero proprio il fantasioso repertorio orientalizzante, già rielaborato dai Fenici, di temi vegetali o animali fantastici, in ceramiche, bronzi e decorazioni architettoniche. Il più duraturo lascito dell’Eolia alla decorazione architettonica fu il kyma lesbio, modanatura con profilo a gola rovescia decorata con foglia lesbia e lancette che accanto al kyma ionico a ovoli e lancette o freccette. Queste modanature rimasero legate all’ordine ionico e poi corinzio, mentre la palmetta, spesso accompagnata dai fior di loto costituiva la modanatura ad anthemion, schematizzando così la pianta (phoenix) che dette il nome alla Fenicia.

L’ordine ionico trovò piena e coerente realizzazione nell’Artemision di Efeso (VI sec. a.C.), di cui Vitruvio ricorda l’origine cretese degli architetti, lodevoli per le loro eccellenti competenze tecniche e le loro macchine per il trasporto e il sollevamento. I nomi di questi architetti (Chersiphron, Metagenes e Teodoro di Samo) furono così degni di memoria che lo splendore dell’Artemision di Efeso fu rispettato anche dai conquistatori persiani.

La colonna ionica non poggiava direttamente sullo stilobate ma su una base circolare, o speira, formata da due cuscini, tori, divisi da una strozzatura dal profilo concavo, il trochilo. Il pronao dell’Artemision di Efeso, era diviso in tre navate da colonne con alti plinti quadrati decorati inferiormente con figure (columnae caelatae), come nell’architettura egizia.

Anche il fusto ionico è scanalato e rastremato verso l’alto, anche se in maniera meno evidente rispetto a quello dorico e le proporzioni risultano piuttosto slanciate. La base presenta varianti tipiche delle diverse aree in cui l’ordine si sviluppa (es. base attica: plinto-toro-scozia-toro-tondino-apofige). A raccordare il fusto alla struttura orizzontale è un capitello che assume varie forme, dal capitello a volute, orizzontali, verticali, a corona di foglie ricadenti, detto a plama, a echino semplice, a toro semplice o scanalato. La più nota, che poi si affermerà come la soluzione canonica, è il capitello a volute orizzontali, composto da un elemento a volute, il pulvino, sovrapposto a un echino dal profilo a ovolo e decorato con motivo a ovoli e lancette (kyma ionico). Il pulvino è caratterizzato da due facce parallele, con due coppie di avvolgimenti a spirale, mentre al di sopra si trova, esclusi gli esempi arcaici, l’abaco, generalmente profilato a ovolo o a gola rovescia.

L’ordine corinzio comparve con circa due secoli di ritardo rispetto agli altri, inteso come variante dello ionico da cui si differenzia per la maggiore altezza della colonna e per la diversa forma del capitello costituito da foglie di acanto. Questo ordine ebbe grande fortuna nel periodo ellenistico (IV – II sec. a.C.) e presso gli architetti romani che vi apportarono alcune correzioni, formulando così l’ordine composito (commistione di ionico e corinzio). Vitruvio, in riferimento all’edilizia templare romana, narra anche di un quarto ordine, più tozzo e privo di scanalature, l’ordine tuscanico.

La linea storiografico-critica del trattato vitruviano guardava alla grecità come ad un orizzonte unitario, mentre secondo i trattatisti di età rinascimentale si distinguevano più fasi evolutive, l’ultima delle quali, l’Ellenismo, era giudicata espressione della decadenza.

Il termine Ellenismo tuttavia appare solo alla metà del XIX sec. per indicare il fenomeno della grecizzazione dei popoli entrati in contatto, dopo le conquiste di Alessandro Magno (356-323 a.C.), con la civiltà e la cultura dei popoli greci. Dal XX sec. inoltre si distinguerà tra grecità “ellenica” ed Ellenismo, intendendo quest’ultimo come sistema culturale, artistico, architettonico, tecnico, a sé stante: anche per tener conto che dalla fine del IV sec. a.C. all’egemonia politica e culturale dei centri greci si era ormai sostituita quella esercitata dai più dinamici centri delle aree orientali.

Era contemporaneamente entrato in crisi il sistema di potere delle principali poleis greche e, specialmente, si era indebolito il predominio di Atene.

I pittori e gli scultori appaiono ora meno interessati a rispettare principi e canoni di valore generale, e più propensi, invece, a raffigurare i moti affettivi, ed i correlati gesti (improvvisi, impetuosi, intimistici) dei soggetti raffigurati. Di questo nuovo clima sono principali esponenti, tra la metà e la fine del IV sec. a.C., gli scultori Prassitele, Lisippo[3] e Skopas, e tra i pittori Zeusi, Parrasio ed Apelle. Ovviamente anche gli architetti seguono le nuove linee di tendenza. Da un lato accentuando i valori decorativi, ora con molta disinvoltura, dall’altro lato sperimentanto nuove soluzioni tipologiche e costruttive, o sistematizzando e recuperando quelle di più antica tradizione.

Alcuni studiosi dei primi Anni del Novecento, tra cui Ranuccio Bianchi Bandinelli, ponendo l’accento sul fenomeno del precisarsi della koiné (l’accomunante lingua a matrice greca diffusa in tutto il bacino mediterraneo), consideravano l’Ellenismo un sistema che metabolizzava in chiave “greca” gli apporti e le suggestioni di un mondo assai più vasto. Dal punto di vista architettonico tale periodo assume una certa rilevanza in quanto fino ai primi decenni del II sec. d.C. non poche delle architetture e delle sistemazioni urbane promosse nella stessa Roma, risultano ancora influenzate da echi o componenti di matrice ellenistica, tracciando così confini molto meno rigidi tra epoca “ellenistica” ed epoca romana.

In età ellenistica assumono un ritmo più lento le iniziative di edilizia religiosa, mentre si moltiplicano gli interventi architettonici per la realizzazione delle residenze di corte e di quelle per i ceti più elevati, o per la creazione di centri destinati alle attività politiche, sportive, culturali e dello spettacolo. Per quanto riguarda gli aspetti costruttivi, a partire dalla metà del IV sec. a.C. è sempre più frequente il ricorso a metodi più semplificati ed anche più economici, sia  ricorrendo a materiali di poco pregio, sia impiegando nuovi materiali con conseguente diversa organizzazione del cantiere.

Dopo il III sec. a.C. nell’architettura ellenistica inizia a diffondersi l’uso (anche in combinazione con gli elementi linguistici tradizionali) dell’arco e della volta: l’uso, cioè, di strutture spingenti.

Fino ad allora l’arco e la volta, pur conosciuti per le loro caratteristiche e qualità costruttive, erano stati invece impiegati in parti dell’opera non destinate a contribuire a caratterizzarne l’immagine complessiva. Come ad es. nelle aperture ad arco delle porte urbiche o dei ponti, o nelle opere di sostruzione (dal lat. substructio, strutture fuori terra – quindi da non confondere con le fondazioni – costruite in terreno declive per realizzare un piano orizzontale), o in manufatti tecnici quali le reti fognarie o nelle canalizzazioni.

Il repertorio delle strutture spingenti del tipo “a tutto sesto” inizia poi ad arricchirsi con archi e volte ribassate o rialzati, volte sghembe ed ascendenti, strutture a semicupola e non pseudoarchi (o arco a mensola dell’arch. maya o gli igloo eschimesi) e pseudocupole (come le strutture a tholos micenee, formate da anelli concentrici decrescenti di pietre).

L’impiego di strutture ad arco ed a volta viene in genere considerato non “greco”, sarebbe cioè un apporto etrusco-italico poi amplissimamente sviluppato nella tecnica romana. Sull’origine dell’arco gli studiosi sono discordi, l’Adam propende per un’origine romana, il Lauter per un’origine orientale che aveva influenzato la cultura greca e poi quella etrusca.

A partire dal IV sec. a.C. si diffonde l’uso delle strutture spingenti come l’arco in conci di pietra, in particolare nell’architettura teatrale, come l’apertura a volta (decorata con lesene e frontone) del teatro di Leto a Xanto o le porte d’ingresso degli edifici scenici, oppure nelle scale di accesso come nel Ginnasio di Pergamo.

Dall’introduzione ufficiale di strutture spingenti dipende un’altra soluzione architettonica destinata ad avere grandissima eco nell’arch. romana: l’arco inquadrato da ordine architettonico, definito da semicolonne sovrastate da una trabeazione. Ne consegue un modulo progettuale che può essere ripetuto più volte, dando luogo ad una serie ritmica di campate, es. la faccia interna della corte della fonte Pirene a Corinto.

Novità si colgono anche nelle categorie dei committenti di opere pubbliche e private. Ai governi locali delle poleis si affiancano i sovrani ellenistici, le loro corti ed amministrazioni, gli esponenti dei nuovi ceti elevati, le associazioni con finalità sia civili che religiose. Inoltre è maggiore la mobilità degli architetti e delle maestranze di varia formazione; muta anche l’organizzazione dei cantieri, sia per un processo di progressiva specializzazione delle attività (maestranze, fornitori, ecc.), sia per la ricerca di nuovi materiali costruttivi e decorativi.

Per delineare la figura dell’architetto di età ellenistica si ricorre a Vitruvio che cita un certo numero di architetti importanti tra cui ricordiamo Piteo, Ermogene, Dinocrate, Tymotheos e Sostrato, quest’ultimo autore del celebre (ad oggi perduto) Faro di Alessandria (opera annoverata tra le sette meraviglie del mondo antico). Il nome dell’architetto era spesso posto in ombra da quello, considerato più importante, del committente, inoltre non è sempre chiaro a quale figura o competenza corrispondesse la qualifica di “architetto”. Vitruvio fornisce dettagliate precisazioni sui numerosi e vari campi di competenze (astronomia, geometria, acustica, economia, ecc.) che dovevano far parte della formazione di un architetto. Un apporto molto importante alla prassi progettuale ellenistica è la scelta di delineare il progetto architettonico tracciandone in proiezione ortogonale la pianta e i vari prospetti, oppure presentandone l’immagine tridimensionale. Poco per volta compare anche la figura del direttore dei lavori (definito architekton e talvolta coincidente con il progettista) che fungeva da cerniera tra committente ed appaltatore; e, talvolta, anche la figura dell’hypoarchiteckton (anche più di uno) che soprintendeva a singole parti dell’opera.

Vi erano poi gruppi di libere maestranze (muratori, scalpellini, pittori, ecc.) ma anche schiavi di proprietà della città o del tempio (addetti all’estrazione del materiale in cava, alla posa in opera degli strati di fondazione, alla posa delle colonne e delle parti in elevato, al cui alloggio e sostentamento provvedeva l’amministrazione pubblica tramite propri funzionari.

I vincoli costruttivi locali giocavano un ruolo di resistenza alle nuove tecniche costruttive, così persisteva l’uso di realizzare parti murarie con grandi elementi “mattoni” di argilla cruda (seccata al sole) legati tra loro con argilla liquida. Era anche molto adottato il sistema di realizzare murature costituite da intelaiature lignee inframezzate da mattoni seccati al sole o da materiale sfuso, eventualmente poi intonacato. Inoltre, in ambito nordafricano ed in parte in Sicilia (perché introdotto dai Cartaginesi), si realizzavano muri costituiti da blocchi lapidei disposti verticalmente ed orizzontalmente ad una certa distanza l’uno dall’altro, con interposizione di materiale vario.

Un tema importante è quello della diffusione del mattone cotto, materiale peraltro noto in ambito orientale sotto forma di mattoni cotti e smaltati, ma che proprio in età ellenistica sarebbe stato introdotto con nuove modalità e forme. I nuovi mattoni avevano grandi dimensioni (40 cm di lato e spessore di 10 cm), forse derivate da quelle dei mattoni crudi. La cottura del laterizio offriva anche la possibilità di sagomare in modo opportuno elementi che richiedevano sagome speciali. Vitruvio descrive i vari tipi di mattoni: uno è quello greco, denominato Lidio (30x45 cm), cioè quello che corrispondeva al mattone  lungo un piede e mezzo e largo un piede dei romani, poi si utilizzava il pentadoron (cinque palmi, 37,5x37,5 cm) e il tetradoron (quattro palmi, 30x30 cm).

Di norma i romani costruivano con il mattone quadrato:

bessale, 2/3 di un piede = 20x20 cm;

pedale, un piede, 30x30 cm;

sesquipedale, una volta e mezza in più, ovvero da 45 cm;

bipedale, 2 piedi, 60x60 cm.

Nell’età di Cesare (100-44 a.C.), e quindi di Vitruvio, era abbastanza frequente l’impiego di mattoni cotti con interposizione di malta di calce. La calce come risultato della cottura della pietra era nota in Siria, Fenicia, Cipro e Grecia fin dal V sec. a.C. Tra il IV e il III sec. a.C. dal Medio Oriente e da Cipro veniva importata in Grecia la konìa, cioè la pietra cotta (calce viva) impiegata per gli stucchi e per usi agricoli. Questi commerci erano particolarmente pericolosi, perché la calce viva in contatto con acqua dà origine allo spegnimento (idrossido di calcio), reazione che produce temperature elevate e aumento di volume. La calce utilizzata era quella aerea, cioè capace di far presa solo a contatto con l’aria. Più tardi compare una sua miglioria il cocciopesto, un conglomerato a base di calce, sabbia o pozzolana e piccoli frammenti laterizi, in grado di conferire proprietà idrauliche alla malta, e per questo utilizzato come rivestimento di cisterne e terrazzi. Nella letteratura archeologica spesso si tende a confondere l’opus signinum col cocciopesto, tuttavia Vitruvio ne parla come tipo particolare di calcestruzzo per la costruzione di cisterne. L’opus signinum veniva preparato con una pozzolana purissima, sassi ricavati da una pietra dura e calce molto forte, con un rapporto 5:2 tra pozzolana e calce.

E’ databile al III sec. a.C. la scoperta, nelle regioni greco-sannitiche e in particolar modo nell’ambito napoletano (Pozzuoli), delle eccezionali qualità della sabbia vulcanica conosciuta come “pozzolana” (pulvis puteolanus), capace di far presa anche nell’acqua. Dall’utilizzo di questo inerte all’interno delle malte deriva l’invenzione di una nuova tecnica muraria che permetterà ardite soluzioni architettoniche: a tratti di circa un metro di altezza venivano costruite due cortine esterne costituite da piccoli elementi piramidali o lapidei o di tufo vulcanico, all’interno veniva quindi disposto a strati un conglomerato costituito da malta pozzolanica e d altri piccoli frammenti lapidei. Dalla diffusione di questo nuovo sistema, definito da Vitruvio opus incertum, è anche conseguita una nuova organizzazione del cantiere e una specializzazione delle competenze. Ritroviamo questa tecnica negli edifici del Foro di Paestum costruiti nel primo periodo della colonia romana.

Questa tecnica tende però a scomparire verso la fine dell’età repubblicana, sostituita dalla regolarizzazione dei tracciati reticolari dei paramenti esterni dell’opus reticolatum e dell’opus latericium, infine dall’uso combinato di conci regolar e irregolari con l’opus mixtum.

Roma era probabilmente in contatto con tutto il mondo etrusco-italico e mediterraneo già dalle sue fasi originarie (VIII-VII sec. a.C., dal III al II sec. Roma impone il suo dominio sul mediterraneo).

A partire dal III sec. a.C. Roma sottomette, o stabilisce rapporti di alleanza-dominio con più civiltà e popolazioni: gli Etruschi, popolazioni italiche, gruppi etnici di matrice gallica, Cartagine (guerre puniche), importanti centri magnogreci e sicelioti, poi popolazioni ed aree greco-ioniche. Diverso è invece il quadro delle relazioni tra Roma ed il regno tolemaico d’Egitto. Prima Cesare e poi Antonio sembra che avessero guardato ad Alessandria, la capitale del regno dei Tolomei, quasi come ad un polo equivalente all’Urbe. In tema di penetrazione delle componenti greco-ioniche ed il mondo alessandrino-tolemaico avevano un livello culturale ed artistico più elevato di quello della società romana del tempo. Altro importante canale di penetrazione, ma anche di filtro, delle componenti esterne in Roma è quello della religiosità, infatti il sistema religioso romano aveva non pochi elementi in comune (con sole varianti di nome) con le deità del mondo greco. Tuttavia parallelamente hanno continuato ad essere praticati anche culti di deità tipicamente italico-romane, anche se venivano tollerate le altre religioni. Per quanto riguarda la cultura urbanistica ed architettonica si recepivano i modelli ellenistici ma con disinvolte interpretazioni o veri e propri processi metamorfici, sia per fedeltà alla tradizione che per ragioni di ordine pragmatico ed economicistico. Tra la fine del II sec. e la seconda metà del I sec. a.C., nei ceti più elevati della società romana si accentua e si diffonde l’interesse e la moda per i vari aspetti della cultura ellenistica. Numerosi cittadini romani diventano sia importatori e collezionisti di opere greche, sia committenti di artisti (anche greci immigrati) che, a Roma, o replicavano le più importanti opere dell’arte greco-classica (V sec. a.C.) o ricevevano l’incarico di eseguire opere di matrice ellenistica di pregio. Lo stesso trattato di Vitruvio evidenzia i suoi debiti nei confronti delle cultura grecizzante, pur non mancando però i filtri e il riferimento alle tradizioni locali di matrice romano-italiche.

Le scelte urbanistiche ed architettoniche delle Roma tardorepubblicana mostrano sia analogie, sia differenze rispetto a quelle ellenistiche. La politica territoriale romana dal III sec. a.C., risulta incentrarsi sul ruolo dell’Urbe come unico ed egemone polo di riferimento (Roma caput mundi), cui consegue anche il configurarsi di reti viarie di lungo percorso. Il sistema territoriale a larga scala promosso da Roma si fonda da un lato sul ruolo, ma ora “romanizzato”, di centri esistenti, dall’altro lato sulla creazione di nuovi poli: mediante la deduzione di “colonie” (immissione di popolazioni romane in piccoli centri ripianificati) oppure con la fondazione di nuovi centri insediativi. Complementare a quello degli insediamenti delle colonie è il metodo della “centuriazione”: la messa a coltura di zone agricole delle aree circostanti ai centri urbani con appezzamenti coltivabili definiti da un reticolo a maglie ortogonali di dimensioni costante, secondo i metodi di uno speciale corpo di agrimensori e attraverso l’uso della groma.

Il tessuto urbanistico delle colonie romane e dei poli di nuovi impianto non era predisposto per una società paragonabile a quella dei regni ellenistici, dove ciascun centro era pensato per il coordinamento del proprio territorio. Nel sistema romano, invece, i centri ripianificati, così come quelli di nuovo impianto, erano sempre pensati come singoli nodi di un unificante ed unitario sistema a rete incentrato sull’Urbe.

I due sistemi pianificatori (romano ed ellenistico) sembrano dar luogo a soluzioni analoghe: entrambi adottavano lo schema a griglia ortogonale, ma in essi è diverso, oltrechè l’insieme edilizio, soprattutto il significato simbolico che Roma attribuiva al luogo dell’intersezione tra cardo (asse nodr-sud) e decumano massimo (asse est-ovest) (che erano gli assi privilegiati lungo i quali la viabilità extraurbana immetteva i suoi flussi). A differenza del sistema ellenistico che talvolta marcava quella intersezione con un tetrapylon, e nei cui pressi realizzava l’agorà, nel sistema romano al luogo d’intersezione tra cardo e decumano massimo veniva attribuito il significato simbolico di “segno” della presenza religiosa e civica di Roma; vi veniva infatti in genere costruito il complesso templare dedicato alla triade capitolina.

Differenze e analogie rispetto ai centri ellenistici si colgono, almeno a partire dalla fine del III sec. a.C., anche nell’edilizia pubblica dell’Urbe, sia nelle strutture del Foro, sia nelle varie porticus realizzate in più parti della città. Venivano realizzati porticati di varia configurazione: a due e più navate,  (es. il porticus Aemilia) a tre ali o in forma di quadriportico chiuso, ad uno o più piani, ed anche pensiles, cioè costruiti al di sopra di sostruzioni o criptoportici.

Il Foro tende ora a divenire luogo progettato. Ne era elemento importante la “basilica” civile, un edificio inizialmente rettangolare, a  tre navate (poi anche cinque) e ad uno o due livelli, destinato a più funzioni: il tribunal – ambiente a sé stante ad un livello sopraelevato situato su uno dei lati e talvolta con terminazione ad esedra, dove si svolgevano attività di tipo giudiziario; lo spazio destinato al pubblico ritrovo dei cittadini; più avanti anche le tabernae (cioè le botteghe commerciali) disposte sul lato lungo della basilica. Punto di riferimento è la basilica di Pompei (II sec. a.C.), cioè prima che la città divenisse colonia romana (il nome originario era Poseidonia), con pianta rettangolare suddivisa in tre navate da colonne in materiale laterizio e con capitelli ionici a volute sui quattro lati. Si affacciava sul Foro con un porticato disposto sull’asse longitudinale dell’edificio, mentre all’interno il tribunal era costituito da un loggiato a due ordini di colonne addossato alla parete di fondo.

Episodio urbano di eccezionale rilevanza è il grande complesso promosso da Pompeo nell’area di Campo Marzio. L’insieme, che combina matrici sia ellenistiche che italiche, era costituito da un estesissimo quadriportico, da una curia (sede del senato) e da un sistema santuariale che comprendeva un teatro stabile (è il primo a Roma) con la cavea costruita in elevato (diversamente da quelle greche costruite lungo il pendio della collina). Il teatro di Pompeo, del 55 a.C. suscitò aspre polemiche perché violava le leggi di Roma che vietavano la costruzione di teatri in città per il rischio di sommosse. L’esempio teatro-santuario richiamava precedenti esempi di area sannitica e latina (es. il santuario laziale di Giunone a Gabii, il santuario di Ercole a Tivoli, quello della Fortuna Primigenia a Palestrina), ma un riferimento all’ellenismo è evidente nel quadriportico che riproponeva le sistemazioni ellenistiche che Vitruvio definisce porticus post scaenam. Grazie a Pompeo si diffonde una nuova estetica urbana, grazie a un’edilizia civile pensata a scala urbana.

In seguito Cesare (100-44 a.C.) avrebbe deciso di trasformare l’intera immagine del centro cittadino in base a un preciso programma ideologico. Ciò che più interessa sotto il profilo dell’analisi dei rapporti con la cultura architettonica ellenistica è la realizzazione del Foro di Cesare (dando così inizio alla sequenza dei cinque Fori Imperiali (Fora Imperatorum), Cesare-Augusto-Vespasiano-Domiziano-Traiano. I  nuovi fori si ispiravano all’architettura tardo ellenistica con organizzazione assiale e omogenea (assente nel Foro repubblicano), collegati poi tra loro costituivano un gruppo architettonico unitario, sontuoso, articolato in cinque piazze porticate che riunivano funzioni propagandistiche, cultuali, amministrative, giudiziarie.

Il Foro di Cesare, situato nei pressi del Foro Romano e ai piedi del colle capitolino, consisteva in una grande piazza di forma rettangolare molto allungata con portici e un certo numero di tabernae, che però, innovativamente, erano destinate ad attività politiche ed amministrative e non commerciali (piazza con funzione civica). Tutto l’impianto, forse progettato da un architetto ateniese, era dominato da un grande tempio situato su uno dei lati minori della piazza ed il cui asse costituiva (tema di matrice italica) l’asse di coordinamento di tutta la sistemazione. Il grande tempio era dedicato a Venere Genitrice, e si richiamava apparentemente anche ad una matrice italica-etrusca (alto podio e peristasi su tre lati, periptero sine postico, – anche se nella tradizione italica la cella era divisa in tre parti dedicate a Giove, Giunone, Minerva), ma con numerose innovative modifiche. Al podio non si accedeva infatti con una scalinata centrale ma con due rampe di scale disposte sui due lati lunghi: era cioè affermata la separatezza del tempio rispetto alla piazza. Altrettanto ardite erano le soluzioni della cella i cui muri erano ritmati, all’esterno, non da semicolonne (come nel caso del tipo pseudoperiptero) ma da semipilastri addossati; ed al cui interno vi era una terminazione absidale semicircolare destinata ad accogliere il simulacro della dea. Inoltre lungo la controfacciata d’ingresso e lungo le pareti laterali interne vi erano una doppia teoria di colonne libere cui corrispondevano semipilastri addossati.

Importantissima opera pubblica è poi il Tabularium, il grande archivio statale fatto  erigere dal console Quinto Lutazio Catulo nel 78 a.C. L’opera consisteva in una serie di ambienti disimpegnati da gallerie con copertura a volta, mentre in facciata compariva il tema dell’arco inquadrato dall’ordine architettonico con colonne scanalate di tipo dorico poggianti su base (variante romana). La soluzione dell’arco inquadrato dall’ordine era di per sé conosciuta in ambito ellenistico, però in applicazioni di secondaria importanza (es. della fonte Pirene). A Roma viene adottata per risolvere il più generale tema di inserire sistemi di strutture voltate, ma con proiezione esterna ad arco, nel contesto concettuale del sistema trilitico degli ordini architettonici. Questo episodio costituisce una prassi che, a partire dal Rinascimento, vi farà riferimento per più secoli.

Alcune differenze con la cultura ellenistica si colgono soprattutto nell’edilizia templare, visto che i templi romani erano tradizionalmente rialzati su di un alto podio cui si accedva con una scalinata frontale. I templi erano generalmente realizzati in tufo stuccato e non in marmo, richiamando la tradizione italica dello schema a tre celle (es. tempio Capitolare Campidoglio). Vitruvio raccomandava di dare accesso al tempio dal suo fronte occidentale: perché i fedeli potessero fare i sacrifici e fare le loro offerte guardando verso oriente il simulacro divino. Nel mondo greco prevale invece il tradizionale ingresso sul lato est: l’opposto orientamento (quello verso occidente) trova infatti applicazione soltanto in alcuni templi microasiatici (Efeso) dedicati ad Artemide (deità femminile dalle connotazioni anche notturne).

Le diversità si colgono poi anche nella profondità del pronao a colonne romano (pars antica) anteposto alle celle, cui, sul lato opposto corrisponde, quando esiste, la pars postica. Secondo alcune interpretazioni questo tipo di pronao doveva servire alla rituale apparizione dei sacerdoti: forse connessa con il rito della auguratio. Da ciò la necessaria frontalità e la conseguente distaccata imponenza del tempio nei confronti dello spazio (piazza o via), come nel tempio di Venere Genitrice nel Foro di Cesare.

Per tutta l’età ellenistica, che in termini di storia romana coincide con la media e tarda età repubblicana, gli architetti romani godettero di una notevole reputazione per quelle che oggi chiameremmo opere di ingegneria: strade, ponti, acquedotti, fondazioni e fortificazioni sia civili che militari.

Scegliendo come riferimento il 31 a.C., data della battaglia di Azio in cui Ottaviano (poi Augusto) sconfisse Marco Antonio e Cleopatra, si identifica il momento in cui nell’architettura romana avviene una svolta significativa, in quanto cambia la committenza, nel senso che a partire da qui si ha un unico punto di riferimento: l’imperatore Augusto.

Nasce un’architettura ufficiale di Roma. Il diverso peso dell’Autocrate nella gestione della Res Publica porta all’elaborazione di modelli inevitabilmente autorevoli. Fino a quando ci sarà un’autorità centrale nell’Impero – fino a Diocleziano e Costantino – tutto ciò che viene costruito nel mondo romano o romanizzato può essere visto come una eco di quanto accadeva nell’Urbe.

La diffusione dell’architettura romana, infatti, avvenne attraverso l’esportazione di modelli che, impiantati in zone diverse, ebbero sviluppi del tutto peculiari, condizionati dalla maggiore o minore prosperità, dai differenti materiali e tecniche di costruzione. Così zone dotate di una propria architettura non svilupparono un linguaggio innovativo rispetto all’età classica, come la Grecia peninsulare ove l’impoverimento, lo spopolamento della regione, la necessità di completare, mantenere e restaurare, nonché la difficoltà di realizzare malte adatte alle grandi strutture voltate, limitarono l’apporto locale allo sviluppo dell’architettura romana. Mentre altre zone, come quelle delle coste anatoliche e il Medio Oriente, più floride, seppero sia riprendere la tradizione dell’architettura trilitica, decretandone una nuova fioritura, sia adottare i nuovi schemi voltati e cupolati. L’introduzione dei nuovi stilemi, però, aveva in ogni regione romanizzata un tratto comune: essa avveniva non tanto per spontaneo adeguamento della cultura architettonica a nuove forme e nuovi materiali, ma soprattutto per influsso del potere centrale.

Grazie all’apertura, avvenuta già in età cesariana, delle cave di Luni (odierne cave delle Alpi Apuane presso Carrara) affluiva a Roma il marmo bianco come materiale da costruzione (come in grecia lo era stato quello pentelico) e le officine urbane si specializzavano metabolizzando le finezze tecniche apprese da artefici stranieri, come testimoniato dai c.d. “girali degli Horti Sallustiani”. Si tratta di una sofisticatissima decorazione marmorea che realizzava a bassorilievo di marmo delle architetture “parafrontonali” come quelle note delle architetture dipinte (II° stile pompeiano), destinati forse a monumentali sovrapporte.

Si ritiene possibile rivendicare alla figura dell’architetto romano di età augstea, quindi, non soltanto la capacità cantieristica e la tecnologia costruttiva, ma anche l’ideazione formale ed il controllo sugli apparati decorativi. Da questo momento progettare l’ordine architettonico, secondo eventuali mutazioni formali, con tutti i suoi dettagli è parte integrante della progettazione dell’edificio.

Nel 28 a.C. il Senato romano incarica Ottaviano (Augusto) di restaurare i templi di Roma. L’esigenza di ribadire un’identità culturale, riferendosi ad opere cui sia attribuito un valore etico-sociale e artistico, è particolarmente evidente nelle fasi di passaggio dalla Repubblica all’Impero.

Tra gli elementi che caratterizzano l’età augustea, vi è il fatto che il diritto attribuisca alle opere esemplari del passato – i monumenti e le opere d’arte – il valore di “bene della collettività”, anche perché il nuovo assetto politico scardina i vecchi equilibri.

Plinio, nella Naturalis Historia, narra che l’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), figlio adottivo di Augusto, appassionatosi della statua dell’Apoxyòmenos di Lisippo la fece sottrarre dalle Terme per riporla nella sua camera da letto, ma il popolo romano richiese con clamore che la statua fosse rimessa al suo posto finché il principe dovette cedere. Il passo mostra innanzitutto l’atteggiamento, proprio della cultura imperiale romana, di protezione dei beni pubblici, in quanto espressione della comunità e ad essa appartenenti; mette in luce come il massimo rappresentante della comunità stessa, l’imperatore, potesse essere visto come un semplice privato che intenda appropriarsi di un bene pubblico; infine emerge uno dei principi fondamentali della tutela: un bene è pubblico se è garantita a tutti la sua piena fruibilità.

Sebbene alcune architetture subissero interventi di adeguamento o di trasformazione, indipendentemente dal riconoscimento dei valori che in esse erano presenti, sin dall’età di Cesare si avevano importanti leggi edilizie volte ad assicurare il decoro delle piazze, delle strade, degli edifici cittadini e dei monumenti pubblici e privati.

La compresenza di più linguaggi la ritroviamo nel Foro di Augusto, iniziato nel 2 a.C. composto dal tempio di Marte Ultore e due lunghe ali di porticati che delimitavano l’area, rendendo impercettibili le quattro grandi esedre che fungevano da tribunalia. Il lato breve si innestava sul lato maggiore del Foro di Cesare. Le novità le ritroviamo nei portici, internamente coperti da un controsoffitto a volta sospeso alle capriate in legno del tetto, presentavano esternamente, al di sopra della trabeazione, un attico scandito, in corrispondenza delle sottostanti colonne, da cariatidi, copie di quelle dell’Eretteo di Atene, e tra esse clipei decorativi con teste di Giove.

L’invenzione di questo attico può essere stata dovuta alla necessità di nascondere la volta interna e per controbilanciare la mole del tempio.

Vitruvio prescriveva con grande precisione come costruire le finte volte (oggi diremo ad incannicciato), utilizzando travicelli di cipresso perché l’abete si deteriorava facilmente per i tarli e il tempo. Dopo aver centinato adeguatamente i travicelli, bisognava fissare le traverse di legno (catenae) al solaio o al tetto e si doveva fissarle con una fitta chiodatura. Collocati i travicelli si dovevano legare ad essi, per mezzo di corde, le canne greche schiacciate (harundo, canna da vigna) e bisognava proteggere l’estradosso della volta con una malta di calce pozzolanica per sostenere quelle infiltrazioni che eventualmente fossero cadute dal tetto. Infine si intonacava l’intradosso con cocciopesto. Le finte volte erano impiegate anche per isolare un vano dal sottotetto, magari usato come piccionaia, oppure per creare un intercapedine nelle volte massicce degli impianti termali.

Il tempio di Marte Ultore, nel Foro di Augusto, ottastilo, periptero sine postico, può essere considerato il primo esempio di quello che sarà il corinzio canonico romano: basi attiche con plinto, fusto scanalato, capitello corinzio tradizionale, architrave relativamente sottile, fregio continuo e cornice a modiglioni. L’interno della cella, ad aula unica, presentava le pareti lunghe decorate da un doppio ordine di colonne su podio, e la parete di fondo era quasi tutta occupata da un’abside larga e poco profonda innalzata da una gradinata all’altezza del podio e marcata da due pilastri alti quanto l’intero ordine (arco trionfale).

Con la redazione del Foro di Augusto venivano definitivamente consacrate l’assialità come forma di visione preferenziale e la centralità del tempio nella progettazione delle aree sacre monumentali. Inoltre parallelamente all’affermarsi del corinzio romano si assiste, almeno in ambito urbano, alla improvvisa eclisse dell’ordine ionico, mentre il tuscanico sembra rappresentare una manifestazione di deliberato arcaismo (es. Basilica Giulia). Anche per quanto riguarda gli interni i canoni sono ormai stabiliti: prevale una decorazione architettonica assolutamente ininfluente ai fini statici o funzionali, ma volta esclusivamente alla meraviglia. Un gusto scenografico impone nella realtà architettonica e marmorea tutta una serie di innovazioni, quali, se non ancora l’emergere dell’ordine architettonico dalla parete tramite l’articolarsi della trabeazione, quantomeno l’invenzione della colonna che ribatte su una lesena coordinata; l’uso di forme non solo curvilinee ma addirittura mistilinee per i frontoncini delle edicole. La sintassi stessa della trabeazione, pur sostanzialmente inalterata nella sua tripartizione, è oggetto di innovazioni ed arricchimenti a livello decorativo.

Nel campo dell’edilizia il lungo principato di Augusto lasciò in Roma un’impronta indelebile: non tanto per veri e propri progressi nell’edilizia abitativa (persistono infatti le tipologie canoniche della domus di stampo ellenistico e dell’insula, quando maggiore era la densità urbana) e nemmeno nell’architettura delle ville (le cui innovazioni si avranno in età giulio-claudia), ma per l’emanazione di una legge che limitava l’altezza delle case sul fronte stradale a 70 piedi (circa 20 m).

Si avvia a scomparire il mattone crudo a favore di murature in opus reticulatum, versione più raffinata dell’opus incertum e resta ancora in uso l’opus craticium, una sorta di telaio in legno con qualche controventatura, i cui interstizi venivano riempiti di sassi tenuti insieme con fango o con malta. Inoltre la diffusione del marmo di Luni per gli edifici monumentali si accompagna all’uso di marmi colorati per i rivestimenti degli interni, come quelli provenienti dal nord Africa (marmor luculleum) a fondo cupo, sontuosamente chiazzato e screziato, il pavonazzetto (marmor phrigium) della Turchia, o giallo rosati del giallo antico (marmor numidicum) dell’attuale Tunisia e Algeria.

Con la pax augusta riprende poi piede il fenomeno delle ville, urbane, suburbane, lacustri o marittime che diventano la categoria di opere privilegiate dell’aristocrazia e di molti imperatori. Augusto aveva costruito una villa a Capri, il c.d. “Palazzo a Mare”, ma è il regno di Tiberio ad essere uno dei più prosperi e creativi nella storia dell’architettura, caratterizzato nella creazione di ville e giardini. La villa imperiale di Sperlonga e l’intera isola di Capri diventano luoghi ideali per l’ozio. In questa operazione si è proposto di riconoscere la c.d. ars topiaria[4]. L’Odissea di marmo nella grotta di Sperlonga e la riproposizione di analoghe installazioni in alcune ville capresi (Grotta dell’Arsenale, Grotta Azzurra) è all’origine di future analoghe creazioni che culmineranno nella villa di Adriano.

E’ solo con Nerone che questa attività sostanzialmente privata viene elevata a sistema ed irrompe nel mondo pubblico con la creazione dell’immensa Domus Aurea, impostata dopo uno dei più devastanti incendi che l’Urbe avesse mai conosciuto, con un lago artificiale ricavato nell’attuale valle del Colosseo e da immensi giardini in cui erano immersi padiglioni di abitazione, ninfei e un grandioso impianto di giardini pensili su una delle sommità del Palatino.

Nella Domus Aurea sono evidenti i progressi nella tecnica costruttiva: dalle immense volte a botte alla grande volta a padiglione ribassata su pianta ottagonale funzionante come una cupola ed aperta con un vastissimo oculo. Gli architetti avevano quindi intuito il ruolo degli spigoli all’interno delle strutture voltate, come luogo della concentrazione degli sforzi, intuizione che porterà alla volta ad ombrello nella villa Adriana a Tivoli e quindi a volte e cupole costolonate.

Villa Adriana, risultato di un imperatore architetto[5], costituisce il rinnovamento delle forme dell’architettura cementizia, inoltre non è il funzionalismo il criterio compositivo che presiede la progettazione del complesso, sebbene dotata di una complessa rete di infrastrutture, idriche, fognarie e viarie, in quanto manca un qualsiasi organigramma distributivo funzionale (dal vestibolo non si aveva accesso ad atri o a sale del trono); l’unica vicinanza è con alcuni impianti termali.

Si tratta forse del capolavoro dell’ars topiaria, l’arte di ricreare nei giardini romani i tòpoi o luoghi letterari più celebri, di cui la grotta di Tiberio a Sperlonga e la Domus Aurea di Nerone erano stati esempi massimi. Di estrema importanza è la costruzione di una grandiosa aula basilicale, circondata da una galleria di pilastri dorici, che aveva sotto il rivestimento marmoreo, piattabande armate con ferri sagomati. In questo caso la piattabanda, normalmente utilizzata per piccole luci e spesso abbinata con archi di scarico, veniva utilizzata al posto dell’architrave, dove i conci in muratura si attestavano su pulvini di pietra posti sulla verticale dei ritti o delle colonne e una staffa di ferro accompagnava nella parte inferiore (soggetta a trazione) i conci dell’architrave - lavorati a cuneo - e piegandosi legava superiormente il pulvino (in tal modo l’armatura assumeva l’andamento del momento flettente). Talvolta, nelle applicazioni più semplici, si usava una staffa unica corrente sotto i pulvini e sotto la piattabanda con lo scopo principale di servire da catena.

Altro intervento legato all’attività di Adriano è il restauro e il consolidamento del Pantheon, maestoso tempio dedicato a tutte le divinità e fatto erigere da Marco Vespasiano Agrippa nel 27 a.C. su un edificio di età augustea, distrutto poi da un incendio che devastò il Campo Marzio nel 110 d. C. Tutti e caratteri morfologici e qualitativi, riferibili con sicurezza ad Apollodoro di Damasco, si possono riscontrare nella concezione strutturale e nell’architettura trilitica del Pantheon. Dagli scavi archeologici è emerso che furono reimpiegate, con opportune modifiche e consolidamenti, le fondazioni del Pantheon augusteo, il quale aveva già sostanzialmente l’impianto attuale. Il cantiere iniziò dalla realizzazione della grandiosa tholos (tempio a pianta circolare), la cui logica strutturale prevedeva la contestuale messa in opera del primo ordine architettonico interno: colonne, architravi e relativi archi di scarico sono infatti parti integranti dello schema statico dell’alzato. Alla tholos fu aggiunto, praticamente senza ammorsature, il corpo a forcipe (nome dalla forma dell’arnese utilizzato per prendere le cose calde), che comprendeva anche due corpi scala triangolari. Al corpo a forcipe veniva poi ammorsata l’architettura trilitica del pronao. L’apparente stranezza di procedere al cantiere denota invece una profonda conoscenza delle costruzioni monumentali: consapevole della mole e del peso della tholos (i dissesti leggibili nelle fondazioni augustee erano ben leggibili), nonostante gli accorgimenti impiegati per alleggerirla, l’architetto previde di aggregarle architetture più leggere – una sostanzialmente vuota (il corpo a forcipe) e l’altra discontinua (il pronao) – solo dopo che le sue fondazioni si fossero assestate, per evitare lesioni di taglio. La struttura si presentava quindi con un avancorpo formato da un pronao ottastilo, coperto con travature di bronzo, alle quali erano sospesi i soffitti cassettonati, ugualmente bronzei. Il profondo pronao assumeva una disposizione basilicale a tre navate, di cui quelle laterali, minori e coperte in piano, terminavano con due nicchioni per statue, e quella centrale, più vasta e coperta a botte, conduceva alla porta della cella. L’illuminazione zenitale provocata dall’oculo al centro della cupola esaltava il puro volume della sfera inserita in un cilindro di pari diametro ed alto quanto il suo raggio. L’enorme cupole richieste quindi diversi accorgimenti tecnici, infatti l’enorme spessore del tamburo è praticamente svuotato per metà tramite esedre verso l’interno, e concamerazioni verso l’esterno: il che garantisce alla struttura un momento d’inerzia atto a resistere alle spinte della cupola, con una massa di materiale e di peso decisamente inferiori sulle fondazioni.

Lo svuotamento della massa muraria permetteva inoltre una sicura e veloce carbonatazione del cementizio: è noto che il cementizio del Pantheon è sapientemente alleggerito mano a mano che si procede verso l’oculo della cupola, mediante l’uso di inerti via via meno pesanti (schegge di travertino e selce in fondazione, quindi travertino e tufo fino al primo ordine, e tufo e tegole frantumate fino alla cornice del secondo ordine. Nella cupola si impiegano frammenti di laterizi, tufo giallo e scorie vulcaniche). Annegata all’interno del cementizio è predisposta una struttura laterizia di archi (nervature) che sgravano dal peso della cupola  le parti orizzontali marmoree che schermano le esedre concentrando tutto il carico sui piloni interposti. Tale sistema di archi esiste anche nella cupola cassettonata, e costituirà elemento di riflessione per Michelangelo per la cupola di San Pietro. La veste decorativa interna con l’ordine a lesene e capitelli a “sigma” è di più avanzata datazione adrianea.

Dopo Nerone, con i Flavi (Vespasiano, Domiziano, Nerva) si torna alla politica delle grandi opere pubbliche. Si ha così lo smembramento della Domus Aurea e al posto del lago artificiale venne realizzato il colossale anfiteatro Flavio. La matrice è quella della pianta dei teatri duplicata come il teatro di Pompeo e quello di Marcello. Nel Colosseo abbiamo la fusione del sistema ad arco con quello a trabeazione, trattando però quest’ultimo soltanto come mezzo di espressione in quanto i colonnati hanno solo parzialmente funzione strutturale. La cellula compositiva di base è l’arco inquadrato dall’ordine, ripetuto radialmente per tre livelli sovrapposti, mentre un attico scandito da lesene corinzie corona l’edificio e sorregge le antenne a cui veniva sospeso un colossale velario per ombreggiare l’arena. Ognuno dei tre  livelli è caratterizzato da semicolonne con diversi tipi di capitelli, tuscanici al pianoterra, quindi ionici e poi corinzi (semplificati). Il problema non si limita alla scelta dei capitelli, in quanto una sorta di inversione delle consuetudini compositive traspare dalla facciata continua del Colosseo: il pianterreno risulta il più basso dei quattro livelli, più o meno uguali quelli intermedi e altissimo l’attico. A provocare questo effetto sono i plinti sotto gli ordini, assenti al pianterreno, presenti e collegati l’uno all’altro da una struttura che funge da parapetto negli altri piani. I plinti e i parapetti nascondono al secondo e terzo livello le volte a botte anulari delle gallerie sottostanti. La tecnica edilizia adottata è quella di una struttura a scheletro di travertino, con tamponature prima in opera quadrata di tufo, poi in mattoni e volte rampanti in cementizio. Nel Colosseo le volte sono realizzate con le cosiddette nervature, ossia allettamenti di laterizio disposti secondo i meridiani o i paralleli a formare una vera e propria rete (nervature), le stesse che si ritrovano nelle volte di villa Adriana, dove peraltro si trova l’esempio di arco impostato su colonne e spesso con andamento curvilineo (tema assai raro fino a quel momento). Con villa Adriana le volte e le cupole non costituiscono più soltanto un metodo di copertura, bensì un mezzo espressivo dell’architettura; curve e controcurve vengono usate a fini puramente estetici.

Nel II sec. d.C.  (Adriano 117-138) si ebbero le prime nozioni di vincolo e di inalienabilità, grazie alle quali la giurisdizione romana anticipava alcuni aspetti fondanti della moderna disciplina di tutela.

Attraverso al monopolio della tutela, quale unica garanzia per scongiurare interventi indiscriminati sui simboli dell’identità sociale e della continuità col passato e con la tradizione, si inibivano le demolizioni, i saccheggi, le spoliazioni e le esportazioni dei marmi (con Adriano 117-138, cugino di Traiano a cui succedette). Veniva così istituito il Comes nitentium rerum (“sorvegliante delle cose che splendono”), magistrato con l’incarico di sovrintendere all’edilizia privata e all’integrità dei marmi che la decorano.

Tuttavia con Diocleziano, che aveva dovuto far fronte ad uno spaventoso incendio nel 283, cambia l’atteggiamento verso i monumenti e i resti danneggiati che vengono più facilmente riutilizzati come materiale di reimpiego, come l’arco di Costantino e il Foro di Cesare, restaurato con elementi di reimpiego ricavati dalla demolizione di monumenti più antichi. Nell’arco di Costantino i bassorilievi dell’attico risalgono a Traiano e a Marco Aurelio, mentre i clipei che sovrastano i fornici laterali sono di epoca adrianea. Questo esempio di riutilizzo tuttavia non è casuale, ossia non legato al risparmio di marmi, bensì simbolicamente connesso alla figura del priceps cristiano, che rendeva in tal modo omaggio ai predecessori.

A causa del grave incendio quindi veniva perseguita, sebbene non ancora postulata come per l’arte paleocristina, l’estetica del reimpiego.

Risulta ancora utile ricordare l’attività espletata nel campo dell’architettura da Costantino in Roma, prima della fondazione di Costantinopoli e del trasferimento della corte nella nuova sede sul Bosforo, in quanto prevede poche fondazioni nuove ed un imponente numero di ristrutturazioni.

A Costantino si deve la rotazione di 90° della Basilica di Massenzio, iniziata dal suo predecessore. L’architetto che realizzò la basilica di Massenzio risolse il problema secolare di coprire il maggior spazio possibile eliminando le tradizionali file di colonne o pilastri, ricorrendo a due coppie di setti (peraltro ampiamente forati a livello del suolo) che scandivano tre possenti vani voltati a botte disposti perpendicolarmente sui due lati di una navata centrale coperta da tre volte a crociera. Queste ultime impostandosi a livello del cervello (chiave) delle volte a botte laterali permettevano enormi finestre sui lati lunghi della navata centrale che risultava così molto illuminata. La spinta della crociera, scaricata mediante tozzi archi rampanti esterni sui sottostanti setti divisori, all’interno sembra sopportata da gigantesche colonne corinzie che invece erano praticamente scariche. Costantino non si limitò a completare la basilica ma rivoluzionò la fruizione dell’edificio aprendo un accesso monumentale sulla Via Sacra attraverso il vano mediano della navata ovest e sfondando la parete di fondo. La basilica di Massenzio segnerà l’apogeo della grande architettura voltata e fungerà da modello per la ricostruzione rinascimentale della basilica di San Pietro. Le volte cassettonate, oltre ad avere un grande effetto estetico, presentavano il vantaggio di comportare un peso inferiore a fronte di una resistenza non intaccata, tant’è che saranno utilizzate nell’intervento di restauro del tempio adrianeo di Venere e Roma, dove un incendio che aveva distrutto il tetto, aveva indebolito le pareti delle celle, per le quali si intervenne con una “fodera” in laterizio.

Per quanto riguarda gli interventi di restauro e consolidamento, talvolta in corso d’opera (anche a causa di eventi sismici), è bene ricordare il c.d. Ninfeo degli Horti Liciniani, meglio noto col nome di tempio di Minerva Medica di età costantiniana.

La struttura, a pianta centrale che sviluppa una teorie di esedre che si impostano sui nove lati di un decagono, era così audace che già in antico si resero necessari lavori di consolidamento attraverso l’aggiunta di robusti speroni e due esedre-ninfeo che bloccavano la spinta della struttura voltata interna. Di particolare interesse era la struttura voltata che presentava dieci costoloni in laterizio affogati nel cementizio della muratura della cupola. In questo caso i costoloni costituivano realmente la struttura portante della cupola, inoltre tra l’intradosso e l’estradosso della cupola erano degli archi di scarico come nel Pantheon (accorgimento poi ripreso per la cupola di San Pietro). Inoltre nei gradoni dell’estradosso della cupola sono affogate olle fittili (vasi panciuti usati per conservare cibi o come urne funerarie) al fine di alleggerire il peso della cupola al di sopra di quella che diremo oggi “sezione di cerniera plastica”.

Con la decadenza dell’impero e con l’affievolirsi dell’autorità statale la tutela delle opere e dei monumenti è applicata con meno rigore. La spoliazione dei monumenti imperiali nella tarda antichità diventa una pratica diffusa e sistematica, tant’è che in epoca paleocristiana tutti gli edifici di età pagana vengono sistematicamente demoliti, sia per ragioni economiche che per ragioni ideologiche. Con Costantino, imperatore dal 306 al 337, si ha un’intensa attività edilizia di chiese cristiane utilizzando materiale di spolio, in particolar modo dal 313, Editto di Milano, con cui si riconosce e si concede piena libertà di culto ai cristiani.

Così i cristiani si rifanno, nell’edificazione delle loro basiliche, alle tipologie architettoniche romane e reimpiegano, all’interno o all’esterno delle chiese, ornamentazioni e decori plastici sottratti ai monumenti imperiali. Un esempio per tutto è la chiesa di Santa Sabina a Roma (V sec. d.C.), dove l’ampia navata costituisce un mirabile palinsesto di materiali di spoglio impiegati nella struttura e nell’ornamento, come le colonne corinzie romane che sorreggono una teoria di arcate, secondo una consuetudine ravennate. L’esigenza di riutilizzare i materiali e i decori prevale quindi su ogni forma di salvaguardia monumentale.

 

Bibliografia

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[1] Nella civiltà del Lazio primitivo e nella “grande Roma” dei Tarquini sono ormai accertati caratteri autonomi e diretti legami con la Grecia.

[2] Come le isole intorno alla Sicilia o Empuries in Catalogna.

[3] Nuovo canone di Lisippo. Spetta a Lisippo di Sicione il merito di aver espresso con armonica organicità il nuovo canone della figura umana, aderente alla diversa visione e al nuovo gusto del IV sec. a. C. Egli studiò il problema della simmetria sostituendo un sistema di proporzioni, mai usato fino allora, alle stature “quadrate” degli antichi, trasformando cioè la “quadratio” policletea, la composizione chiastica della statua atletica proprio di Policleto, con l’impicciolimento della testa e col rendere il corpo più snello ed asciutto, in modo che la figura desse l’impressione di maggiore altezza. Es. l’Apoxyòmenos, atleta che si deterge con lo strigile, noto dalla copia romana che si trova in Vaticano.

[4] L’arte di progettare e coltivare i giardini era comunemente qualificata come topiaria opera, utilizzando un termine derivato dal greco topeîon, che indicava letteralmente una corda, ma anche una pianta flessibile o un rampicante. La topiaria opera era dunque un giardino dove crescevano piante rampicanti, avvolte su graticci e porticati, uno spazio allestito dall’uomo dove l’arte e la natura s’incontravano armoniosamente.

[5] Publio Elio Adriano (117-138) ebbe un interesse personale e specifico per l’architettura e si interessò di persona all’attività progettuale, entrando in conflitto con l’architetto imperiale del suo predecessore (Tiberio), Apollodoro di Damasco.